“La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell'intuito e della spontaneità. Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l'immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere. (da Henri Cartier-Bresson, Contrasto, 2004)”
Ognuno di noi possiede un
album di foto e ognuno di noi ha scattato una foto, conservandola nel
proprio album o sul proprio pc. Come sosteneva Marshall McLuhan (1967),
l’uomo del 900 vede fotograficamente, ma nonostante la presenza
massiccia della fotografia e del fotografare nella nostra esistenza,
essa è tra le arti meno utilizzate e analizzata in psicologia e nel
percorso di conoscenza di sé, ma non per questo è un mezzo meno potente
di comunicazione interiore.
Secondo la psicoanalisi
la macchina fotografica è un’estensione dell’apparato psichico o meglio
di uno dei suoi organi percettivi fondamentali: la vista. Lo
strumento-macchina avrebbe, quindi, il potere di collegare chi fotografa
con il mondo esterno attraverso un processo di introiezione, che
porterebbe a fissare un oggetto e il rapporto con quello oggetto, prima
nel mirino, in seguito nello scatto e poi, dopo lo sviluppo, su un
foglio di carta o su un supporto, attraverso il quale, si possa avere un
rapporto fisico con l’immagine prodotta.
Il fotografo per
fotografare, deve poter uscire fuori di sé e creare un collegamento tra
il suo mondo interiore, le rappresentazioni di quest'ultimo e ciò che
lo circonda. Inoltre, egli è l’unico che deciderà cosa immortalare della
sua realtà, compiendo un atto di ri-produzione e ri-creazione.
(Cacciari, 2001).
E’ importante, quindi,
considerare la dinamica “dentro-fuori”, che compie il fotografo,
portando parti di sé all’esterno e utilizzando quest’ultimo per
comunicare parti di sé e per elaborare propri vissuti, come se la foto,
in un certo senso fosse un “acting-out”, attraverso il quale si
riproducono delle idee inconsce in azioni, piuttosto che come ricordi o
pensieri. Seguendo quest’ottica ci si rende conto che ogni foto è
soggettiva e, proprio per questo motivo, viene interpretata in modo
diverso da ogni osservatore, il quale, inoltre, stimolato dall’immagine
proietta i propri vissuti e le proprie emozioni sulla foto, mettendo in
atto anch’egli la stessa dinamica dentro-fuori del fotografo attraverso,
però, il medium fotografico.
La fotografia,
considerando questa prospettiva, si configura come una metafora ed
un’estensione del nostro processo conoscitivo, poiché non può restituire
un gesto, un evento, un comportamento nella sua interezza, ma lo coglie
e lo ripropone nel suo significato simbolico. In questo modo,
attraverso le foto si “simbolizza la realtà”, apportando il proprio
punto di vista alla realtà esterna.
Ma cosa avviene nella mente di una persona quando decide di fotografare? E cosa ci spinge a conservare le fotografie?
Continuando a far
riferimento alla psicoanalisi, l’atto del fotografare, è strettamente
connesso ai processi di introiezione e incorporazione, ottenendo con la
voracità oculare soddisfacimento agli impulsi aggressivo-libidici di
natura orale, legati alle fantasie ossessive di incorporazione e di
conquista dell’oggetto. L’artista riuscirebbe, attraverso il
fotografare, a sublimare questi impulsi infantili aggressivi, insiti
anche nella macchina fotografica come strumento per “cacciare” immagini.
In inglese fotografare
coincide con il verbo shooting (sparare), per cui il fotografare
potrebbe essere pensato come il prolungamento e l’esternalizzazione di
un Io rapace e vorace. Un'aggressività inconscia ma anche il bisogno di
conservare il nostro passato, in quanto le nostre immagini ci danno la
conferma della nostra esistenza, del nostro esserci” (Tinti, 2007).
La fotografia attiva anche il processo mnemonico e assicura la nostra esistenza nel presente.
Ogni foto colloca
l'individuo in un continuum temporale che spazia attraverso un passato
pieno di ricordi, che dà senso al suo presente e gli permette di
proiettarsi nel futuro. Le foto rendono possibile conservare e fermare i
momenti della vita, parti o aspetti della persona e, in quanto
strumenti non verbali, attivano profondi vissuti, a volte, non ancora
elaborati.
Molto importante in
questo senso è l’album di famiglia che dà la possibilità di narrare la
propria storia all’interno della famiglia, dando informazioni importanti
sia sul background culturale di appartenenza, che sulle dinamiche
interne familiari; le informazioni visive della fotografia permettono di
comprendere il sistema familiare, la propria collocazione all’interno
di esso e, soprattutto, come ci si racconta la famiglia e come, a
partire da essa, ci si è proiettati nel mondo esterno.
Applicando questo potere
esplorativo e conoscitivo della fotografia Judy Weiser (1993) e Linda
Berman (1993) per prime hanno utilizzato la “Fototerapia”, ossia
l’utilizzo delle fotografie all’interno del setting terapeutico come
strumento coadiuvante la psicoterapia, in quanto facilitante
l’esplorazione del proprio mondo emozionale e familiare.
Con la fototerapia si
utilizzano foto personali e familiari per la comunicazione terapeutica,
la guarigione e la cura. Joe Spence, pioniere della fototerapia la
definisce letteralmente: “utilizzare la fotografia per curare noi stessi, prendendo sempre in considerazione la possibilità della trasformazione attiva”, ossia comprendere e cambiare delle parti di sé grazie all’esplorazione delle proprie fotografie.
Le fotografie in terapia
possono aiutare il paziente a divenire più consapevole della propria
identità fisica e a rafforzare la propria autostima.
Secondo la Weiser le foto
possono essere utilizzate anche al di fuori del setting di terapia e
definisce tale utilizzo “fotografia terapeutica”.
Un esempio di utilizzo
della fotografia in tal senso è il lavoro fatto da Ayres Marques Pinto
in diverse comunità psichiatriche con il suo progetto ”Foto-inconscio”,
attraverso il quale ha coinvolto gli ospiti di una comunità psichiatrica
nei vari momenti del processo fotografico, sottolineando come il
fotografare e il mettere, poi in mostra, le proprie foto abbia aiutato
gli ospiti della comunità psichiatrica a prendere contatto con
determinate emozioni e parti di sé.
La fotografia e il
fotografare, quindi, permettono di scoprire il lato oscuro del mondo,
dando rappresentabilità alle emozioni, espandendo l’immaginario e il
sogno e per far ciò è importante esercitarsi a pensare. Pensare per
immagini e imparare ad ascoltare le foto (Riggi, 2008).
E’ importante, infatti,
comprendere il mondo interiore e le emozioni che comunica chi fotografa
attraverso le sue foto, considerando che ogni foto evoca nell’altro
diverse emozioni che possono coincidere o meno con l’intenzionalità del
fotografo e, inoltre, ognuno, può percepire in modo diverso la stessa
immagine, creando dei significati diversi alla stessa foto, non
ascoltandola e denaturandola dei suoi reali messaggi emotivi.
Attilio de Angelis e Floriana Di Giorgio (http://www.psychomedia.it/pm/arther/fotogr/deangelis.htm)
ma dove ero? mah...
RispondiEliminaMauro ..... non c'eri. La foto l'ho scattata a Vietri sul Mare la sera del 18 .....
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