martedì 8 settembre 2015

"B. ha fatto molto. In peggio. E Renzi fa finta che non c'era".


Palavobis di Milano, anno 2002: Paolo Flores d'Arcais aveva organizzato la prima grande manifestazione per la legalità. Massimo Fini conclude il suo intervento con una citazione: «A brigante, brigante e mezzo». Il ministro Castelli, probabilmente ignorando che il riferimeno fosse una frase pronunciata da Sandro Pertini, a momenti voleva farlo arrestare. E dunque con Fini proviamo a capire cos'è stata l'opposizione al berlusconismo.

Proviamo a definire l'oggetto: cos'ha significato combattere il sistema Berlusconi?
Affermare il rispetto e il primato della legalità. Il suo opposto, il berlusconismo, è stato il riuscitissimo tentativo di affermare che la legge esiste solo per i poveri cristi. Infatti è stato creato un doppio diritto: uno per i poveracci, che obbedivano al «dura lex sed lex», e quindi «in galera subito e buttiamo pure le chiavi», come disse Daniela Santanchè; e poi un secondo diritto inesistente, riservato ai potenti che in sostanza erano legibus soluti.

L'antiberlusconismo che avrebbe paralizzato l'Italia quale sarebbe stato?
Ai tempi, quelli del Pd dicevano: «Non mi prenderai per un girotondino?». Cioè: non farmi il torto di considerarmi uno che chiede il rispetto della legge anche per i potenti. Tutto risale però agli anni Ottanta. Il tentativo di impedire a Berlusconi di possedere l'intero comparto radio-televisivo italiano fu fatto dalla magistratura. Poi intervenne Craxi e fu fatta la legge Mammì. Quando violi un principio, non sai mai dove vai a finire.

Perché il presidente del Consiglio ha scelto di dire adesso questa cosa?
Renzi rappresenta l'italiano tipo che durante la lotta tra fascismo e antifascismo aspettava di vedere chi avrebbe vinto per poi schierarsi. Nel periodo berlusconiano ha fatto il pesce in barile e ora gli fa comodo presentarsi come l'uomo nuovo, che non era stato toccato da quella contrapposizione né in un senso né nell'altro.

Il patto del Nazareno l'ha fatto lui.
Vero. Ma ha poco a che vedere con la questione morale: è un'intesa che poteva firmare con lui come con chiunque altro.

Bè, forse non proprio. Non è affatto neutro per un premier di sinistra stringere alleanze con Berlusconi.
Non è neutro nella misura in cui tratti con un «delinquente naturale» come lo ha definito il Tribunale di Milano. Però già allora Berlusconi era politicamente quasi morto.

Dicono: è una polemica vecchia e di nessuna attualità.
Sebra esserlo. In realtà non lo è se la traduciamo in battaglia per il rispetto delle legalità. La più grave responsabilità di Berlusconi - condivisa anche dalla sinistra – è stata di aver tolto al popolo italiano quel poco di senso di legalità che gli era rimasto.

E' vero che l'Italia è stata paralizzata?
E' stato fatto molto, ma in peggio. E' lungo l'elenco delle leggi che hanno cercato, riuscendoci in parte, di cancellare principi come l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Producendo effetti che durano ancora oggi, perché l'importanza dello Stato di diritto è molto scesa nella percezione dei cittadini. Mafia capitale ne è un esempio, ma è solo uno dei tanti.

All'inizio dell'ultimo ventennio era così?
No. La parabola di Di Pietro secondo me è la cartina di tornasole di questo ragionamento. Da eroe osannato, insieme al pool e a Borrelli, è diventato nel giro di pochissimo tempo il peggior nemico di quasi tutti. In fondo il sistema d'illegalità diffusa non dispiace agli italiani. Certamente non è il loro primo pensiero. Spiace dirlo, ma le battaglie che alcuni di noi hanno fatto sono state perfettamente inutili.

