Suscita qualche legittima curiosità ciò che ha detto Matteo Renzi
all’entusiasta platea di Cl sulle colpe storiche del “berlusconismo e
dell’antiberlusconismo che hanno fatto perdere all’Italia vent’anni”.
Una frase furba e anche abbastanza ignobile. Come nel carattere del
personaggio, perché mette tutto e tutti sullo stesso piano (con lui al
piano di sopra). Ma che lo espone ad alcune inevitabili domande sulle
sue personali scelte di campo, tenendo conto che, a differenza del
calcio, su certi argomenti non è possibile lo zero a zero e neppure
mandare la palla in tribuna.
Per esempio, nei giorni del G8 di Genova quando la polizia del governo Berlusconi mandava all’ospedale le persone che sfilavano pacificamente – per non parlare della macelleria messicana nella scuola Diaz –, il cuore del Matteo già grandicello, batteva per i manganelli o per quelli a cui spaccavano la testa?
E nei giorni dell’editto bulgaro quando lesse (se leggeva i giornali) che Biagi, Santoro e Luttazzi
erano stati cacciati dalla Rai perché invisi al presidente-padrone,
Renzi continuò a giocare con le macchinine o pensò tra sé e sé (perché
Verdini non sentisse): però, che schifo?
E se con gli amici del bar di Rignano il discorso cadeva sul
conflitto d’interessi del presidente del Consiglio, proprietario di tre
tv e controllore del servizio pubblico, la reazione di Renzi qual era?
Che palle, non se ne può più?
E delle numerose leggi vergogna, e dei vari lodi Schifani e Alfano
poi dichiarati incostituzionali, il giovanotto Renzi cosa pensava
esattamente? Che costituivano utili innovazioni di un sistema
giudiziario obsoleto? O che era un insopportabile uso del governo e del
Parlamento per consentire all’Imputato di farla franca dimostrando che
la legge non è affatto uguale per tutti?
Sappiamo invece da che parte stava quando il suo maestro Silvio cercò di smantellare a proprio uso la Costituzione. Il discepolo non è da meno.
E quando (andiamo a memoria) nella campagna elettorale del 2006, Berlusconi attaccò frontalmente Prodi
dicendo che non poteva credere che “ci fossero in giro così tanti
coglioni pronti a votare contro i loro interessi”, possibile che il
futuro premier stesse dalla parte dei coglioni antiberlusconiani?
E quando all’apice del bunga-bunga, Dario
Franceschini chiese agli italiani: “Fareste educare i vostri figli da
quest’uomo?”, Renzi cosa rispose: sì, no o forse? Oppure pensava che il
suo futuro ministro stesse parlando di Roman Polanski?
Infine (ma potremmo continuare a lungo), quando l’allora presidente
Napolitano rifiutò di firmare l’infame decreto del governo Berlusconi
che avrebbe vietato l’interruzione dell’alimentazione e idratazione
artificiale di Eluana Englaro, Renzi rinunciò a provare vergogna per non contribuire alla paralisi del Paese?
Verrebbe da pensare che un premier cresciuto nella cultura dei
Telegatti rappresenti la media di ignoranza (e di smemoratezza) vigente
nel resto del Paese. Invece, il suo è puro cinismo. Renzi conosce troppo bene i guasti prodotti dal ventennio berlusconiano
ma non gliene frega nulla. O meglio, ne fa un uso personale per
azzerare tutto ciò che viene prima di lui e per alimentare la
conveniente leggenda dell’“uomo nuovo”, senza scheletri nell’armadio e
ignaro delle nefandezze di chi l’ha preceduto. Tutto già visto. Ne sanno
qualcosa Furio Colombo e chi scrive che ai tempi dell’Unità “antiberlusconiana” subirono lo stalking della dirigenza Ds e successivamente Pd (da Fassino a Veltroni)
che con crescente irritazione ci andavano ripetendo: non si può dire
solo no (slogan che fornì anche il titolo a un libretto renziano ante
litteram che andrebbe ripescato). Fummo persino sottoposti a una sorta
di mini-processo dai senatori diessini guidati da Franco De Benedetti
che garbatamente minacciava di toglierci il finanziamento pubblico di
cui il giornale si giovava. Rispondemmo: fate pure. Andò a finire che
Colombo fu accompagnato alla porta e che un paio d’anni dopo toccò a me.
Felix culpa, visto che anche da quella “spinta” nacque il Fatto.
La differenza è che, allora, pur nella fregola di farsi benvolere dal
Sultano, quel gruppo dirigente agiva con un minimo di timore e di
rispetto verso un elettorato di sinistra che non poteva certo mandare
giù l’inciucio con un personaggio che aveva elogiato le
“tante buone cose fatte da Mussolini”, che aveva definito l’Italia “un
paese di merda” e che della sua affiliazione alla loggia di Gelli
diceva: “Essere stato piduista non è titolo di demerito”. Mettendo
sullo stesso piano Berlusconi e chi lo ha combattuto per anni in
Parlamento, sulle piazze e su alcuni giornali, quel rispetto Renzi lo ha
preso a calci. La storia, che lui fa finta di non conoscere, insegna
che presto o tardi sarà ricambiato della stessa moneta.
Antonio Padellaro (Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2015)
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