lunedì 8 settembre 2014

Mappe - Il leader che spara sul quartier generale

Lo sguardo degli italiani sul futuro economico del Paese è scettico. Anzi: piuttosto pessimista. Eppure, la fiducia nel governo resiste. Tanto più nei confronti del premier. Di Renzi. Lo dimostrano i primi sondaggi realizzati dopo la pausa estiva.

Non è un fatto nuovo. È avvenuto anche in passato. Quando al governo erano Berlusconi, in particolare, e, più di recente, Monti. È l’effetto di diversi fattori. Riflette, in particolare, la capacità del leader di trasmettere fiducia ai cittadini. E, reciprocamente, la ricerca, da parte dei cittadini, di qualcosa o qualcuno in cui credere, in tempi di crisi. Il problema, però, è che se la crisi dovesse acuirsi ancora e durare a lungo, com’è probabile, allora la sfiducia tenderebbe a trasferirsi, soprattutto, sul governo e, per primo, sul Capo. Ne è ben consapevole Renzi. Il quale, anche per questo, sta seguendo una strategia di comunicazione e di relazioni, in parte, diversa dalla fase precedente.

1. In primo luogo, sembra aver temperato lo stile iper-cinetico dei primi mesi di governo. Non che sia divenuto “lento”, ci mancherebbe. Non è nella sua natura. Ma ha cambiato tabella di marcia. Non più — solo — tappe ripetute, a scadenze ravvicinate. L’orizzonte di governo, così, si è allungato. Abbraccia i prossimi 1000 giorni. E giunge, cioè, quasi alla fine della legislatura. Un modo per lanciare due messaggi. A) Che intende restare e governare a lungo. B) Che è finito il tempo dell’annuncite. Degli annunci reiterati e ansiogeni, senza soluzione di continuità. Oggi Renzi detta tempi “realisti”. Anzi, chiarisce che “correrà” per mesi, anni. “Passo dopo passo”. E, dunque, durerà a lungo. Come la legislatura. Naturalmente, ciò non significa che Renzi abbia, davvero, rinunciato all’idea di elezioni anticipate. Dipende: dall’opportunità, dalla convenienza, dalle condizioni — economiche e politiche — generali. Insomma, dal clima d’opinione.

2. Anche per questa ragione il premier ha affilato l’altra faccia della sua strategia di comunicazione e di relazioni. Ben espressa, nei giorni scorsi, dalla sua assenza all’incontro organizzato, come ogni anno, a Cernobbio dal Forum Ambrosetti. Il “salotto buono” (come ha appuntato ieri Eugenio Scalfari) frequentato dai principali attori dell’impresa e della finanza. Oltre che, di riflesso, delle istituzioni e della politica. (Era presente anche Roberto Casaleggio, ideologo del M5s.) Renzi, invece, ha preferito inaugurare una rubinetteria. Si è recato a Gussago, nel bresciano. Dove «le imprese investono». E, ha aggiunto, «ne girerò tante». Un modo esplicito per dichiarare la sua “diversità” rispetto alla classe dirigente nazionale. La sua “estraneità” rispetto ai luoghi e ai gruppi che guidano e controllano la politica e i mercati. I “grandi imprenditori”. Ma non solo, visto che a Cernobbio si riuniscono anche i gruppi dirigenti della finanza. E del sindacato. Verso il quale Renzi, d’altronde, non ha mai mostrato particolare attenzione. Fin dall’inizio ha annunciato che «la musica è cambiata. Andiamo avanti anche senza i sindacati ». E, dunque, anche senza concertazione.

Così, Renzi ha proceduto “veloce”, marcando la sua distanza dal sindacato ma anche dalle associazioni imprenditoriali. Da molto tempo, in declino di consensi, fra gli elettori. Il sindacato, in particolare: stimato da circa 2 italiani su 10. E, di conseguenza, guardato con diffidenza dagli altri 8. Anzitutto e soprattutto, dai lavoratori dipendenti. D’altronde, la componente più ampia degli iscritti è costituita dai pensionati. Mentre la fiducia nelle associazioni degli imprenditori non supera il 30%. Renzi, in altri termini, ha scelto di prendere le distanze da soggetti e organizzazioni che gran parte dei cittadini considera “lontani” dai loro problemi e dai loro interessi. Complici della Casta. Anzi, anch’essi Casta (e, dunque, non “casti”). Per la stessa ragione, il premier ha agito, senza troppa diplomazia, nell’ambito della Ue. Dove ha “imposto” la ministra degli Esteri, Federica Mogherini, come “Lady Pesc”. Cioè, al posto di Alto Rappresentante per la politica estera europea. Dopo lunghe trattative e tensioni molto accese. Ieri, a Bologna, ha annunciato il “patto del tortellino” con i leader della sinistra europea, per prendere le distanze dalla Germania e dalla Merkel.

Perché a Renzi interessa contare, ma, ancor più, marcare i confini con i “poteri forti”. In Europa. E non solo. Gli interessa mostrarsi “dalla parte del popolo”. Per usare le sue parole: “Contro l’Europa delle banche e a favore dell’Europa delle famiglie”. Contro l’establishment che oggi lo tratta con sospetto o, peggio, con dispetto. Ma, come ha sostenuto di recente, sul Sole 2-4 Ore , intervistato dal direttore Roberto Napoletano, «è lo stesso che ha portato il Paese in queste condizioni». Mentre lui, lo ha ribadito ieri, alla Festa dell’Unità a Bologna, non accetta lezioni «da tecnici della Prima Repubblica».

Renzi, dunque, oltre agli amici, sceglie con cura i “nemici”. I “gufi” che scommettono contro di lui e contro il governo. L’establishment, appunto. Che controlla economia e affari. I professionisti del sindacato, i circoli degli affari e dell’impresa. Dell’informazione e della cultura. Allo stesso tempo, non esita a riproporre il blocco delle retribuzioni dei dipendenti. Pubblici. In primo luogo: statali. Non solo perché, come ha ammesso la ministra Madia, «non ci sono i soldi». Ma anche perché il pubblico impiego, gli “statali”, nella percezione popolare, rappresentano una categoria privilegiata. Non (sol) tanto dal punto di vista retributivo, anche per condizioni e tempi di lavoro, oltre che (un tempo, soprattutto) di pensionamento.

Renzi, dunque, per contrastare le difficoltà crescenti che minacciano la popolarità del suo governo, polemizza contro il mondo economico e politico. Di cui, tuttavia, anch’egli fa parte. Prende le distanze dalle caste e dai gruppi di interesse. Dalle categorie sociali “privilegiate”. Dall’establishment europeo e statale. Dagli “statali”. Anche dal Pd. Che Renzi ha trasformato in PdR. Renzi oggi è il leader di un post-partito e di un post- governo personale. Premier di un “popolo” di post-italiani. Che, come avvertiva Edmondo Berselli oltre 10 anni fa, abitano un “Paese provvisorio”. Da ciò il problema di Renzi. Perché è difficile correre veloce, da solo contro tutti, per mille giorni e oltre. Senza che la “provvisorietà”, più che un vizio, divenga uno stile narrativo necessario per governare il Paese. Dunque, uno stile di governo, visto che, in tempi di democrazia ibrida, la distanza fra narrazione e governo è molto sottile.

 

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