«Ho
vissuto un'esistenza mediocre in una società mediocre», scrive il
settantunenne Massimo Fini. Ma in verità questa biografia trasuda una
vita tutt'altro che banale: da cui emergono, con ogni evidenza, i tre
volti dell'autore.
Innanzitutto,
il giornalista. Titolare nel 1985-95 di una seguitissima rubrica
sull'«Europeo», Fini non si è mai identificato con quella o altre
testate, cambiandole a iosa, dall'«Indipendente» di Feltri al «Fatto
Quotidiano». Come mai questa lunga infedeltà? Forse perché egli
rappresenta un unicum, come aveva intuito Montanelli. La sua
penna, infatti, non è assimilabile né al soporifero «cerchiobottismo», e
neppure al modello del «libero servo», brillantemente incarnato da
Giuliano Ferrara. Ma Fini non è nemmeno un giornalista «anglosassone»,
restando un osservatore impressionista, a suo modo sempre partecipe.
Forse è, semplicemente, un uomo solo, non di destra né di sinistra, in
grado di lanciare stilettate a tutto campo.
Lo
confermano, qui, i suoi affreschi senza perifrasi: i reduci
sessantottini, consumati dal tarlo del carrierismo compulsivo; gli
intellettuali antifascisti, i più conformisti di tutti; i piccoli e
grandi nomi della carta stampata (incluso il suo amico Giorgio Bocca,
immortalato in un ritratto tanto affettuoso quanto spietato); Don
Giussani («su Dio brancolava nel buio quanto me»); il cupio dissolvi
affaristico del glorioso Psi: un partito verso il quale Fini ha sempre
mostrato un occhio sensibilissimo, forse perché esordì nel '70 proprio
come cronista dell'«Avanti», quando era ancora un quotidiano perbene. Ma
Fini non ha soltanto previsto, con largo anticipo, Tangentopoli e la
furia popolare nel '92 contro la casta partitocratica. Ha vaticinato
pure l'avvento del berlusconismo, come testimonia una sua straordinaria
inchiesta uscita nel lontano '83 su Milano Due, cittadella dorata che
inglobava in nuce tutti gli ingredienti della «nuova» Repubblica sorta nel '94.
Il secondo volto assunto da Fini è quello del «pensatore» antimoderno. Dal suo vecchio classico del 1985, La Ragione aveva Torto
(un libro di culto, tutt'altro che campato in aria per essere stato
scritto da uno storico dilettante), sino ai più recenti titoli sul
«vizio oscuro dell'Occidente» prigioniero del proprio ombelico, passando
per il Manuale contro la donna a favore della femmina e per un pugno di biografie «irregolari» (Nerone, Catilina, Nietzsche e Il Mullah Omar),
il nostro autore è stato in grado di elaborare una «visione del mondo»
d'indubbia originalità. Non occorre abbracciarla in toto per
riconoscerne il sapore «against the current» (come Isaiah Berlin
etichettava i pensatori illuministi, di cui ammirava la paradossale
lungimiranza). Ad esempio, non solo quando smaschera il flop colossale
delle guerre «preventive» e «umanitarie», ma anche quando rievoca la sua
odissea sanitaria, affetto da glaucoma, tra medici gelidi e scostanti.
Quest'incapacità della medicina tecnologica di parlare al paziente
spiega moltissimo il successo, ahimè, dei «santi guaritori» alla Di
Bella e Vannoni.
Attenzione,
però: il sentimnto del tempo di Fini riflette una nostalgia senza
rimpianto. Detesta, a parole, la civiltà industriale, e tuttavia non
idealizza l'ancien régime, «un mondo fatto di durezze, di
sofferenze, di diseguaglianze, di fatiche spesso bestiali».
Semplicemente, rigetta la retorica del progresso e la filosofia del
«meglio che deve ancora arrivare». Ma, a differenza di un de Maistre,
Fini disconosce ogni Tradizione, incluse le proprie radici ebraiche.
Figlio di un'istraelista russa scampata alla Shoah, da lui tratteggiata
come un'aguzzina vuota di amore filiale, l'anti-monoteista Fini resta
troppo anarchico per accettare gli obblighi di una «identità» vissuta al
pari di una gabbia.
Per ultimo, due parole sul volto più carnale e borderline
di Fini, quello di un Charles Bukowski dei nostri giorni, fra sesso,
alcol (la sua droga) e tavoli da poker. Qui, per la prima volta, il
«perdente di successo» si mostra in tutta la sua fragilità
autodistruttiva, non tacendo neppure i giovanili abboccamenti
omosessuali, in una Milano senz'altro più popolare e calorosa di quella
odierna. Sono pagine di rara bellezza e intensità, degne di un grande
scrittore.
Resta
un dubbio: Fini ha amato molte donne, gratificato e violato il proprio
corpo, sofferto (al pari di Montanelli) il «male oscuro» della
depressione, rinunciato a una vera famiglia (pur figliando), assaporato
il piacere libertino della solitudine, disdegnato ogni legame
comunitario e scarnificato l'arroganza del potere. Con un pedigree
tanto occidentale, come si troverebbe nell'Afghanistan dell'amatissimo
Mullah Omar, da lui incensato come campione di un «medioevo sostenibile»
capace di resistere al maleficio dei popcorn, delle patatine fritte e
dei centri fitness?
Raffaele Liucci (Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2015)
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