Che cos’è la Leopolda? ha chiesto tremando di
inquietudine all’ultima direzione del Pd Gianni Cuperlo. E non sapeva,
l’ex candidato alla segreteria, che inizialmente nello staff di Matteo
Renzi si era meditato di aprire la sera del 24 ottobre la quarta
edizione dell’appuntamento politico più atteso della stagione nella
grande ex stazione ferroviaria di Firenze con un video che ricordava la
sconfitta del premier-segretario alle primarie del 2012 vinte da Pier
Luigi Bersani. A sottolineare che da quella caduta è partita la
cavalcata che ha portato oggi Renzi a governare il Pd e il Paese. Poteva
suonare come una provocazione ed è stata scartata, ma la domanda di
Cuperlo suona comunque fuori tempo massimo e in ogni caso mal posta. Non
esiste, infatti, una Leopolda. Esistono tante Leopolde, almeno quanti
sono i volti di Renzi: flessibile, liberista, solidale, socialista.
Non è un congresso di partito, non è un raduno di corrente, non è un workshop sul lago. La Leopolda è una purissima rappresentazione mediatica, in cui anche un respiro rimbalza sulla rete e diventa immediatamente streaming, tweet, selfie, evento, Alessandro Baricco e Oscar Farinetti, ma è anche il momento in cui il popolo di Renzi si fa di carne e di sangue: volti, voci, mani che si toccano, aria viziata che si respira tutti insieme. La Leopolda è, soprattutto, una classe dirigente che aspira a restare al vertice per decenni. La sola cresciuta in Italia dopo l’epoca dei partiti di massa, i comitati civici della Dc e le Frattocchie del Pci, e la Seconda Repubblica della Publitalia di Silvio Berlusconi, ma tutta costruita in casa, in un vuoto di rappresentanza. Razza Leopolda, la nuova razza padrona. Dall’assalto al cielo all’establishment. Dalla rottamazione all’occupazione. Dalla lotta al governo, anzi, alla poltrona. Dall’uno contro tutti, come appariva Renzi appena due anni fa, al tutti per uno, com’è nel 2014, quando nella Roma dei palazzi è diventato impossibile trovare un emergente o un aspirante, o un consumato gattopardo, che non si dichiari preventivamente renziano.
Una rete di amicizie. Un gruppo di influencers passato in pochi mesi dalle web community riservate su whatsapp alla gestione di ministeri, enti pubblici, banche. Quello che non si vede, quel che resta nell’ombra mentre la Leopolda esalta il carisma comunicativo di Renzi. Il premier che si fa chiamare Matteo (Matteo-uno-di-noi) predica e pratica la dis-intermediazione, ovvero l’annichilimento, o almeno il superamento, dei corpi intermedi, dai sindacati alla Confindustria ai giornali, il rapporto diretto tra il popolo e il leader, ma riempie lo spazio vuoto di nuovi mediatori: le lobby, sempre più sganciate dai tradizionali riferimenti politici (clicca qui) , e la cordata che si è formata in quattro anni di Leopolde. La modernità dei mezzi, delle strategie di persuasione, coinvolgimento, partecipazione, consenso. La velocità, l’informalità, la struttura a rete, che fa della Leopolda, ancora più del Movimento 5 Stelle, la versione politica di Facebook. Un gigantesco social network, senza gerarchie, almeno in apparenza. Che negli ultimi otto mesi, da quando Renzi ha conquistato Palazzo Chigi, convive con l’antica materialità del potere, da conquistare e da spartire secondo le regole di sempre. La fedeltà e l’obbedienza al Capo.
«Lo schema è molto semplice», spiega uno dei mediatori, alla frontiera tra la politica e l’economia, neppure tanto desideroso di auto-definirsi renziano «perché tanto tutti giurano di esserlo». «Basta vedere come sono stati composti i consigli di amministrazione nell’ultima infornata di nomine. La presidenza spetta a una donna, per simboleggiare la novità. In ogni cda c’è un uomo della Leopolda che deve fare da sentinella, uno vicinissimo al premier e un amministratore delegato che gli deve la promozione». Una nuova forma di lottizzazione rispettata alla lettera. La regola aurea del nuovo potere. Non più il manuale Cencelli. Il manuale Leopolda.