Gherardo Colombo, in un'intervista a questo giornale, ha detto che gl'italiani sono più sudditi che cittadini.
Ricordo nel 2002 una manifestazione di Micromega a piazza San Giovanni: c'erano un milione di persone: portare in piazza così tanta gente su un tema così - non per il lavoro o la crisi economica – non è facile. Il guaio è che non è servito a nulla. L'italiano oggi è fatto in questo modo, ma non è sempre stato così. Sono abbastanza vecchio per ricordare che negli anni Cinquanta l'onestà era un valore, nel mondo contadino, negli ambienti borghesi come in quelli proletari. E' una degenerazione etica e culturale cui hanno contribuito moltissimi fattori: Berlusconi è uno di questi, ma non il solo. Basta pensare a cos'era la televisione di Bernabei e cos'è stata dopo, con il pluralismo e infine con l'avvento del commerciale. Un processo che ha fatto rincretinire la gente: sembra che il popolo non aspettasse altro. Sennò non si capisce il capovolgimento per cui Tangentopoli da simbolo di riscossa è diventata un modello negativo. La democrazia è un sistema di parole, il modo migliore per ingannare la gente. Preferisco l'Isis...

Massimo Fini - Intervista di Silvia Truzzi (Il Fatto Quotidiano, 30 agosto 2015)


Riforma del Senato, l’appello di Zagrebelsky: “Fermiamo il suicidio assistito della nostra Costituzione”



Il presidente emerito della Corte costituzionale e presidente onorario di Libertà e Giustizia Gustavo Zagrebelsky rivolge un appello ai legislatori alla vigilia dell’ultima lettura della riforma costituzionale promossa dal governo. Sostengono l’appello il presidente Alberto Vannucci, l’ex presidente Sandra Bonsanti e tutto il Consiglio  di Presidenza di Libertà e Giustizia


Il funzionamento della democrazia è cosa difficile, stretto tra l’inconcludenza e la forza. Chi crede che si tratti di una battaglia che si combatte una volta ogni cinque anni in occasione delle elezioni politiche e che, nell’intervallo, tutto ti è concesso perché sei il “Vincitore”, si sbaglia di grosso ed è destinato a essere travolto, prima o poi, dal suo orgoglio, o dalla sua ingenuità, mal posti. La prima vittima dell’illusione trionfalistica è il Parlamento. Se pensiamo che si tratti soltanto di garantire l’azione di chi “ha vinto le elezioni”, il Parlamento deve essere il supporto ubbidiente di costui o di costoro: deve essere un organo esecutore della volontà del governo. Altrimenti, è non solo inutile, ma anche controproducente.

Le riforme in campo, infatti, sono tutte orientate all’umiliazione del Parlamento, nella sua prima funzione, la funzione rappresentativa. Che cosa significano le leggi elettorali, che prevedono la scelta dei candidati attraverso le “liste bloccate” stilate direttamente dai capi dei partiti o attraverso la farsa delle cosiddette “primarie”, se non l’umiliazione di quella funzione nazionale: trionfo dello spirito gregario o del mercato dei voti. Il prodotto degradato, se non avariato, è davanti agli occhi di tutti. Così, mentre dalle istituzioni ci si aspetterebbe ch’esse tirassero fuori da chi le occupa il meglio di loro stessi, o almeno non il peggio, di fatto avviene il contrario.

Queste istituzioni inducono alla piaggeria, alla sottomissione, all’assenza di idee, alla disponibilità nei confronti dei potenti, alla vigliaccheria interessata o alla propria carriera o all’autorizzazione ad avere mano libera nei propri affari sul territorio di riferimento. Per essere eletti, queste sono le doti funzionali al partito nel quale ti arruoli. Non devi pensare di poter “fare politica”. Non è più il tempo: il tempo è esecutivo!

Una prova evidente, e umiliante, dell’inanità parlamentare è la vicenda che ha agitato la vita politica negli ultimi due anni: la degradazione del Senato in Camera secondaria che dovrebbe avvenire col consenso dei Senatori. Si dice loro: siete un costo, cui non corrisponde nessun beneficio; siete un appesantimento dei processi decisionali, cui corrisponde non il miglioramento, ma il peggioramento della qualità della legislazione. Sì, risponde il Senato: è così. Finora siamo stati dei parassiti inutili e dannosi e siamo grati a chi ce ne ha resi consapevoli! Sopprimeteci!

