domenica 19 aprile 2015

Ieri, oggi, domani: riflessioni estemporanee sull'Europa e sull'Italia




Ci sentiamo di consigliare senza riserve un libro. Non è un libro divertente (parla di una grande tragedia), né facile (è un saggio storico), né veloce da leggere (consta di 700 pagine e per ora si trova solo nella versione originale inglese), ma è un'approfondita e innovativa ricostruzione storiografica di un evento determinante per noi europei: la prima guerra mondiale, di cui quest'anno ricorre, per l'Italia, il centenario della deflagrazione. Si intitola metaforicamente "The sleepwalkers", I sonnambuli e, esplicativamente, "How Europe went to war in 1914" di Christopher Clark, professore di storia a Cambridge.

Accennavamo ad una originale storiografia. Infatti Clark non va, come più comunemente avviene, alla ricerca delle cause del conflitto, approccio che porta inevitabilmente alla individuazione di un colpevole. Egli fonda invece l'analisi sui molteplici eventi, maggiori e minori, che si susseguirono, intrecciarono, incrociarono, complicando oltre ogni limite il quadro di fondo, sempre più difficile da gestire mediante soluzioni negoziate e sempre più caratterizzato dalla progressiva inconsapevolezza dei governi del cammino verso la tragica soluzione finale.

Insomma complessità dei fatti e inadeguatezza delle classi dominanti e quindi chiamata di corresponsabilità di tutti gli attori. Infatti, sostiene Clark, la crisi che porto' alla guerra nel 1914 fu il frutto di una cultura politica condivisa da tutti i protagonisti, ragione per la quale l'evento conclusivo non può essere assimilato ad un romanzo di Agatha Christie, dove si mira a smascherare l'assassino, magari con la pistola ancora fumante, perché, se di pistole fumanti si deve parlare, nel caso di specie ve ne fu una nelle mani di ciascuno dei grandi attori. Da questo punto di vista la guerra fu una tragedia, non un crimine da attribuire alla malevola volontà di uno o più stati. E quale fu questa cultura politica?

Emerge dai tanti episodi succedutisi a partire dagli ultimi decenni del secolo precedente fino alla fatidica estate del 1914, tra cambiamenti di alleanze, riposizionamenti strategici, rischiose azioni belliche dagli esiti non calcolati, ambiguità, simulazioni e dissimulazioni di una diplomazia in perenne fibrillazione, antagonismi interni agli schieramenti politici e accordi trasversali anche tra paesi schierati su fronti diversi, lotta per il primato tra politica e classi militari, fino ai facili e interessati ottimismi di una guerra breve. Le politiche aggressive della Russia verso gli Stretti e l'interessata protezione della Serbia, l'avventura libica degli italiani che offri' il destro ai nazionalismi slavi per attaccare su altri fronti l'Impero Ottomano in disfacimento, l'alleanza con finalità aggressive tra Francia e Russia sono solo alcuni degli elementi in gioco. Insomma, per Clark, non furono solo le paranoie imperiali della Germania verso la Francia e la Russia e le mire espansive e vendicative verso i Balcani dell'Austria/Ungheria, dopo l'attentato di Sarajevo, a scatenare il conflitto. È paradossale invece l'incomprensione di quanto alta fosse la posta in gioco, nonostante alcune riflessioni profetiche sullo scenario che si stava aprendo. E significative furono anche le manifestazioni di ottusità della stampa.

Ecco perché i protagonisti andarono in guerra come sonnambuli, guardando, ma non vedendo, inseguendo i propri sogni di potenza, eppure ciechi nei riguardi dell'orrore che stavano portando nel mondo.

A distanza di un secolo la domanda di come possa essere accaduto è ancora attuale, ma ciò che ci deve interessare, si chiede ancora Clark, è se quella intricata complessità faccia tuttora parte della presente scena politica europea, nella quale gli attori della crisi dell'Eurozona, pur consapevoli degli esiti catastrofici di una situazione estrema come il fallimento dell'euro, possano agire in favore di specifici e conflittuali interessi, senza calcolarne le conseguenze a causa di processi decisionali sempre più complessi, ma non ancora sufficientemente trasparenti. Va soprattutto evitato che i singoli attori si pongano nella posizione di sfruttare la possibilità della catastrofe finale, come leva per assicurarsi prefigurati vantaggi. Fortunatamente si devono cogliere anche le diversità rispetto ad allora, soprattutto avendo tutti i paesi più chiara l'essenza del problema e una maggiore fiducia reciproca, grazie alle istituzioni sovranazionali che all'epoca non esistevano.

