lunedì 13 aprile 2015

Tre vite da bastian contrario

«Ho vissuto un'esistenza mediocre in una società mediocre», scrive il settantunenne Massimo Fini. Ma in verità questa biografia trasuda una vita tutt'altro che banale: da cui emergono, con ogni evidenza, i tre volti dell'autore.
Innanzitutto, il giornalista. Titolare nel 1985-95 di una seguitissima rubrica sull'«Europeo», Fini non si è mai identificato con quella o altre testate, cambiandole a iosa, dall'«Indipendente» di Feltri al «Fatto Quotidiano». Come mai questa lunga infedeltà? Forse perché egli rappresenta un unicum, come aveva intuito Montanelli. La sua penna, infatti, non è assimilabile né al soporifero «cerchiobottismo», e neppure al modello del «libero servo», brillantemente incarnato da Giuliano Ferrara. Ma Fini non è nemmeno un giornalista «anglosassone», restando un osservatore impressionista, a suo modo sempre partecipe. Forse è, semplicemente, un uomo solo, non di destra né di sinistra, in grado di lanciare stilettate a tutto campo.
Lo confermano, qui, i suoi affreschi senza perifrasi: i reduci sessantottini, consumati dal tarlo del carrierismo compulsivo; gli intellettuali antifascisti, i più conformisti di tutti; i piccoli e grandi nomi della carta stampata (incluso il suo amico Giorgio Bocca, immortalato in un ritratto tanto affettuoso quanto spietato); Don Giussani («su Dio brancolava nel buio quanto me»); il cupio dissolvi affaristico del glorioso Psi: un partito verso il quale Fini ha sempre mostrato un occhio sensibilissimo, forse perché esordì nel '70 proprio come cronista dell'«Avanti», quando era ancora un quotidiano perbene. Ma Fini non ha soltanto previsto, con largo anticipo, Tangentopoli e la furia popolare nel '92 contro la casta partitocratica. Ha vaticinato pure l'avvento del berlusconismo, come testimonia una sua straordinaria inchiesta uscita nel lontano '83 su Milano Due, cittadella dorata che inglobava in nuce tutti gli ingredienti della «nuova» Repubblica sorta nel '94.
Il secondo volto assunto da Fini è quello del «pensatore» antimoderno. Dal suo vecchio classico del 1985, La Ragione aveva Torto (un libro di culto, tutt'altro che campato in aria per essere stato scritto da uno storico dilettante), sino ai più recenti titoli sul «vizio oscuro dell'Occidente» prigioniero del proprio ombelico, passando per il Manuale contro la donna a favore della femmina e per un pugno di biografie «irregolari» (Nerone, Catilina, Nietzsche e Il Mullah Omar), il nostro autore è stato in grado di elaborare una «visione del mondo» d'indubbia originalità. Non occorre abbracciarla in toto per riconoscerne il sapore «against the current» (come Isaiah Berlin etichettava i pensatori illuministi, di cui ammirava la paradossale lungimiranza). Ad esempio, non solo quando smaschera il flop colossale delle guerre «preventive» e «umanitarie», ma anche quando rievoca la sua odissea sanitaria, affetto da glaucoma, tra medici gelidi e scostanti. Quest'incapacità della medicina tecnologica di parlare al paziente spiega moltissimo il successo, ahimè, dei «santi guaritori» alla Di Bella e Vannoni.
Attenzione, però: il sentimnto del tempo di Fini riflette una nostalgia senza rimpianto. Detesta, a parole, la civiltà industriale, e tuttavia non idealizza l'ancien régime, «un mondo fatto di durezze, di sofferenze, di diseguaglianze, di fatiche spesso bestiali». Semplicemente, rigetta la retorica del progresso e la filosofia del «meglio che deve ancora arrivare». Ma, a differenza di un de Maistre, Fini disconosce ogni Tradizione, incluse le proprie radici ebraiche. Figlio di un'istraelista russa scampata alla Shoah, da lui tratteggiata come un'aguzzina vuota di amore filiale, l'anti-monoteista Fini resta troppo anarchico per accettare gli obblighi di una «identità» vissuta al pari di una gabbia.
Per ultimo, due parole sul volto più carnale e borderline di Fini, quello di un Charles Bukowski dei nostri giorni, fra sesso, alcol (la sua droga) e tavoli da poker. Qui, per la prima volta, il «perdente di successo» si mostra in tutta la sua fragilità autodistruttiva, non tacendo neppure i giovanili abboccamenti omosessuali, in una Milano senz'altro più popolare e calorosa di quella odierna. Sono pagine di rara bellezza e intensità, degne di un grande scrittore.
Resta un dubbio: Fini ha amato molte donne, gratificato e violato il proprio corpo, sofferto (al pari di Montanelli) il «male oscuro» della depressione, rinunciato a una vera famiglia (pur figliando), assaporato il piacere libertino della solitudine, disdegnato ogni legame comunitario e scarnificato l'arroganza del potere. Con un pedigree tanto occidentale, come si troverebbe nell'Afghanistan dell'amatissimo Mullah Omar, da lui incensato come campione di un «medioevo sostenibile» capace di resistere al maleficio dei popcorn, delle patatine fritte e dei centri fitness?



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