Vediamo più da vicino questo caso da manuale di morte pietosa o suicidio assistito nella vita costituzionale.

A un osservatore non superficiale che non si fermi alla retorica esecutiva e “governabilitativa”, cioè ai costi (“Senato gratis”, è stato detto) e alla velocità (una deliberazione per ogni legge, invece di due), l’esistenza di una “seconda Camera” risulta bene fondata su “ragioni conservative”. Non conservative rispetto al passato, come fu al tempo delle Monarchie rappresentative, quando si pose la questione del bilanciamento delle tendenze anarcoidi e dissipatrici della Camera elettiva, propensa a causa della sua stessa natura a sperperare denaro e tradizioni per accattivarsi gli elettori. Allora ciò che si voleva conservare era il retaggio del passato. Oggi, di fronte alla catastrofe della società dello spreco, si tratterebbe dell’opposto, cioè di ragioni conservative di risorse e opportunità per il futuro, a garanzia delle generazioni a venire.

Il Senato come concepito nella riforma moltiplica la dissipazione. Se ne vuole fare un’incongrua proiezione amministrativistica di secondo grado di enti locali, a loro volta affamati di risorse pubbliche. A questa prospettiva “amministrativistica” se ne sarebbe potuta opporre una “costituzionalistica”. Nei Senati storici, le ragioni conservative corrispondevano alla nomina regia e alla durata vitalizia della carica: due soluzioni, oggi, evidentemente improponibili, ma facilmente sostituibili con l’elezione per una durata adeguata, superiore a quella ordinaria della Camera dei deputati, e con la regola tassativa della non rieleggibilità, come garanzia d’indipendenza da interessi particolari contingenti.

A ciò si sarebbero potuti accompagnare requisiti d’esperienza, competenza e moralità particolarmente rigorosi, contenuti in regole di incandidabilità, incompatibilità e ineleggibilità misurate sulla natura dei compiti assegnati agli eletti. Fantasie. I riformatori costituzionali pensano ad altro: a eliminare un contrappeso politico, ad accelerare i tempi. Non riuscendo a eliminare, puramente e semplicemente, un organo, che così come è si ritiene inutile, anzi dannoso, si sono persi in un marchingegno la cui assurda complicazione strutturale – le modalità di estrazione dei nuovi “senatori” dalle assemblee locali – e procedimentale – i rapporti con l’altra Camera – verrà alla luce quando se ne dovesse sperimentare il funzionamento.



Campania, De Luca diceva: ‘Incarichi? Mai mercato politico’. Ma sceglie i ‘trombati’ (come il senatore che salvò Berlusconi)



In materia di nomine e rottamazione della malapolitica, c’è qualcosa che non combacia tra i buoni propositi del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e i fatti concreti. Ecco i dati. E le date. Il 2 marzo De Luca, fresco vincitore delle primarie Pd in Campania, si presenta come il “nuovo”: “La Regione non sarà un mercato, non ci sarà distribuzione di incarichi; nessun mercato politico”. La musica cambia qualche mese dopo quando De Luca il 31 maggio vince pure le elezioni “vere” e diventa governatore. La promessa di non promuovere trombati viene infatti mantenuta durante la formazione della giunta. Ma viene violata invece quando si passa alle nomine del sottobosco.