All’Enel, infatti, sorveglia per conto del premier l’avvocato Alberto Bianchi, silenziosa eminenza grigia del renzismo, presidente della fondazione Open che organizza e cura la Leopolda e raccoglie i fondi per l’evento: il vertice del cerchio magico del premier, con il sottosegretario Luca Lotti, il ministro Maria Elena Boschi, la madrina dell’evento, fu qui che fece il suo esordio in pubblico nel 2011, l’amico di sempre Marco Carrai. Nel cda di Finmeccanica c’è Fabrizio Landi, alla Leopolda tre anni fa parlava del crollo dei salari medi e bassi, di crescita disuguale e delle difficoltà dei quarantenni ad aprire un’impresa, oggi affianca Mauro Moretti ai vertici dell’azienda. In Eni nel cda c’è l’aretina Diva Moriani, che lavorava a Intek con Vincenzo Manes, finanziatore della fondazione Open, ma anche l’economista Luigi Zingales, che fu la star dell’edizione 2011 della Leopolda, applauditissimo con la sua requisitoria: «L’Italia è governata dai peggiori. L’80 per cento dei manager dichiara che la principale strada per arrivare al successo è la conoscenza di una persona importante, poi ci sono lealtà e obbedienza, la competenza arriva solo quinta».
Parole sante, chissà che ne pensa Marco Seracini, inserito nel collegio sindacale dell’Eni, già revisore dei conti nel comune di Rignano dell’Arno (dove vive la famiglia di Renzi) e presidente del collegio sindacale della srl Stazione Leopolda. Una doppia garanzia che lo ha portato con Renzi sindaco di Firenze a presiedere l’azienda cittadina di servizi alla persona Montedomini. Nel curriculum vanta anche l’associazione NoiLink, il prototipo di tutte le fondazioni renziane (Big Bang prima e Open poi).
Alle Poste il manuale Leopolda è doppiamente rispettato. Nel cda c’è la fiorentina Elisabetta Fabri, amica del premier, presidente della catena alberghiera Star Hotels, ma il vero leopoldino della prima ora è Alberto Campo dall’Orto, autentico guru degli incontri renziani: «Chi sono le persone che ispirano i giovanissimi?», si chiedeva nel 2011. «Le ricerche dicono: gli amici, il papà, la mamma». Non molto originale, ma pazienza, nella classifica mancava Renzi, l’amico influente che nei prossimi mesi potrebbe portarlo in viale Mazzini come direttore generale della Rai. L’unica azienda che ancora non è stata travolta dal ciclone fiorentino, ancora per poco, si immagina.
Nel cda delle Ferrovie c’è la romana Simonetta Giordani, lobbista di lungo corso come responsabile relazioni istituzionali della Società Autostrade e poi sottosegretaria alla Cultura nel governo Letta, ma chissà se questo curriculum sarebbe bastato per ottenere l’incarico. Serviva anche un intervento alla Leopolda, edizione 2011: «Il motore del successo sono le persone, le donne», disse in quell’occasione, a Renzi piacque molto. Nel cda delle Ferrovie è stato nominato anche l’avvocato fiorentino Federico Lovadina, consigliere delegato dell’azienda di trasporti urbani di Firenze Ataf, lui non si è mai esibito sul palco Leopolda, ma in compenso il suo studio legale è in via Scipione De’ Ricci a Firenze, dove ha sede anche l’avvocato Francesco Bonifazi, deputato renziano e tesoriere del Pd, l’uomo che deve far quadrare il fund raising del partito rimasto senza finanziamento pubblico.
