lunedì 30 giugno 2014

GELA, 30 DICEMBRE 2007. I PIZZINI NELLA PANCIA.

Rosario Crocetta è il sindaco di Gela, votato dal 70% della città. Ha 57 anni, è gay, è comunista, è il Gary Cooper di una delle città più mafiose, più povere, più distrutte, l'ultimo lembo d'Italia, quello in cui Enrico Mattei scoprì il petrolio.
Siamo usciti dal suo ufficio - porte blindate, vetri antikalashnikov - «in convoglio». Siamo all'hôtel Sileno, chiuso per l'occasione, scortatissimi. La proprietaria si informa se il sindaco ha preso la pastiglia per il diabete.
Telefona il Tg3 per fissare il collegamento: Gela farà una fiaccolata a Capodanno in solidarietà con i morti della Thyssen di Torino. Pochi minuti prima sono partite le suonerie delle scorte - chi Tim, chi Vodafone, chi Wind: è morto il settimo operaio.
Le straordinarie misure di sicurezza che circondano Crocetta sono la conseguenza di un fatto eccezionale. Il principale bandito in città, il capo locale di Cosa Nostra con cui Rosario Crocetta ha ingaggiato e vinto la più coraggiosa e pericolosa delle battaglie politiche, è morto ammazzato. Ma non in uno scontro tra faide: ammazzato dalla polizia.
In un episodio più unico che raro - i mafiosi ammazzano i poliziotti, ma i poliziotti non ammazzano i mafiosi, perché nelle storiche regole di ingaggio tra lo Stato e la mafia l'evento da sempre è considerato pericoloso - Daniele Emmanuello, 43 anni, è morto colpito da almeno un proiettile alla nuca mentre fuggiva da un casolare in cui si era appostata una squadra «catturandi» della polizia di Stato. Era uno dei dieci più importanti latitanti italiani. È successo il 3 dicembre scorso, a Villarosa, nelle campagne tra Enna e Caltanissetta. All'alba, e c'era nebbia.
La polizia aveva circondato l'edificio, uno dei tanti «non finiti» con i mattoni a vista, ma non sapeva che un robusto catenaccio chiudeva la porta dall'interno. Così, quando cercarono di sfondare per il blitz, furono respinti dal metallo e dai cardini e impiegarono molti minuti per farsi strada.
Emmanuello si rivestì velocemente, lasciò il fucile sotto il letto e si gettò dalla finestra per fuggire nei campi.
La polizia gridava «arrenditi!» e sparava in aria. Poi tra il lusco e il brusco videro una sagoma allontanarsi tra gli alberi. Spararono in basso, ma Emmanuello correva acquattato e si prese la pallottola destinata ad un polpaccio direttamente nell'occipite.
Questa la versione della polizia. Una primissima versione aveva riportato che Emmanuello era morto in séguito alla caduta dalla finestra. Ma quando il cadavere venne messo su un tavolo settorio per l'autopsia, si scoprì quello che nemmeno gli sceneggiatori di Twin Peaks o di Csi oserebbero proporre. Il morto aveva inghiottito, prima di fuggire, diversi «pizzini» che ora si trovavano nella gola, nell'esofago, nello stomaco. Quadratini di carta di cinque centimetri di lato scritti fitti fitti, avvolti in un sottile cellophane.
Papiri arrotolati destinati a morire con il Faraone, ma anche le credenziali che il boss scampato all'arresto avrebbe cacato intatte come tanti ovuli di cocaina e avrebbe sciorinato di fronte alla Commissione di Cosa Nostra, sempre che esista ancora. O forse erano solo amuleti.
Ma, incredibilmente, i pizzini di Emmanuello lo hanno tradito. Il sottile strato di cellophane ha resistito ai succhi gastrici e, uno dopo l'altro, i quadratini sono ricomparsi, con il loro inchiostro intatto. Che cosa c'è scritto? Nell'assenza di notizie ufficiali, le voci a Gela si alimentano: Emmanuello portava con sé l'investitura per il ruolo di nuovo capo di Cosa Nostra siciliana e quel casolare era solo una tappa del suo viaggio trionfale verso Palermo; aveva un messaggio per la sua amante segreta; aveva le prove dei suoi contatti con un importante senatore che «teneva in mano»; aveva, aveva...