C’è da rifare il vertice di Soresa, la partecipata della sanità campana. De Luca propone come presidente Giovanni Porcelli e come consigliera Giulia Abbate. Il primo – Porcelli – è un candidato non eletto di Campania Libera per De Luca, la lista messa su dall’ex senatore dell’Udeur Tommaso Barbato, ex braccio destro di Clemente Mastella e decisivo per la caduta del governo Prodi nel 2008, nel voto decisivo per la fiducia a Palazzo Madama: in quell’occasione, racconta la sua storia personale, sputò al collega di partito Nuccio Cusumano, colpevole di non aver seguito le indicazioni di Mastella. Porcelli in questa lista è risultato secondo dei non eletti, raccogliendo 5300 preferenze. Ex sindaco di Mugnano, 43 anni, ha anche ricoperto diversi incarichi politici, tra cui quello di presidente della Munianum spa, la società che gestiva il mercato ittico di Mugnano. La società è poi fallita sotto il peso di un paio di milioni di debiti.

La seconda – Abbate – è una consigliera regionale uscente e non rieletta del Pd. Nel 2013 era entrata in consiglio come prima dei non eletti, dopo che Umberto Del Basso De Caro fu nominato sottosegretario nel governo Letta. Nonostante fosse capolista in un collegio di Benevento e nonostante abbia raccolto oltre 6mila preferenze, la Abbate (che di lavoro fa l’avvocato) non è stata eletta. Polemiche ad alzo zero in Forza Italia e nel centrodestra: da quale pulpito, loro nel 2010 fecero esattamente lo stesso quando Caldoro nominò a capo di Soresa il consigliere non rieletto Francesco D’Ercole.

Ma il vero capolavoro di De Luca arriva con la nomina per Bruno Cesario, l’ex Responsabile che, insieme a Domenico Scilipoti e Massimo Calearo nel dicembre 2010, uscì dal centrosinistra per regalare un altro anno di vita al crepuscolare governo Berlusconi (e ne ottenne in extremis uno strapuntino da sottosegretario). Ex Ppi, Margherita, Pd, primo dei non eletti in Forza Italia in un collegio lontano dalla Campania, il trasformista Cesario è tornato al suo primo amore per Ciriaco De Mita e poche ore prima della chiusura delle liste ha accettato l’invito del leader di Nusco a candidarsi nell’Udc alleata in extremis con il Pd e De Luca. Non ce l’ha fatta, ma De Luca lo ha recuperato con un incarico di dirigente regionale di staff.

Cesario avrà il compito di guidare la sede della Regione Campania a Roma, dove curerà i rapporti con il Parlamento, il Cipe e il sistema delle conferenze. Più o meno negli stessi giorni, De Luca ha nominato una consigliera regionale uscente e non rieletta del Pd, Angela Cortese, consulente politico per il settore scuola. La delega che Cortese assunse in due vecchie giunte provinciali napoletane. A Palazzo Santa Lucia il De Luca-dottor Jekyll, rottamatore renziano, ha lasciato il posto al De Luca-mister Hyde, cinico riciclatore. Persino degli amici dell’ex nemico De Mita.



domenica 6 settembre 2015

Strage di Portella della Ginestra: 56 anni dopo, sarà desecretata? Mistero blindato e .......