Nomi sconosciuti al grande pubblico, al pari di Cosimo Pacciani, nell’account twitter si firma CosmayDamiano e si presenta «born in Florence. Londoner by destiny», dirigente della gestione rischi della Royal Bank of Scotland, oggi all’European Stability Mechanism (Esm), il fondo europeo salva-Stati. Vive da sedici anni a Londra, non deve nulla a Renzi, anzi, è uno dei pochi che possono vantare un credito nei confronti del premier: fu lui, di quattro anni più grande, a spingere Matteo alla carriera politica fin dai tempi della scuola cedendogli il posto di rappresentante di istituto al liceo Dante. È una carta coperta, fa parte del giro stretto che conta ma non appare mai. Unici interventi pubblici gli immancabili tweet («Qui un tempo era tutto un 101, poi è diventato tutto 40,8 per cento ed ora è al 2,9»: dai franchi tiratori di Romano Prodi al risultato di Renzi alle europee alla tentazione di sfondare i vincoli di bilancio europei) e, naturalmente, lo speech dal palco della Leopolda nel 2011: «La nostra classe dirigente non è credibile nel mondo. Dovremmo almeno essere governati da politici che parlano bene l’inglese». E nessuno pensò all’epoca che potesse trattarsi di un attacco al futuro premier.
Geometrico quando si tratta di occupare gli spazi negli enti pubblici, il manuale Leopolda si fa più fumoso quando deve confrontarsi con i ministeri e con i palazzi romani. Nella tre giorni dell’edizione 2014 i ministri del governo Renzi sfileranno e interverranno, «mi hanno garbatamente invitato a farlo», dice uno di loro, ma negli ultimi tempi il premier ha cominciato ad ammettere in privato che se oggi dovesse formare una nuova squadra molti di loro non sarebbero riconfermati. Va riempita la casella degli Esteri lasciata libera da Federica Mogherini, per la Farnesina c’è l’ex diessina Marina Sereni, qualcuno vedeva bene nei giorni scorsi un nome a sorpresa, la deputata milanese Lia Quartapelle, 32 anni, ricercatrice dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale).
Gli ultimi leopoldini al governo sono il piacentino Roberto Reggi, traslocato dal ministero dell’Istruzione all’agenzia del Demanio, e il napoletano Francesco Nicodemo, già nella segreteria Pd, in arrivo nello staff di Renzi a Palazzo Chigi, leopoldino della prima ora, presente fin dalla prima edizione, novembre 2010, quando la kermesse doveva consacrare la leadership alla pari dei rottamatori Renzi e Pippo Civati. «L’idea di Pippo per questo appuntamento è scrivere un vocabolario ideale…», aprì l’incontro l’allora sindaco di Firenze. Ma fu subito evidente che nel vocabolario renziano la leadership alla pari non esisteva, già la prima sera Civati voleva mollare tutto. Matteo lo convinse a restare giurando che gli avrebbe lasciato fare l’intervento finale, invece prese la parola e parlò per più di un’ora, quando Civati concluse in molti avevano già la valigia in mano.
Era lo stato nascente, ingenuo e disordinato. I leopoldini erano in tutto simili ai ragazzi della loro età: un popolo di outsider, di non garantiti. Si identificavano con Renzi che condivideva lo stesso problema: l’impossibilità di essere preso sul serio da un mondo politico, economico e culturale immobile e sclerotizzato. Ora è il contrario, i ragazzi della Leopolda in dieci mesi hanno conquistato il Pd e poi il governo. Sulle capacità di Renzi nessuno scherza più. E la Leopolda sta facendo scuola, anche fuori dall’Italia, non solo nei partiti socialisti tradizionali. A Madrid si è riunita l’assemblea di Podemos, il movimento che sta rottamando i dinosauri della politica spagnola. Lo slogan era di Karl Marx («il cielo non si conquista con il consenso, ma con un assalto»), ma il resto sembrava copiato dal modello fiorentino, a partire dall’obiettivo: conquistare il centro. Della società, certo, perché il centro politico è morto e sepolto.
