venerdì 5 giugno 2015

La fotografia in psicologia


La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell'intuito e della spontaneità. Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l'immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere. (da Henri Cartier-Bresson, Contrasto, 2004)”

Ognuno di noi possiede un album di foto e ognuno di noi ha scattato una foto, conservandola nel proprio album o sul proprio pc. Come sosteneva Marshall McLuhan (1967), l’uomo del 900 vede fotograficamente, ma nonostante la presenza massiccia della fotografia e del fotografare nella nostra esistenza, essa è tra le arti meno utilizzate e analizzata in psicologia e nel percorso di conoscenza di sé, ma non per questo è un mezzo meno potente di comunicazione interiore.
Secondo la psicoanalisi la macchina fotografica è un’estensione dell’apparato psichico o meglio di uno dei suoi organi percettivi fondamentali: la vista. Lo strumento-macchina avrebbe, quindi, il potere di collegare chi fotografa con il mondo esterno attraverso un processo di introiezione, che porterebbe a fissare un oggetto e il rapporto con quello oggetto, prima nel mirino, in seguito nello scatto e poi, dopo lo sviluppo, su un foglio di carta o su un supporto, attraverso il quale, si possa avere un rapporto fisico con l’immagine prodotta.
Il fotografo per fotografare, deve poter uscire fuori di sé e creare un collegamento tra il suo mondo interiore, le rappresentazioni di quest'ultimo e ciò che lo circonda. Inoltre, egli è l’unico che deciderà cosa immortalare della sua realtà, compiendo un atto di ri-produzione e ri-creazione. (Cacciari, 2001).
E’ importante, quindi, considerare la dinamica “dentro-fuori”, che compie il fotografo, portando parti di sé all’esterno e utilizzando quest’ultimo per comunicare parti di sé e per elaborare propri vissuti, come se la foto, in un certo senso fosse un “acting-out”, attraverso il quale si riproducono delle idee inconsce in azioni, piuttosto che come ricordi o pensieri. Seguendo quest’ottica ci si rende conto che ogni foto è soggettiva e, proprio per questo motivo, viene interpretata in modo diverso da ogni osservatore, il quale, inoltre, stimolato dall’immagine proietta i propri vissuti e le proprie emozioni sulla foto, mettendo in atto anch’egli la stessa dinamica dentro-fuori del fotografo attraverso, però, il medium fotografico.
La fotografia, considerando questa prospettiva, si configura come una metafora ed un’estensione del nostro processo conoscitivo, poiché non può restituire un gesto, un evento, un comportamento nella sua interezza, ma lo coglie e lo ripropone nel suo significato simbolico. In questo modo, attraverso le foto si “simbolizza la realtà”, apportando il proprio punto di vista alla realtà esterna.
Ma cosa avviene nella mente di una persona quando decide di fotografare? E cosa ci spinge a conservare le fotografie?
Continuando a far riferimento alla psicoanalisi, l’atto del fotografare, è strettamente connesso ai processi di introiezione e incorporazione, ottenendo con la voracità oculare soddisfacimento agli impulsi aggressivo-libidici di natura orale, legati alle fantasie ossessive di incorporazione e di conquista dell’oggetto. L’artista riuscirebbe, attraverso il fotografare, a sublimare questi impulsi infantili aggressivi, insiti anche nella macchina fotografica come strumento per “cacciare” immagini. 
In inglese fotografare coincide con il verbo shooting (sparare), per cui il fotografare potrebbe essere pensato come il prolungamento e l’esternalizzazione di un Io rapace e vorace. Un'aggressività inconscia ma anche il bisogno di conservare il nostro passato, in quanto le nostre immagini ci danno la conferma della nostra esistenza, del nostro esserci” (Tinti, 2007).
La fotografia attiva anche il processo mnemonico e assicura la nostra esistenza nel presente. 
Ogni foto colloca l'individuo in un continuum temporale che spazia attraverso un passato pieno di ricordi, che dà senso al suo presente e gli permette di proiettarsi nel futuro. Le foto rendono possibile conservare e fermare i momenti della vita, parti o aspetti della persona e, in quanto strumenti non verbali, attivano profondi vissuti, a volte, non ancora elaborati. 
Molto importante in questo senso è l’album di famiglia che dà la possibilità di narrare la propria storia all’interno della famiglia, dando informazioni importanti sia sul background culturale di appartenenza, che sulle dinamiche interne familiari; le informazioni visive della fotografia permettono di comprendere il sistema familiare, la propria collocazione all’interno di esso e, soprattutto, come ci si racconta la famiglia e come, a partire da essa, ci si è proiettati nel mondo esterno.
Applicando questo potere esplorativo e conoscitivo della fotografia Judy Weiser (1993) e Linda Berman (1993) per prime hanno utilizzato la “Fototerapia”, ossia l’utilizzo delle fotografie all’interno del setting terapeutico come strumento coadiuvante la psicoterapia, in quanto facilitante l’esplorazione del proprio mondo emozionale e familiare.
Con la fototerapia si utilizzano foto personali e familiari per la comunicazione terapeutica, la guarigione e la cura. Joe Spence, pioniere della fototerapia la definisce letteralmente: “utilizzare la fotografia per curare noi stessi, prendendo sempre in considerazione la possibilità della trasformazione attiva”, ossia comprendere e cambiare delle parti di sé grazie all’esplorazione delle proprie fotografie. 
Le fotografie in terapia possono aiutare il paziente a divenire più consapevole della propria identità fisica e a rafforzare la propria autostima. 
Secondo la Weiser le foto possono essere utilizzate anche al di fuori del setting di terapia e definisce tale utilizzo “fotografia terapeutica”. 
Un esempio di utilizzo della fotografia in tal senso è il lavoro fatto da Ayres Marques Pinto in diverse comunità psichiatriche con il suo progetto ”Foto-inconscio”, attraverso il quale ha coinvolto gli ospiti di una comunità psichiatrica nei vari momenti del processo fotografico, sottolineando come il fotografare e il mettere, poi in mostra, le proprie foto abbia aiutato gli ospiti della comunità psichiatrica a prendere contatto con determinate emozioni e parti di sé.
La fotografia e il fotografare, quindi, permettono di scoprire il lato oscuro del mondo, dando rappresentabilità alle emozioni, espandendo l’immaginario e il sogno e per far ciò è importante esercitarsi a pensare. Pensare per immagini e imparare ad ascoltare le foto (Riggi, 2008).
E’ importante, infatti, comprendere il mondo interiore e le emozioni che comunica chi fotografa attraverso le sue foto, considerando che ogni foto evoca nell’altro diverse emozioni che possono coincidere o meno con l’intenzionalità del fotografo e, inoltre, ognuno, può percepire in modo diverso la stessa immagine, creando dei significati diversi alla stessa foto, non ascoltandola e denaturandola dei suoi reali messaggi emotivi.

Attilio de Angelis e Floriana Di Giorgio (http://www.psychomedia.it/pm/arther/fotogr/deangelis.htm)


 

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