giovedì 29 gennaio 2015

Schiavo di Gmail

Una mattina del mese di aprile 2014 mi sveglio in un incubo. Non proprio trasformato in uno scarafaggio gigante come il povero Gregor Samsa nella Metamorfosi di Franz Kafka, ma poco ci manca. Anch'io, nottetempo, mi sono trasformato in una bestia immonda. Mi scopro portatore di virus pestilenziali che possono contagiare amici e conoscenti. Un potere orrendo, pauroso, da cui mi sento oppresso.
È successo al mio risveglio alle sei del mattino a New York, mentre mi appresto a leggere il mio solito pacco di giornali americani, per estrarne segnalazioni e un programma di giornata per la redazione di "Repubblica". Tra i primi gesti meccanici quando suona la sveglia, riaccendo il mio iPhone e controllo la posta. Nella casella di arrivo ci sono centinaia di email. Assurde, incomprensibili, molte sono "rimbalzate" da indirizzi non più attivi che rispediscono al mittente.
Ci vuole qualche minuto per capire. In realtà quelle email sono una piccola spia di un disastro più grande. Nottetempo, qualcuno è entrato nella mia posta, ne ha saccheggiato l'indirizzario, ha cominciato a spedire email a tutti. Firmate (apparentemente) da me. Quelle email contengono degli allegati o dei "link" tossici, aprendo i quali i poveri destinatari vengono infettati da virus o malware. Un colpaccio, purtroppo tutt'altro che raro. Qualche volta sono stato io a ricevere queste email di adescamento, in apparenza provenienti da qualcuno che conosco.
Il danno peggiore che possono fare i virus è carpirti dati preziosi, per esempio il numero della tua carta di credito o i codici di accesso ai tuoi conti bancari online. Non sto esagerando, anzi la mia disavventura personale è microscopica rispetto a operazioni di hacker compiute di recente. Una delle più diffuse catene di grandi magazzini americani, Target, si è vista sottrarre milioni, ripeto m-i-1-i-on-i, di numeri di carte di credito dei suoi clienti. Sapete bene cosa questo vuol dire. Soprattutto in un paese come l'America dove la vita quotidiana è stata "semplificata" - ahi! - dall'uso della carta di credito come mezzo di pagamento universale, farsela rubare è l'inizio di un calvario. Non solo devi bloccare la tua carta e fare annullare le transazioni fraudolente, ma poi devi cominciare a contattare uno per uno tutti coloro che abitualmente tu paghi con addebiti automatici su quella carta: bollette del telefono, della luce e della cable-tv, abbonamenti ai giornali, assicurazione sulla vita, sull'incendio, RC-auto, perfino la retta scolastica dei tuoi figli o alcune tasse, l'elenco è interminabile.
La mia disavventura mi ha spinto a un gesto che avevo rinviato fino a quel momento. Ho chiuso il mio indirizzo di posta Aol. Le ragioni per cui non l'avevo ancora fatto erano di tipo sentimentale. Lo so, Aol per la maggioranza di voi è un nome privo di senso. Non per uno che ha cominciato a fare le valigie per trasferirsi in California alla fine degli anni novanta. Aol, che sta per America On Line, oggi è un dinosauro, il suo posto adeguato è in un museo di archeologia industriale. Così vanno le cose nell'economia digitale, dove imperi nascono e tramontano alla velocità della luce. Ma alla fine degli anni novanta Aol era praticamente un sinonimo di Internet. Era uno dei "provider" di accesso alla Rete più importante degli Stati Uniti, quindi del mondo. Aveva avuto un ruolo dominante nella diffusione della posta elettronica. Molti americani che si erano assuefatti all'uso dell'email quando questo strumento iniziava la sua diffusione avevano per forza indirizzi Aol. 
Così ho fatto anch'io, in un'epoca in cui i miei amici e colleghi italiani usavano pochissimo la posta elettronica. All'inizio del millennio, quando abitavo nella Silicon Valley, Aol cominciava già a essere soppiantata da alcuni rivali. I miei amici californiani più giovani si convertivano in massa a Hotmail e Yahoo Mail. Ma la rivoluzione vera arrivò con Gmail. 