La partita per i leopoldini sembra già vinta, invece è solo all’inizio. È in incubazione il grande contenitore, il Pd o come si chiamerà, in grado di inglobare sinistra e destra, annunciato dal premier con la modifica della legge elettorale, il premio di maggioranza da consegnare alla lista che arriva prima e non alla coalizione. Pronto all’uso in una tornata elettorale anticipata. Ma la sfida è più ambiziosa: la costruzione di un nuovo partito-Stato, in grado di rappresentare la futura società italiana. La costruzione di un nuovo blocco sociale e di una classe dirigente che sogna di espandersi senza alternative. Per i renziani vale lo slogan della Leopolda di qualche anno fa: «Il meglio deve ancora venire». Un incubo per tutti gli altri.
Non è un congresso di partito, non è un raduno di corrente, non è un workshop sul lago. La Leopolda è una purissima rappresentazione mediatica, in cui anche un respiro rimbalza sulla rete e diventa immediatamente streaming, tweet, selfie, evento, Alessandro Baricco e Oscar Farinetti, ma è anche il momento in cui il popolo di Renzi si fa di carne e di sangue: volti, voci, mani che si toccano, aria viziata che si respira tutti insieme. La Leopolda è, soprattutto, una classe dirigente che aspira a restare al vertice per decenni. La sola cresciuta in Italia dopo l’epoca dei partiti di massa, i comitati civici della Dc e le Frattocchie del Pci, e la Seconda Repubblica della Publitalia di Silvio Berlusconi, ma tutta costruita in casa, in un vuoto di rappresentanza. Razza Leopolda, la nuova razza padrona. Dall’assalto al cielo all’establishment. Dalla rottamazione all’occupazione. Dalla lotta al governo, anzi, alla poltrona. Dall’uno contro tutti, come appariva Renzi appena due anni fa, al tutti per uno, com’è nel 2014, quando nella Roma dei palazzi è diventato impossibile trovare un emergente o un aspirante, o un consumato gattopardo, che non si dichiari preventivamente renziano.
Una rete di amicizie. Un gruppo di influencers passato in pochi mesi dalle web community riservate su whatsapp alla gestione di ministeri, enti pubblici, banche. Quello che non si vede, quel che resta nell’ombra mentre la Leopolda esalta il carisma comunicativo di Renzi. Il premier che si fa chiamare Matteo (Matteo-uno-di-noi) predica e pratica la dis-intermediazione, ovvero l’annichilimento, o almeno il superamento, dei corpi intermedi, dai sindacati alla Confindustria ai giornali, il rapporto diretto tra il popolo e il leader, ma riempie lo spazio vuoto di nuovi mediatori: le lobby, sempre più sganciate dai tradizionali riferimenti politici (clicca qui) , e la cordata che si è formata in quattro anni di Leopolde. La modernità dei mezzi, delle strategie di persuasione, coinvolgimento, partecipazione, consenso. La velocità, l’informalità, la struttura a rete, che fa della Leopolda, ancora più del Movimento 5 Stelle, la versione politica di Facebook. Un gigantesco social network, senza gerarchie, almeno in apparenza. Che negli ultimi otto mesi, da quando Renzi ha conquistato Palazzo Chigi, convive con l’antica materialità del potere, da conquistare e da spartire secondo le regole di sempre. La fedeltà e l’obbedienza al Capo.
«Lo schema è molto semplice», spiega uno dei mediatori, alla frontiera tra la politica e l’economia, neppure tanto desideroso di auto-definirsi renziano «perché tanto tutti giurano di esserlo». «Basta vedere come sono stati composti i consigli di amministrazione nell’ultima infornata di nomine. La presidenza spetta a una donna, per simboleggiare la novità. In ogni cda c’è un uomo della Leopolda che deve fare da sentinella, uno vicinissimo al premier e un amministratore delegato che gli deve la promozione». Una nuova forma di lottizzazione rispettata alla lettera. La regola aurea del nuovo potere. Non più il manuale Cencelli. Il manuale Leopolda.