Ma ciò non basta se viene a mancare o a non esprimersi adeguatamente un'azione sistematica di compromesso tra gli interessi in contrapposizione. I rigori di un monetarismo non temperato della Germania e dei paesi nordici a fronte di una progressiva riduzione delle leve di politica economica dei paesi con maggiori squilibri economico/finanziari quali quelli del sud Europa non sono un terreno facile da governare. Ma non lo sono neanche politiche di annuncio che poi trovano difficoltà a realizzarsi o servono soltanto a comprare tempo e a creare illusioni. Salvo poi ritrovarsi di nuovo davanti al problema. E non lo sono nemmeno le polemiche, anche stizzite, di chi vuole dare lezioni agli altri e di chi quelle lezioni ne' vuole ne' può accettare. Non aiuta neanche il susseguirsi di previsioni economiche e di dati sfornati a raffica che, invece di aiutare, impediscono di valutare le decisioni in un contesto di più stabili conoscenze; anche questo è frutto degli eccessi della finanziarizzazione dell'economia che ha trasformato radicalmente il valore temporale delle informazioni.

La minaccia più grave, e dagli effetti non calcolabili, dell'uscita dall'Euro della Grecia è stata finora tamponata, ma la sostenibilità di una crisi, che per alcuni paesi tra cui il nostro dura ormai da sette anni, rischia di allontanarli ulteriormente da una media che si presume ancora gestibile.

La più recente istituzione della Unione Bancaria rafforza la coesione d'ordine istituzionale, ma saranno le politiche concrete che la renderanno efficace.

Nel 2014, la concentrazione di potere economico nelle mani della Banca Centrale Europea ha raggiunto livelli non paragonabili con nessun altra passata esperienza. Essa abbraccia ora la politica monetaria, con strumenti non convenzionali, la gestione diretta di piattaforme come Target 2 dove si scambiano flussi di pagamento interbancari a rischio sistemico, la sorveglianza sulla Single Euro Payment Area e, da pochi mesi, la vigilanza diretta sulle prime 130 banche e il potere di surrogarsi alle autorità nazionali nei confronti degli altri 6000 intermediari less significant. E tutto ciò senza che si senta parlare più di tanto di controlli e bilanciamenti. Policy adeguate a rendere meno marcate le profonde segmentazioni che contraddistinguono l' area di mercato europea è l'impegno indefettibile della BCE.

È noto a tutti che si parte da situazioni molto diversificate per storia e cambiamenti intervenuti anche di recente, che hanno allontanato i vari sistemi bancari nazionali rispetto alle tre macro attività del credito, della finanza e del debito pubblico. Si tenga presente che il sistema bancario europeo continentale era identificato fino a qualche decennio fa come bancocentrico, mentre le divaricazioni intervenute in seguito ne hanno determinato profonde e rapide mutazioni. Le prime tre banche di Germania e Francia hanno assunto una struttura di bilancio più simile alle banche inglesi e americane, mentre quelle di Italia e Spagna fanno ancora perno sul credito e sull'assorbimento di titoli del debito pubblico.

Soprattutto l'Italia ha fatto crescere in questi anni il proprio banco-centrismo, senza trarne le conseguenze in termini di riassetto dell'intero sistema. Adeguare le strutture finanziarie per una maggiore rispondenza alle esigenze dell'economia vuol dire adeguare il loro livello di patrimonializzazione, non sufficiente a fronteggiare gli accresciuti livelli di rischio. Si forma un circolo vizioso in quanto più credito è necessario alla ripresa dell'economia e alla riduzione dei rischi, ma la scarsità di patrimonio di molte banche ritarda la crescita degli impieghi, dato che gli stock in essere sono gravati da elevati default.

Ma c'è anche da chiedersi dove porteranno politiche di regolamentazione (EBA in testa) che puntano soprattutto ad aumentare i requisiti di capitale, per scongiurare ipotesi di crisi sistemiche, forse sventolate troppo spesso come spauracchio, cioè senza condivisi elementi di dimostrazione. Se comunque bisogna ricapitalizzare, c'è da chiedersi dove attingere le risorse, dato il basso livello di profittabilita' rispetto al rischio delle nostre banche. Consapevolezza e azione diretta per risolvere il dilemma sono i necessari interventi strutturali, dopo le valutazioni non positive del comprehensive assessment di BCE e altri gap non trascurabili come quelli in ambito SEPA. In entrambi i casi siamo ultimi rispetto agli altri grandi paesi, nostri naturali concorrenti, e rappresentiamo un caso paradigmatico per noi stessi.