Portella della Ginestra: che cosa sapremo dai documenti desecretati dal governo? C’è speranza e scetticismo insieme. Sono trascorsi quasi sessanta anni, ma è come se fosse ieri, quella strage di uomini e donne innocenti non l’ha dimenticata nessuno, né coloro che c’erano, né i figli ed i figli dei figli. Troppo crudele, troppo ingiusta, troppo ignobile. Se qualcuno avesse voluto dimenticarla non ci sarebbe riuscito: ogni anniversario è stato vissuto come la giornata successiva all’eccidio. Onore al merito di chi ha provveduto a tenere in piedi la memoria.
Di Portella della Ginestra sappiamo tutto e niente. Decine di libri, inchieste, investigazioni, rivelazioni, bugie. Le verità ed i sospetti s’intrecciano: una parola definitiva, una verità giudiziaria, storicamente accettabile, non c’è ancora. C’è una sola spiegazione per questa omertà. Ancora oggi il mistero viene protetto, perché potrebbe far male. Molto male.
Proviamo a ricostruire gli eventi, cercare di seguirli e trovare un filo logico, che ci permetta di guardare in faccia la realtà. Cominciamo dall’inizio, l’ultimo conflitto mondiale. È a quel tempo che i legami d’Oltreoceano si consolidano e fanno la storia – attraverso due personaggi, Frank Costello e Angelo Tresca, entrambi italoamericani. Perché loro due?
L’italoamericano Frank Costello accettò di malavoglia il comando di Cosa nostra americana. Era il 1942, Lucky Luciano era finito in galera e Vito Genovese era scappato in Italia: Costello avrebbe preferito curare i suoi affari piuttosto che l’organizzazione. Aveva cervello, e lo usò: propose al Pentagono la disponibilità della mafia a collaborare con le forze alleate per lo sbarco in Sicilia. In cambio ottenne la scarcerazione di Lucky Luciano.
Luciano e altri 64 mafiosi, espulsi dall’America dopo la guerra come ricompensa dei servigi resi in Sicilia e nel Napoletano, tornarono liberi e rispettati.
L’11 gennaio 1943, il giornalista italoamericano Angelo Tresca, venne ucciso da un killer. Un colpo di pistola in bocca. Tresca era un radicale anarchico. Tre anni prima, nel ’40, aveva raccontato ad un suo collega del Times l’incontro avuto con Benito Mussolini a Basilea, in Svizzera, quando il Duce era esule. Un ricordo lontano: forse il 1904. Tresca, cacciato via dall’Italia per le sue attività sindacali, prima di raggiungere gli Stati Uniti, aveva soggiornato nella Confederazione. “Mussolini ha tradito la causa”, riferì Tresca al collega del Times. Bastò perché fosse giustiziato. I sospetti caddero su Vito Genovese, che però negò tutto…
Erano i giorni in cui, Genovese decideva di andarsene in Italia. Un abile intrigo. Genovese divenne amico dei fascisti e dopo lo sbarco degli alleati, divenne anche uno dei collaboratori del governatore militare, Charles Poletti e, qualche anno dopo, amico di Salvatore Giuliano, capo dei banditi di Montelepre, separatista, anticomunista e filo americano.
L’attività di Costello fu altrettanto fruttuosa. I mafiosi italoamericani entrarono nel controspionaggio, e vennero addestrati nella base alleata di Algeri. Nei mesi che precedettero l’armistizio dell’8 settembre, alcuni ufficiali italiani – un gruppo ristretto – si recarono ad Algeri. Erano siciliani, a cominciare dal più alto in grado, il generale Castellano. Ad essi sarebbe toccata di partecipare alle trattative per l’armistizio, e mettere così le basi per una intesa che andasse al di là della preparazione dello sbarco. Gli americani, del resto, avevano deciso di aprire un fronte in Sicilia per accontentare Stalin. Dal punto di vista strategico, l’operazione militare avrebbe favorito i sovietici. Pare logico, supporre che volessero trarre benefici duraturi dall’operazione, stabilendo lungo il confine occidentale una testa di ponte affidabile e duratura. Ciò che avvenne prima e durante lo sbarco lo prova: il governatorato militare americano, a differenza di quello inglese, non si limita ad assumere decisioni provvisorie, tipiche dell’esercito di occupazione, ma contribuisce a creare una classe dirigente.