All’Enel, infatti, sorveglia per conto del premier l’avvocato Alberto Bianchi, silenziosa eminenza grigia del renzismo, presidente della fondazione Open che organizza e cura la Leopolda e raccoglie i fondi per l’evento: il vertice del cerchio magico del premier, con il sottosegretario Luca Lotti, il ministro Maria Elena Boschi, la madrina dell’evento, fu qui che fece il suo esordio in pubblico nel 2011, l’amico di sempre Marco Carrai. Nel cda di Finmeccanica c’è Fabrizio Landi, alla Leopolda tre anni fa parlava del crollo dei salari medi e bassi, di crescita disuguale e delle difficoltà dei quarantenni ad aprire un’impresa, oggi affianca Mauro Moretti ai vertici dell’azienda. In Eni nel cda c’è l’aretina Diva Moriani, che lavorava a Intek con Vincenzo Manes, finanziatore della fondazione Open, ma anche l’economista Luigi Zingales, che fu la star dell’edizione 2011 della Leopolda, applauditissimo con la sua requisitoria: «L’Italia è governata dai peggiori. L’80 per cento dei manager dichiara che la principale strada per arrivare al successo è la conoscenza di una persona importante, poi ci sono lealtà e obbedienza, la competenza arriva solo quinta».
Parole sante, chissà che ne pensa Marco Seracini, inserito nel collegio sindacale dell’Eni, già revisore dei conti nel comune di Rignano dell’Arno (dove vive la famiglia di Renzi) e presidente del collegio sindacale della srl Stazione Leopolda. Una doppia garanzia che lo ha portato con Renzi sindaco di Firenze a presiedere l’azienda cittadina di servizi alla persona Montedomini. Nel curriculum vanta anche l’associazione NoiLink, il prototipo di tutte le fondazioni renziane (Big Bang prima e Open poi).
Alle Poste il manuale Leopolda è doppiamente rispettato. Nel cda c’è la fiorentina Elisabetta Fabri, amica del premier, presidente della catena alberghiera Star Hotels, ma il vero leopoldino della prima ora è Alberto Campo dall’Orto, autentico guru degli incontri renziani: «Chi sono le persone che ispirano i giovanissimi?», si chiedeva nel 2011. «Le ricerche dicono: gli amici, il papà, la mamma». Non molto originale, ma pazienza, nella classifica mancava Renzi, l’amico influente che nei prossimi mesi potrebbe portarlo in viale Mazzini come direttore generale della Rai. L’unica azienda che ancora non è stata travolta dal ciclone fiorentino, ancora per poco, si immagina.
Nel cda delle Ferrovie c’è la romana Simonetta Giordani, lobbista di lungo corso come responsabile relazioni istituzionali della Società Autostrade e poi sottosegretaria alla Cultura nel governo Letta, ma chissà se questo curriculum sarebbe bastato per ottenere l’incarico. Serviva anche un intervento alla Leopolda, edizione 2011: «Il motore del successo sono le persone, le donne», disse in quell’occasione, a Renzi piacque molto. Nel cda delle Ferrovie è stato nominato anche l’avvocato fiorentino Federico Lovadina, consigliere delegato dell’azienda di trasporti urbani di Firenze Ataf, lui non si è mai esibito sul palco Leopolda, ma in compenso il suo studio legale è in via Scipione De’ Ricci a Firenze, dove ha sede anche l’avvocato Francesco Bonifazi, deputato renziano e tesoriere del Pd, l’uomo che deve far quadrare il fund raising del partito rimasto senza finanziamento pubblico.
Nomi sconosciuti al grande pubblico, al pari di Cosimo Pacciani, nell’account twitter si firma CosmayDamiano e si presenta «born in Florence. Londoner by destiny», dirigente della gestione rischi della Royal Bank of Scotland, oggi all’European Stability Mechanism (Esm), il fondo europeo salva-Stati. Vive da sedici anni a Londra, non deve nulla a Renzi, anzi, è uno dei pochi che possono vantare un credito nei confronti del premier: fu lui, di quattro anni più grande, a spingere Matteo alla carriera politica fin dai tempi della scuola cedendogli il posto di rappresentante di istituto al liceo Dante. È una carta coperta, fa parte del giro stretto che conta ma non appare mai. Unici interventi pubblici gli immancabili tweet («Qui un tempo era tutto un 101, poi è diventato tutto 40,8 per cento ed ora è al 2,9»: dai franchi tiratori di Romano Prodi al risultato di Renzi alle europee alla tentazione di sfondare i vincoli di bilancio europei) e, naturalmente, lo speech dal palco della Leopolda nel 2011: «La nostra classe dirigente non è credibile nel mondo. Dovremmo almeno essere governati da politici che parlano bene l’inglese». E nessuno pensò all’epoca che potesse trattarsi di un attacco al futuro premier.
