sabato 9 agosto 2014

Passa il nuovo Senato ma la maggioranza non ha più i numeri


Gli altri avevano abbandonato l'Aula. Senza i 36 senatori azzurri (e i 4 di Gal) la coalizione che sostiene il governo di Matteo Renzi si sarebbe fermata a 143 unità, insufficienti per far passare alcunché a Palazzo Madama che, per adesso, è ancora composto di 321 parlamentari e quindi la maggioranza assoluta richiede 161 voti. La fotografia, però, restituisce un quadro politico molto confuso. 
Ogni partito si è, infatti, sfaldato dinanzi alla trasformazione del Senato in camera delle autonomie con rappresentanti di secondo livello scelti dai consigli regionali. 
Certo, ci sono ragioni personali (alcuni senatori non vogliono perdere la prerogativa fin qui avuta) e politiche (le defezioni sconfessano l'autorità dei rispettivi leader, a partire da Renzi e Berlusconi), ma di sicuro l'iter della riforma tanto alla Camera quanto in seconda lettura al Senato non sarà sicuramente agevole. Circostanza che dovrebbe preoccupare il premier in vista di importanti passaggi parlamentari quali la legge di Stabilità, la riforma della legge elettorale e il ddl delega sulla pubblica amministrazione. Da ieri, però, i senatori sono tutti in vacanza: se ne riparla il 3 settembre. 
Vale la pena, tuttavia, esaminare partito per partito la compattezza delle rispettive schiere. Il Pd, che conta su 109 senatori, ha perso per strada 14 voti, mentre due senatori si sono astenuti. Sono quelli dei dissidenti (tra questi Chiti, Mineo, Mucchetti e anche l'assente Corsini fa parte del gruppo). Anche ieri hanno manifestato la propria contrarietà a una riforma che rafforza i poteri del premier e toglie poteri di veto al Senato e di riflesso alla presidenza della Repubblica che non indicherà più senatori a vita, ma nominerà solo 5 senatori. Il principale alleato, l'Ncd di Angelino Alfano, s'è perso un terzo dei voti (8 su 32), mentre due defezioni, tra cui quella dell'ex ministro Mauro, si sono registrate in Per l'Italia (10 senatori). Anche contando i sette sì di Scelta Civica (condannata ad appoggiare Renzi essendo politicamente irrilevante) e i 12 delle Autonomie oltre ai 6 «dissidenti al contrario» di Gal, quella ventina di voti non assicura più una maggioranza certa.
Di qui l'importanza di Fi che, su 59 senatori, ne ha persi per strada 19 (13 tra i quali Minzoli e Bonfrisco in polemica e 6 assenti tra cui Bondi, Repetti, Ghedini e Bocca). L'ala che fa capo a Raffaele Fitto, non partecipando alla votazione, ha rinsaldato il legame con le dure opposizioni di Lega e Fdi. Ieri, però, ha prevalso la soddisfazione. Soddisfatto Renzi («Nessuno potrà più fermare il cambiamento»), soddisfatto il ministro Boschi («È un primo segnale importante») e soddisfatti soprattutto gli esponenti berlusconiani di Fi come Giovanni Toti, Mariastella Gelmini e Maurizio Gasparri. «Senza di noi le riforme sono impossibili», hanno dichiarato. Solo quelle, però, perché la distanza sulla politica economica, al momento, è incolmabile.
Del voto di ieri resteranno pure due istantanee. Quella del leghista Roberto Calderoli, relatore nonché uno dei 4 astenuti, che ha espresso rammarico per una riforma che, con piccole modifiche, avrebbe potuto essere approvata a larghissima maggioranza. L'altra è quella dei senatori grillini che abbandonano l'Aula in fila indiana. I grandi sconfitti, ora, sono loro.

Gian Maria De Fracesco (Il Giornale - 9 agosto 2014


 

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