giovedì 16 ottobre 2014

ALLA MEMORIA

Non contento di aver impartito per otto anni ordini e moniti a tutte le categorie professionali, dai parlamenti ai governi, dai partiti di maggioranza a quelli di opposizione, dagli elettori ai magistrati, dalla Consulta ai giornalisti, dai movimenti di piazza ai sindacati, dagli storici agl’intellettuali, senza dimenticare i calciatori, i produttori cinematografici, i registi e gli attori, con l’eccezione forse dei cantanti e dei trapezisti, Re Giorgio I e II di Borbone ha voluto insegnare ai pm antimafia come si fa il pm antimafia. L’ha fatto col solito messaggio trasversale da Pizia di Delfi, senza nomi, affinché chi ha orecchie da intendere intenda, in occasione della consegna di una medaglia a Maria Falcone: “Ricordo che la lotta contro la mafia la si fa come la faceva Giovanni”. La sorella di “Giovanni”, come lo chiama Napolitano, manco fossero compagni di birilli, ricorda “l’efficacia del metodo Falcone, lo scrupolo con cui veniva trattato ogni dettaglio, cercando sempre il riscontro giuridico della prova”. Il sottinteso è subito colto dal Foglio di Ferrara: “il contrario dei processi imbastiti con le fanfare dello scandalismo ma privi di basi giuridiche e di un apparato probatorio consistente, che finiscono spesso nel nulla”, ma “spargono diffidenza e sospetto sulle istituzioni”. Il tutto a due settimane dalla deposizione di Sua Maestà al processo sulla trattativa. Processo così privo di basi giuridiche e apparato probatorio che tutte le istituzioni non fanno che ostacolarlo, col contorno di visite dei servizi nelle carceri per comprare bugie dai mafiosi.Restano però inevase due domande: 
1) Che ne sa Napolitano del metodo Falcone? Poco, a giudicare dalla pessima prova fornita da ministro dell’Interno, dal 1996 al ’98, quando furono chiuse le supercarceri di Pianosa e Asinara (simboli del 41-bis inventato da Falcone) e lui stesso prese a strillare che “i pentiti sono troppi” e bisognava cambiare la legge (inventata da Falcone) per sforbiciarli, guardacaso proprio mentre iniziavano a parlare della trattativa col Ros. La legge Napolitano fu poi varata nel 2000 dal guardasigilli Fassino. E persino Piero Grasso, non proprio un cuor di leone, commentò: “Con questa legge, al posto di un mafioso, io non mi pentirei più”. Infatti non si pentì più quasi nessuno, a parte alcuni pentiti che si pentirono di essersi pentiti e ritrattarono ciò che avevano già detto. Missione compiuta.
2) Davvero Falcone usava un metodo più rigoroso di quello dei suoi successori? No, anzi è vero il contrario: le prove ai suoi tempi sufficienti per condannare oggi non bastano più, a causa di quell’“innalzamento della soglia probatoria” descritto dai giuristi nell’ultimo ventennio, specie nei processi di mafia e politica. Basta leggere il mandato di cattura spiccato nel 1984 da Falcone per i cugini Nino e Ignazio Salvo dopo le rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta. Questi raccontò che gli esattori erano “uomini d’onore” e lo avevano ospitato nella loro villa a Santa Flavia. Quali riscontri trovò Falcone a quelle accuse? Si fece descrivere la villa, andò a verificare sul posto e scoprì che la descrizione corrispondeva: i Salvo finirono dentro e poi furono condannati al maxiprocesso. Allora bastava la “convergenza del molteplice”: un pentito confermato da uno o più pentiti (il Maxi si reggeva su tre: Buscetta, Contorno e Calderone). Oggi non più: molti politici accusati non da tre, ma da 30 collaboratori di giustizia attendibili e mai condannati per calunnia, sono stati assolti. Compreso Andreotti per il post-1980: anche per l’incontro con Riina nella casa palermitana di Ignazio Salvo che il pentito Di Maggio aveva descritto dettagliatamente, come Buscetta la villa di Santa Flavia. Di che va cianciando, allora, Napolitano? 
L’incontro con Maria Falcone era un’ottima occasione per solidarizzare finalmente con i pm di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia e per questo sono stati condannati a morte un anno fa da Riina (Di Matteo) e ricevono minacce e visite in ufficio da uomini delle istituzioni che lasciano scritte e lettere minatorie (Scarpinato). Ma non è parso il caso. I magistrati si celebrano solo da morti. Di Matteo e Scarpinato sono ancora vivi. 

 

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