Ecco, lo confesso, nell'aprile 2014 mi sono arreso anch'io, definitivamente e completamente, alla supremazia di Gmail, la posta elettronica di Google. Per una curiosa o crudele coincidenza, l'incidente che mi ha disgustato per sempre di Aol è accaduto pochi giorni dopo un anniversario simbolicamente importante: il decennale del lancio di Gmail. Harry McCracken su "Time" definisce il primo aprile 2004 come "il vero inizio dell'era moderna della Rete". Io non ci ho messo proprio dieci anni a scoprirlo (un indirizzo Gmail lo avevo da tempo ma lo usavo poco) e tuttavia ora devo confessare la mia resa finale. Che avrà dei costi, lo so già. 
La storia di Gmail è importante perché getta uno squarcio di luce sull'ascesa di Google in generale. Google, nato nel 1998, si era già rapidamente affermato come il più efficiente motore di ricerca. I fondatori Larry Page e Sergey Brin avevano rivoluzionato l'uso della Rete. Rispetto ai motori di ricerca preesistenti (come AltaVista), Google aveva due fattori di superiorità.
Il primo era la sua "neutralità" proclamata, l'imperativo di servire l'utente. Donde un metodo oggettivo per selezionare i risultati rilevanti ai fini di una ricerca: basarsi sulla "saggezza delle masse". L'algoritmo di Google, quando tu digiti una parola, dirige la ricerca dentro il cyber-universo dando la priorità ai siti più cliccati da altri. In sostanza si fida del fatto che più un sito è visitato più deve avere contenuti, rilevanti. È questa una delle peculiarità dell'algoritmo che fecero la differenza fin dal principio rispetto a quei concorrenti che ti riempivano lo schermo di risultati palesemente inutili, e costringevano te a fare la fatica di una selezione "intelligente". L'altra originalità era il rifiuto - iniziale - della pubblicità. Condito di quella filosofia etica che sappiamo: "Don't be evil", non essere cattivo, non fare il male. Tuttora la schermata d'apertura di Google è bianca, talvolta decorata, mai venduta come spazio pubblicitario. Era importante per affermare la propria credibilità, dire agli utenti che quello spazio era tutto loro, non era in vendita.
Poi Google in realtà ha fatto una netta inversione, ed è diventato il regno delle inserzioni pubblicitarie. Ha rivoluzionato anche quelle, vendendo un metodo che calcola le tariffe per gli inserzionisti in modo esattamente proporzionale ai clienti che "cliccano" sulla loro pubblicità. Mentre chi paga per lo spot di un detersivo alla tv non può sapere se in quel momento il telespettatore si distrae e fa una telefonata, al contrario chi paga per avere la sua pubblicità su Google sa esattamente quanti vanno a guardarla.
Gmail ha seguito un'evoluzione analoga. La storia di questo sistema di posta elettronica ha inizio nel 2001, è un progetto che viene messo in cantiere a livello sperimentale e impiega tre anni per decollare. Fin dall'inizio ha un'ambizione sfrenata: offrire agli utenti una capacità di memoria stratosferica, di fatto illimitata. Misurabile in gigabyte. Cioè, all'esordio, cinquecento volte superiore a quel che offriva Hotmail di Microsoft.
Ce ne siamo dimenticati, ma c'era un'epoca in cui dovevamo cancellare man mano la posta in arrivo, altrimenti la nostra "casella" si riempiva e la memoria non aveva più spazio per nuovi messaggi. Oggi al contrario siamo abituati a usare "the cloud", la nuvola, cioè la capacità di memoria affidata ai giganteschi server di gruppi come Google (e tanti altri concorrenti), per custodirci praticamente tutto: il nostro lavoro, le nostre comunicazioni passate, tutti i dati che possono servirci.