Molti siciliani, grazie alle relazioni americane, avrebbero svolto un ruolo centrale nel governo dell’economia, della finanza e delle istituzioni dell’Isola. Il dopoguerra fece la fortuna di molti siciliani, come Vito Guarrasi e Michele Sindona. A Guarrasi fu affidato il patrimonio della grande famiglia anglo-siciliana dei Whitaker, e questi – a sua volta – lo consegnò in gestione a Michele Sindona, che sarebbe divenuto il perno dei collegamenti fra mafia, finanza e massoneria.
I servizi segreti statunitensi, è il 24 ottobre 1944, riferiscono che le logge massoniche aderenti al separatismo, hanno deciso di organizzarsi “per eliminare dal mondo politico italiano tutti i filocomunisti; per finanziare squadre di killer reclutati fra ex fascisti e gangster di professione, utilizzandole per attentati ad alte personalità di governo e per stragi ai danni della popolazione civile sotto false insegne che indichino come responsabili i comunisti”.
In due documenti del consolato americano a Palermo (21 e 27 novembre) si accenna a “una riunione dei capi della mafia con il generale Castellano per la formazione di gruppi incaricati di favorire l’autonomia… sotto la direzione della mafia”.
Mafia e separatisti si servono del banditismo. Salvatore Giuliano, imprendibile bandito di Montelepre, faceva politica; decine di sindacalisti e dirigenti della sinistra vengono uccisi: fino al 1950 Giuliano terrorizza i nemici della classe dirigente nata nel dopoguerra.
Il movimento contadino fu decapitato, la mafia consolidò il suo potere e le sinistre subirono una sconfitta elettorale. Solo allora, la strategia della tensione ebbe una pausa e la mafia consentì l’eliminazione del banditismo, legittimando il suo ruolo normalizzatore.
La strage di Portella della Ginestra “affidata alla banda Giuliano” e l’uccisione e del bandito, Salvatore Giuliano, e del suo luogotenente Gaspare Pisciotta sono tre episodi legati indissolubilmente fra loro. Svelarne uno significa avere la verità sul resto. 
Pisciotta era stato protagonista di un episodio nel corso del processo per la strage di Portella, che si era svolto nel 1954 a Viterbo. Dietro le sbarre, aveva accusato i mandanti della strage, gridando come un ossesso. “Siamo un corpo solo: banditi, polizia e mafia; come il padre, il figlio e lo spirito santo”.
Portella fu la prima strage di Stato. Mettendo insieme i delitti politici della mafia e quelli eseguiti dai banditi, non si può che trarne una conclusione: la Sicilia aveva sperimentato il primo golpe mafioso. Quale scopo perseguiva il nuovo regime filo-occidentale? Impedire alle sinistre l’accesso alle istituzioni.
Bisognava accontentarsi delle urla di Pisciotta? Era tutta lì la questione: nel padre, il figlio e lo spirito santo. Che Giuliano avesse fatto il gioco della mafia e dei separatisti, e questi ultimi siano stati i cani da guardia dell’America, era risaputo.
La Procura di Palermo negli anni Ottanta si occupò della strage di Portella. Quando ne venni a conoscenza, incontrai il magistrato. “Ci ho lavorato anch’io sulla strage di Portella, su Pisciotta e sull’assassinio del Procuratore della Repubblica, Pietro Scaglione”, riferì senza esitazioni Alberto Di Pisa, allora sostituto procuratore. “Prima di Scaglione, la mafia non aveva colpito un giudice. L’assassinio di Scaglione è legato alla strage di Portella della Ginestra. Lo uccisero in maggio del 1971, cinque mesi dopo il tentato golpe del principe Borghese”.
In effetti, Gaspare Pisciotta lo incontrò in carcere, gli manifestò il proposito di dare nome e cognome al padre, al figlio e allo spirito santo. Scaglione promise che sarebbe ritornato con il cancelliere per verbalizzare tutto quanto, e il giorno dopo lo avvelenarono con il caffè corretto.