E questo aspetto dei ritardi accumulati è il più preoccupante, perché se si protrae ulteriormente nel tempo può avere effetti financo sulla coesione sociale. Le opportunità dell’unione e della politica monetaria comune sono state finora solo in parte positive per l’Italia e restano da vedere le opzioni che ci restano, tra l'altro accompagnate dalle preoccupazioni per il peso delle nostre sofferenze sul totale europeo (190 mld su 900, pari a oltre il 20%, con il Pil italiano che assomma al 12% di quello UE).

Le cinque direttrici per ammodernare il vetusto e frammentato sistema bancario italiano sono le seguenti:

1. Rapide operazioni di ristrutturazione e consolidamento dell'industria bancaria per ricostituire margini di capitale;

2. Forte impulso ai pagamenti elettronici, facendo anche leva sulla trasformazione digitale dell'economia;

3. Determinata azione di rinnovamento dei modelli di Governance e di controllo societario;

4. Netta riduzione della ipertrofia normativa sempre più costosa da sostenere;

5. Non rinviabile intervento di sistema in materia di bad bank.

La mancata riuscita di questo programma, in cui il fattore tempo é diventato essenziale (ma di cui è palese anche la complessità) e che richiama non tanto le esigenze di riforma di uno specifico settore, quanto la rilevanza delle infrastrutture creditizie per la società e l'economia italiane anche nel confronto europeo, potrebbe addirittura allargare il divario sociale esistente.

Bisogna anche evitare di reagire alla lunghezza disgregante della crisi con forme di iperattivismo istituzionale, che può tradursi in deficit di coordinamento degli interventi necessari. Un rinnovato ottimismo conseguente alla effettività delle molteplici riforme avviate potrà definitivamente sconfiggere il clima di rassegnato declino che i dati macroeconomici non certo eclatanti del Pil, dell'occupazione e del debito continuano ad alimentare.

I minimi segnali positivi, diciamocelo con franchezza, stentano a rassicurarci e a farci capire che le politiche più espansive della BCE, Quantitative Easing in primis, sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per un rilancio strutturale di molte economie, compresa la nostra. Qualche commentatore inizia anche a prefigurare alcuni non irrilevanti effetti collaterali del Qe in salsa europea. L'acquisto della BCE per quote di titoli di stato di vari paesi sarebbe alla base dell'aumento dei prezzi dei Bund tedeschi, con la riduzione dei corrispondenti rendimenti. Ciò sarebbe la ragione dell'aumento dello spread di questi giorni tra Btp e Bund. Avanti tutta, anche per tentativi, ma non a passo di gambero, con il "fantasma greco" che, sempre più minaccioso, si è imprevedibilmente rimaterializzato a pochi giorni dall'avvio del QE medesimo.

Il pericolo della deflagrazione dell'euro, fino a quando non saranno escogitate vere forme di assistenza strutturale ai paesi meno virtuosi, ma forse dovremmo chiamarli una volta per tutte soltanto più deboli, evitando qualsiasi etichetta d'ordine etico, è sempre dietro l'angolo a ricordarci che i rischi peggiori non sono affatto scomparsi. E che, ove si concretizzassero, farebbero ricadere le responsabilità, come per altre circostanze ha cercato di dimostrarci il professor Clark, su tutti gli attori (ma soprattutto sui maggiori), per non aver saputo promuovere e governare efficacemente il gioco cooperativo né dentro né fuori i rispettivi paesi. Ma volete mettere la soddisfazione di lasciare agli storici che verranno un così vasto campo di studi?


Daniele Corsini - Davide De Crescenzi

 

1 commento:

  1. Ancora una volta il duo "Corsini-De Crescenzi", prendendo spunto da un saggio di Christopher Clark, professore di storia a Cambridge, "The sleepwalkers" (I sonnambuli), affrontano problematiche economico-finanziarie molto attuali, analizzandole con la loro consueta originale chiave di lettura e suggerendone soluzioni.
    Questo nuovo scritto fornisce altresì una efficace osservazione del contesto socio-politico contemporaneo, caratterizzato da complessità della società reale che registrano come soluzioni eccessive somplificazioni da parte di governanti e, più in generale, delle classi dirigenti.
    In un mondo di "yes men" che si affollano ad adulare il potere vincente, ben vengano pensieri indipendenti che sollecitano prese di coscienza e inducono, comunque, a riflessioni più profonde.

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