Questo uso della Rete come archivio universale e deposito degli archivi personali di ciascuno di noi inizia di fatto con Gmail. Altre novità di Gmail, che oggi sono banali: la gratuità e la potenza del motore di ricerca per setacciare tutta la posta grazie all'uso di "parole chiave". Ancora, il raggruppamento delle "conversazioni" in spazi sintetici, che consentono di avere tutto il filo di una corrispondenza riunito in un posto solo. O infine quel ritrovato legato all'uso di JavaScript, che "completa" automaticamente gli indirizzi da noi usati attingendo alla memoria, e ci suggerisce i nomi appena digitiamo le prime lettere.
Page e Brin scelgono di lanciare Gmail un primo aprile, consci che Google è celebre per i suoi pesci d'aprile. E in effetti quel primo aprile 2004 gli scherzi apparenti sono due: il lancio della prima posta elettronica di Google e l'annuncio che l'azienda apre un centro di ricerca sulla Luna. C'è chi casca nello scherzo numero due (Google riceverà molti curriculum vitae per l'esperienza lunare) e invece "non abbocca" alla storia delle nuove email. Questo è indicativo del livello di innovazione che rappresentava quella posta elettronica: la base lunare era più realistica. 
La trovata di marketing geniale che contribuisce al successo di Gmail sta nel configurarlo inizialmente come un club di privilegiati. Google concede a pochi eletti i primi indirizzi di Gmail, poi costoro a loro volta possono invitare pochi amici a far parte dell'elite. Si genera così un meccanismo di invidia, emulazione, anche se in realtà quella trovata nasce per necessità: Gmail non aveva una potenza sufficiente. Tempi remoti, preistoria. Aperto a tutti dal 2007, oggi Gmail è ben oltre il mezzo miliardo di utenti.
Fin dall'inizio, però, c'è un patto mefistofelico dietro l'apparente generosità di Gmail. Gli utenti vengono attirati dalla sua illimitata potenza e anche dai suoi efficaci filtri antispam (proprio quelli che fanno difetto ad Aol...). In cambio però accettano che le proprie email vengano setacciate in cerca di parole chiave, che poi servono a vendere pubblicità. Così, se io in una email cito Bruce Springsteen, Zucchero o Jovanotti, pochi secondi dopo comincio a ricevere offerte di biglietti per dei concerti rock vicini a casa mia. Se uso un sito di commercio online per ordinare la carta per la mia fotocopiatrice scanner, oppure scarpe da jogging, da quel momento in poi "appaiono" miracolosamente pubblicità degli stessi prodotti. E c'è di peggio. Gli indizi sul mio sesso ed età anagrafica sono sufficienti a farmi recapitare pubblicità di farmaci ad hoc (Viagra...) oppure nightclub con escort che si trovano esattamente nel quartiere di New York dove abito. Su questa intrusione le polemiche si sono scatenate fin dal 2004. Ma Page e Brin hanno rifiutato di fare concessioni significative alla privacy. Hanno scommesso che ci saremmo assuefatti allo spionaggio privato delle nostre email. E così è stato. Come in altre abitudini della nostra vita quotidiana, ci siamo arresi, abbiamo smesso di resistere.
Il paradosso è che oggi alcuni dei capi di Google, se gli mandi una email, hanno il risponditore automatico che invia messaggi di questo tipo: "Sono in vacanza dalle email. Le consulto solo sporadicamente". Uno di loro, proprio il progettista-capo di Gmail Paul Buchheit, ha confessato a "Time" la sua angoscia: "Viviamo in una cultura 24/7 [24 ore su 24, sette giorni su sette], la gente si aspetta sempre una risposta. Anche se è sabato, anche se sono le due del mattino, danno per scontato che tu debba rispondere sempre. Non esistono le vacanze. È la schiavitù". Che siano loro a fare questa "scoperta" ha il sapore di una suprema beffa.

Federico Rampini (tratto da "Rete Padrona - Feltrinelli - Settembre 2014")

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