“Stricnina…”, precisò Di Pisa. “Sbagliarono entrambi, Pisciotta e Scaglione. Le cose non dette portarono alla tomba l’uno e l’altro”. Lo avrebbero ucciso 17 anni dopo. Perché?
Ammazzano Scaglione il 5 maggio 1971, precisò Di Pisa. “Meno di due mesi dopo un ex deputato comunista, poi uscito dal partito, Giuseppe Montalbano, si presenta spontaneamente alla Commissione antimafia e afferma che il delitto è da mettere in relazione all’avvelenamento di Pisciotta, avvenuto nel carcere dell’Ucciardone il 9 febbraio 1954. Pisciotta avrebbe confidato qualcosa d’importante a Scaglione, senza che il giudice verbalizzasse. Si può ipotizzare che abbia rivelato all’allora sostituto procuratore Scaglione di non essere stato lui il killer di Giuliano. Quando Scaglione sta per lasciare Palermo, nel ’71, chi teme queste informazioni, lo fa uccidere”.
Ma se Scaglione sa e non ha mai aperto bocca, perché dovrebbe farlo nel 1971? “Semplice”, sostenne il magistrato. “Scaglione non è affatto contento di come è stato trattato. Formalmente, infatti, lascia Palermo perché è stato promosso Procuratore generale a Lecce, ma aveva dovuto difendersi in Commissione antimafia e nel Consiglio superiore della magistratura per la fuga di Luciano Liggio, il capo dei corleonesi. Egli considerò ingiusta la stessa indagine sul suo conto, e probabilmente lo era. Perciò qualcuno pensò che avesse deciso di utilizzare le notizie in suo possesso”.
“La deposizione di Frank Mannino alla commissione antimafia è importante”, sostenne Di Pisa. “Mannino era un componente della banda Giuliano, era stato condannato all’ergastolo. Fu interrogato il 2 luglio 1970… Allora Mannino fa questo discorso: prima del processo di Viterbo, viene l’avvocato Crisafulli e ci dice: guardate che Pisciotta dirà di avere ucciso Giuliano, ma state tranquilli che non è lui. Ancora Pisciotta non aveva confessato – dicendo Ho ucciso io Giuliano – Mannino, così può affermare di essere convinto che non sia stato lui. È un traditore, accusa all’Antimafia, ma non è l’assassino di Giuliano. Mannino dice dell’altro: Giuliano è stato drogato e ucciso nel sonno… Non fu né il capitato Perenze, né Pisciotta. Quando venne arrestato, ricorda ancora Mannino, il colonnello Calandra dei carabinieri ebbe a mostrargli una bustina, dicendo: “La vedi questa bustina? Si dorme 24 ore…”.
“E la Commissione?”, chiesi al sostituto procuratore. “Niente… Come se avessero parlato delle arance di Catania! Anzi dai verbali si trae la sensazione che qualcuno dei membri della Commissione abbia voluto sviare il discorso”.
“Da che cosa lo ha capito?”
“Da qualche domanda ridicola e dal fatto che nessuno pone quesiti che approfondiscano le rivelazioni di Mannino. Un commissario dell’antimafia chiede a Mannino se è vero che Giuliano toglieva ai ricchi per dare ai poveri…”
“E chi fece questa domanda?”
“Un deputato della Provincia di Catania, compaesano dell’ex ministro dell’Interno Mario Scelba e del questore Angelo Vicari. Sia Scelba che Vicari ebbero un ruolo importante nella repressione del banditismo ed in particolare nella vicenda relativa alla cattura di Giuliano. Ma la questione principale è un’altra: Pisciotta confessò un delitto non commesso. Perché lo fece? e chi uccise Giuliano? chi voleva colpire Pisciotta?”
“La risposta è venuta “, ricordai.
“E quale sarebbe, quella di Nardo Messina?”
“Sì, Nardo Messina. Rivela il coinvolgimento della mafia nei golpe bianchi e sostiene che fu Luciano Liggio ad ammazzare Pisciotta. Ecco perché Liggio fece assassinare Scaglione. Masino Buscetta ha detto che l’omicidio Scaglione è stato anomalo. Non solo mafia, insomma. Questo spiega perché Liggio abbia potuto fare quello che voleva per decenni…”.
Tra i segreti che Pisciotta portò con sé nella tomba vi è certamente quello sui mandanti della strage di Portella della Ginestra verificatasi il 1° maggio del 1947 allorquando Giuliano e la sua banda spararono su dei contadini inermi uccidendo 11 persone e ferendone altre cinquanta. Al processo di Viterbo che si celebrò nel 1951 Pisciotta disse che la strage era stata compiuta in cambio di promesse fatte a Giuliano ed alla sua banda da parte di ministri, nobiluomini e parlamentari. E fece nomi e cognomi, senza che succedesse niente. 