Geometrico quando si tratta di occupare gli spazi negli enti pubblici, il manuale Leopolda si fa più fumoso quando deve confrontarsi con i ministeri e con i palazzi romani. Nella tre giorni dell’edizione 2014 i ministri del governo Renzi sfileranno e interverranno, «mi hanno garbatamente invitato a farlo», dice uno di loro, ma negli ultimi tempi il premier ha cominciato ad ammettere in privato che se oggi dovesse formare una nuova squadra molti di loro non sarebbero riconfermati. Va riempita la casella degli Esteri lasciata libera da Federica Mogherini, per la Farnesina c’è l’ex diessina Marina Sereni, qualcuno vedeva bene nei giorni scorsi un nome a sorpresa, la deputata milanese Lia Quartapelle, 32 anni, ricercatrice dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale).
Gli ultimi leopoldini al governo sono il piacentino Roberto Reggi, traslocato dal ministero dell’Istruzione all’agenzia del Demanio, e il napoletano Francesco Nicodemo, già nella segreteria Pd, in arrivo nello staff di Renzi a Palazzo Chigi, leopoldino della prima ora, presente fin dalla prima edizione, novembre 2010, quando la kermesse doveva consacrare la leadership alla pari dei rottamatori Renzi e Pippo Civati. «L’idea di Pippo per questo appuntamento è scrivere un vocabolario ideale…», aprì l’incontro l’allora sindaco di Firenze. Ma fu subito evidente che nel vocabolario renziano la leadership alla pari non esisteva, già la prima sera Civati voleva mollare tutto. Matteo lo convinse a restare giurando che gli avrebbe lasciato fare l’intervento finale, invece prese la parola e parlò per più di un’ora, quando Civati concluse in molti avevano già la valigia in mano.
Era lo stato nascente, ingenuo e disordinato. I leopoldini erano in tutto simili ai ragazzi della loro età: un popolo di outsider, di non garantiti. Si identificavano con Renzi che condivideva lo stesso problema: l’impossibilità di essere preso sul serio da un mondo politico, economico e culturale immobile e sclerotizzato. Ora è il contrario, i ragazzi della Leopolda in dieci mesi hanno conquistato il Pd e poi il governo. Sulle capacità di Renzi nessuno scherza più. E la Leopolda sta facendo scuola, anche fuori dall’Italia, non solo nei partiti socialisti tradizionali. A Madrid si è riunita l’assemblea di Podemos, il movimento che sta rottamando i dinosauri della politica spagnola. Lo slogan era di Karl Marx («il cielo non si conquista con il consenso, ma con un assalto»), ma il resto sembrava copiato dal modello fiorentino, a partire dall’obiettivo: conquistare il centro. Della società, certo, perché il centro politico è morto e sepolto.
La partita per i leopoldini sembra già vinta, invece è solo all’inizio. È in incubazione il grande contenitore, il Pd o come si chiamerà, in grado di inglobare sinistra e destra, annunciato dal premier con la modifica della legge elettorale, il premio di maggioranza da consegnare alla lista che arriva prima e non alla coalizione. Pronto all’uso in una tornata elettorale anticipata. Ma la sfida è più ambiziosa: la costruzione di un nuovo partito-Stato, in grado di rappresentare la futura società italiana. La costruzione di un nuovo blocco sociale e di una classe dirigente che sogna di espandersi senza alternative. Per i renziani vale lo slogan della Leopolda di qualche anno fa: «Il meglio deve ancora venire». Un incubo per tutti gli altri.
Marco Damilano (Jack's Blog - L'Espresso - 24 ottobre 2014)
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