Nelle
more dei fatti di Parigi è passata quasi inosservata una notizia di
grande interesse. Un gruppo di scienziati della prestigiosa Johns
Hopkins University, dopo una serie di approfondite ricerche, ha concluso
che solo un terzo dei tumori ha alla sua origine lo stile di vita o
fattori ereditari, i due terzi sono dovuti, per usare un termine di uno
di questi ricercatori, Bert Vogelstein, alla sfortuna. E' una
notizia liberatoria che se non fa piazza pulita del terrorismo
diagnostico e della medicina preventiva dovrebbe perlomeno frenarne gli
eccessi, per cui oggi negli Stati Uniti si tolgono le ghiandole mammarie
a ragazzine di dodici tredici anni, con i traumi che sono facilmente
immaginabili, per metterle al sicuro dal rischio di sviluppare tumori in
età adulta dato che la loro madre o altre parenti di sesso femminile
sono morte di cancro al seno (a questa operazione si è sottoposta anche
la bellissima Angelina Jolie, sia pur in età matura).
Ma
il significato della ricerca degli studiosi della Johns Hopkins va
oltre. Per la prima volta la Scienza, solitamente così sicura di sè,
ammette la propria limitatezza di fronte all'Imponderabile, al Caso, a
quello che i Greci, tanto più sapienti, chiamavano Fato per cui ognuno
di noi ha un destino, imperscrutabile, il cui senso si può cogliere solo
alla fine della nostra esistenza. Così come quasi ogni fatto che ci
capita nella vita quotidiana può essere valutato solo a posteriori.
Quante volte a chiunque di noi è accaduto di accorgersi che
un'esperienza che all'apparenza appariva un bene si è rivelata invece un
male e viceversa?
Del
pari la ricerca della Johns Hopkins ci libera, o dovrebbe liberarci, di
una delle più perniciose ossessioni del mondo contemporaneo: la pretesa
del controllo. Noi vogliamo controllare tutto. Ci assicuriamo su tutto e
poi ci assicuriamo sull'assicurazione in un processo psicologico, che
sarebbe forse più esatto chiamare psicoanalitico, che è all'origine di
tante delle nostre ansie e delle nostre nevrosi. Siamo convinti di
esserci protetti nel migliore dei modi e poi una mattina usciamo di
casa, ci cade un mattone sulla testa e la festa è bell'e che finita.
Naturalmente questa ossessione del controllo è particolarmente presente
nella medicina moderna (e sono convinto che la casualità che gli
scienziati della Johns Hopkins hanno trovato per il tumore valga anche
per molte altre malattie). Secondo i suoi canoni dovremmo fare almeno
sei esami l'anno, test, visite di routine (pratica quanto mai sinistra
perché raramente se ne esce senza danni e si viene inghiottiti nel
girone infernale della medicina tecnologica), dovremmo auscultarci,
palparci ad ogni momento, essere tesi a percepire ogni minimo segnale di
un rischio che quasi sempre non è che il riflesso di un'ipocondria
collettiva diffusa, non sempre disinteressatamente, dalla medicina di
oggi, secondo la quale dovremmo vivere da malati quando siamo ancora
sani, da vecchi fin da giovani.
«La
vita è un rischio» scriveva Giuseppe Prezzolini. E' vivere che ci fa
morire. E' ovvio. Ma per questo dovremmo rinunciare a viverla standocene
imbozzolati nelle nostre paure? La ricerca della Johns Hopkins riporta
in circolo un po' di sano fatalismo, «lontani dalle torture salutiste e
dalle diete» come scrive Stefano Zecchi. Cerchiamo di goderci la vita,
qui e ora, senza curarci troppo di un futuro di cui poco o nulla si può
sapere. Per dirla con Lorenzo il Magnifico: «Quant'è bella
giovinezza/che si fugge tuttavia/Chi vuol esser lieto sia/di diman non
v'è certezza».
Massimo Fini (Il Gazzettino, 23 gennaio 2014)
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