Aveva la mafia nella pancia ed era il ventre della mafia. La leggenda locale dice che nella pancia del boss ci sia il Quarto livello.
Rosario Crocetta aveva fatto esplicitamente di Daniele Emmanuello il nemico principale di Gela. E il sindaco era stato molto coraggioso, visto che Emmanuello dominava il crimine della città, ma tutti avevano paura di fare il suo nome. Lo aveva attaccato frontalmente in tutti i comizi. Lui, che disponeva di un esercito di duemila picciotti. Inaugurando il nuovo carcere aveva manifestato il desiderio di averlo come primo ospite, aveva cacciato dall'ufficio sua moglie, impiegata comunale che aveva ottenuto il posto in virtù di un «reddito minimo di inserimento».
La signora Emmanuello naturalmente disse che era stato il sindaco a fare uccidere suo marito. Volle dei funerali pubblici che, nelle intenzioni della famiglia, avrebbero dovuto essere uno show di potenza. Il prefetto li vietò e Daniele Emmanuello fu seppellito in forma privata.
Quando ho chiesto al sindaco Crocetta quanti, secondo lui, sarebbero intervenuti alle pubbliche esequie, mi ha risposto: «Migliaia, sicuramente. I picciotti del suo esercito ci sarebbero stati tutti, e poi sarebbero stati presenti i membri della famiglia allargata non solo degli Emmanuello, ma anche dei Madonia, dei Rinzivillo, dei Fiandaca, la mafia del vallone. E poi ci sarebbe stato qualche politico locale...».
Rosario Crocetta, alla notizia della cattura e della morte di Daniele Emmanuello, ha semplicemente detto che gli dispiaceva che fosse stato ucciso in un incidente nel corso di una delle più brillanti operazioni di polizia svolte in Sicilia, ma che considerava quella data, il 3 dicembre 2007, «il giorno della liberazione di Gela».
«Ho ricevuto molte telefonate di appoggio» mi dice il sindaco «anche il ministro dell'Interno; ma un po'"mi sento solo. Certo è stato meglio che non ci siano stati funerali pubblici, ma io non ho mai visto una chiesa che chiude perché è morto il parroco. E questo parroco era anche un generale che ha condotto una guerra.
Perdendo Gela, non ha perso una lontana provincia, ha perso una quantità di soldi che nemmeno ti immagini».
Daniele Emmanuello tutto si aspettava tranne che di essere ucciso dalla polizia di Stato. Erano quattro fratelli, nipoti del capo di Cosa Nostra di Gela, detto «U furmiculuni». Daniele aveva studiato a Genova per diventare perito chimico e alla fine degli anni settanta aveva frequentato le Brigate rosse. Suo fratello Nunzio lo ha fatto ancora di più (gli epigoni delle Br lo ricordano come il «compagno figlio di contadini meridionali» e un pentito, Filippo Vitale, ha affermato in un processo che era addirittura nel commando che rapì Moro in via Fani). Daniele tornò quando U furmiculuni venne ucciso dalla Stidda, una forma di mafia municipalistica che sfidava il potere dei vecchi di Cosa Nostra. La guerra la vinse Emmanuello, e si dimostrò spietato. Duecento morti, attentati, incendi, bombe, stragi. Abbassò fino a 14 anni l'età minima dei suoi soldati, usò tecniche di guerriglia, si fece la fama di uomo feroce e di killer in grado di centrare a 20 metri un bersaglio in movimento. È stato uno dei custodi del piccolo Santino Di Matteo. Insieme ai Rinzivillo, ai Madonia si apprestava ad ampliare il proprio potere territoriale. E aveva questi pizzini nella pancia, che sono visibili sul sito della polizia di Stato. E che saranno studiati. Come le lettere di Aldo Moro. Come il papello di Salvatore Giuliano, che non si è mai trovato, ma un giorno si troverà. Come il papello di Totò Riina e della sua trattativa con lo Stato. Come i pizzini di Provenzano su cui studiano anche i biblisti.
Un po'"di storia patria recente è stata scritta a mano. Aldo Moro scriveva alternativamente con una Bic o una Tratto Pen.

Enrico Deaglio (tratto da "Patria 1978-2008 edito da "Il Saggiatore" nel 2009)

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