In attesa di sapere se davvero il dottor Tutino ha detto che
l’assessore Lucia Borsellino “va fatta fuori come suo padre” e il
governatore Crocetta non ha fatto una piega, buttiamo lì una domanda
forse lievemente più cruciale: interessa a qualcuno sapere chi ha fatto fuori Paolo
Borsellino, e perché? Leviamoci dalla testa che i processi sin qui
celebrati l’abbiano accertato. Sappiamo, grazie a pentiti come Spatuzza, che la
logistica dell’attentato fu curata dai boss di Brancaccio, Giuseppe
e Filippo Graviano, e che l’esecutore materiale fu il loro killer di
fiducia, Gaspare Spatuzza appunto. Sappiamo pure che per 15 anni, prima
del suo pentimento, la polizia di Palermo al comando di Arnaldo La Barbera
(ora defunto) aveva assicurato alla giustizia dei falsi colpevoli costruiti in
laboratorio (Scarantino, Candura e Andriotta) per depistare le
indagini su quelli veri mescolando fatti autentici (il ruolo, sia pur non
centrale, dei Graviano e il coinvolgimento della famiglia Scotto) ad autentiche
bufale (poi smontate con tante scuse nel processo di revisione). Purtroppo non
sappiamo chi ordinò quel depistaggio di Stato, che non poteva essere
un’iniziativa personale di alcuni poliziotti. Sappiamo però che, se lo Stato si
attiva per deviare il corso delle indagini sul delitto mafioso più eclatante
della storia insieme a quello di 55 giorni prima a Capaci, è perché si tratta
di una strage di Stato. Non lo dicono i soliti dietrologi visionari, ma
svariate risultanze processuali, purtroppo ancora tutte da approfondire a 23
anni dall’eccidio.
1) Il 4 marzo 1992 il neofascista Elio Ciolini, già coinvolto nelle
indagini sulla strage di Bologna, legato ai servizi e detenuto a Bologna,
scrisse una lettera a un giudice dal titolo “Nuova strategia della tensione in
Italia – Periodo marzo-luglio 1992”. E lì anticipò che tra marzo e luglio
sarebbero avvenuti “fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come
esplosioni dinamitarde, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico
Dc ed eventuale omicidio del futuro presidente della Repubblica” (il favorito
era Andreotti). Otto giorno dopo, fu assassinato l’andreottiano Salvo Lima.
Il 18 marzo Ciolini rivelò che il piano eversivo era opera di massoni, politici
e mafiosi: “Intimidire quei soggetti e Istituzioni Stato (forze di polizia
ecc.) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno
dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e
maggiore di quello della mafia”. Una profezia dettagliatissima su tempi e
bersagli della stagione stragista, prima in Sicilia e poi nel Centro Nord. Come
faceva un detenuto a conoscere tutti quei particolari?
2) Il 19 marzo 1992 l’agenzia di stampa romana Repubblica, legata agli
andreottiani e ai servizi, rivelò che il delitto Lima era solo l’inizio di una
strategia della tensione con obiettivi e ispiratori politici: altra prova di un
piano a più teste e a più mani. Il 21 e 22 maggio la stessa agenzia preannunciò
“un bel botto esterno” per influenzare l’elezione del nuovo capo dello
Stato. Infatti il 23 fu ucciso Falcone a Capaci e la candidatura di Andreotti
(nel mirino di Cosa Nostra per aver tradito gli impegni sull’annullamento in
Cassazione del maxiprocesso) sfumò a vantaggio di Scalfaro. Chi aveva suggerito
a Riina & C. le modalità e la tempistica di Capaci? E chi gli mise fretta
per eliminare subito dopo Borsellino, costringendo il Parlamento a convertire
in legge il durissimo decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, che dopo
Capaci i partiti avevano insabbiato?
3) Spatuzza ha messo a verbale che c’era anche un soggetto esterno a Cosa
Nostra, silenzioso osservatore, nel garage in cui lui e altri uomini dei
Graviano imbottivano di esplosivo l’auto rubata per la strage di via D’Amelio.
Chi era costui?
4) Appena il mafioso Di Matteo decise di collaborare con la
giustizia, Cosa Nostra gli sequestrò il figlioletto Santino per costringerlo al
silenzio (e poi strangolare il bimbo e scioglierlo nell’acido). Il 14 dicembre
1993, quando ancora sperava che il piccolo le fosse restituito vivo, la moglie
del pentito fu intercettata mentre scongiurava il marito di non parlare degli
“infiltrati” dello Stato nella strage di via D’Amelio. Chi erano?
5) Tra il 27 e il 28 luglio, mentre al ministero della Giustizia “depurato”
degli ultimi fautori della linea dura Claudio Martelli e Niccolò Amato si
preparava l’alleggerimento del 41-bis, Cosa Nostra – che già a fine
maggio aveva abbattuto la torre dei Pulci a Firenze – tornò a colpire nel
continente: polverizzò in simultanea il Padiglione di Arte Contemporanea di
Milano e le basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a
Roma. Chi suggerì quegli obiettivi, senz’altro sconosciuti agli incolti
mafiosi, senza contare che le due chiese vaticane richiamavano i nomi dei
presidenti delle Camere, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano
(che ha recentemente rivelato ai pm di Palermo di aver saputo fin da allora di
un attentato mafioso contro di lui)? E perché l’allora premier Carlo Azeglio
Ciampi, dopo il blackout che quella notte isolò i centralini di Palazzo
Chigi, disse di aver pensato a un colpo di Stato?
Anche senza entrare nella trattativa Stato-mafia, ce
n’è abbastanza per parlare di stragi di Stato. Che però sembrano interessare
soltanto un pugno di vedove, di orfani e di pm, debitamente isolati anche da
chi, ogni 23 maggio e 19 luglio, scende a Palermo per lacrimare a favore di
telecamera. La trattativa dello Stato con la mafia è certa. Le stragi di
Stato sono certissime. Lo Stato invece è ancora presunto.
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 19 luglio 2015)
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