Coloro che ci hanno fatto le promesse – afferma Gaspare Pisciotta – si chiamano Bernardo Mattarella, il principe Alliata, l’onorevole monarchico Marchesano ed anche il signor Scelba, ministro dell’Interno. I primi tre si servivano dell’onorevole Cusumano Geloso come ambasciatore… ed il tramite tra la banda Giuliano ed il governo di Roma era l’onorevole Marchesano… Furono Marchesano, il principe Alliata e Bernardo Mattarella ad ordinare la strage di Portella della Ginestra. Prima della strage essi si sono incontrati con Giuliano”.
“Gli incontri tra i mandanti e Giuliano furono quattro: il primo ad Alcamo al quale partecipò l’onorevole Mattarella; il secondo a Boccadifalco al quale parteciparono il principe Alliata e l’onorevole Marchesano; il terzo al Passo di Rigano, al quale partecipò l’onorevole Cusumano Geloso; il quarto a Parrini, dopo le elezioni del 1948, con Cusumano e Mattarella. Giuliano anzi ordinò anche il sequestro della famiglia dell’onorevole Mattarella perché questi non aveva tenuto fede alle sue promesse”. 
“Ho letto i giornali; ho letto anche le smentite di Mattarella, Cusumano, Alliata e Marchesano i quali dicono che sono pazzo. Ma i pazzi sono loro. Indico ora altri nomi di persone che conoscono tutta la verità e che lei Presidente può fare venire qui: Domenico Albano da Borgetto, Giovanni Provenzano da Montelepre, Rosario Costanzo da Terrasini. Sono i tre che andavano a prendere Cusumano e gli altri e li portavano da Giuliano. La prima offerta di 50 milioni perché tacessi mi era stata fatta dall’onorevole Cusumano Geloso in casa mia. Io avevo scritto una lettera al principe Alliata subito dopo l’uccisione di Giuliano e Cusumano era venuto subito a trovarmi. In quella occasione mi disse che potevo espatriare, che mi sarebbero stati consegnati cinquanta milioni di lire.
Un’altra offerta mi fu fatta in carcere da persona che non voglio indicare. La terza offerta la ebbi nel carcere di Viterbo e mi fu fatta dall’avvocato difensore che ho cacciato via. Era l’avvocato Guccianti. Mi disse che i 50 milioni li aveva messi a mia disposizione il ministro Scelba”. 
Le rivelazioni di Pisciotta determinarono l’avvio di una indagine a conclusione della quale Mattarella, Alliata e Marchesano furono prosciolti da ogni accusa. Ma chi e perché avrebbero ordito questa infame macchinazione servendosi di Pisciotta? Il sospetto che si tratti di una macchinazione nasce dalle dichiarazioni rese, nel corso del processo di Viterbo, da un altro componente della banda Giuliano, Antonio Terranova. 
Afferma Terranova: “L’avvocato Crisafulli, (un separatista, n.d.r.) mi disse: «Dobbiamo fare nomi dei mandanti. Pisciotta li conosce, ma tu devi dare pure aiuto perché sei innocente e sei nella stessa barca e ti devi aiutare». E facciamo i nominativi: «Ditemi chi sono e facciamoli». E mi fanno i nomi, che sono: Alliata, Mattarella e Scelba e non mi ricordo se c’era qualche altro… e allora l’avvocato Crisafulli mi dice così: «guarda, tu non sei uno stupido, Alliata e Mattarella devono essere presi di fronte e uno di striscio…». 
Mentì Pisciotta o Terranova? Il deputato comunista Giuseppe Montalbano fece intendere ai Commissari dell’Antimafia di credere a Pisciotta. Perché? “Pisciotta manifestò al procuratore Scaglione l’intenzione di chiarire bene come sono andati i fatti di Portella della Ginestra e di fornire prove più concrete delle responsabilità dei mandanti”.
Le parole di Montalbano, uno dei leaders più influenti della sinistra, in quegli anni, furono “ascoltate”, ma provenivano dal Pci, il partito nemico della DC, ed erano, inoltre, pur sempre una testimonianza indiretta, un’opinione e nulla di più.
I deputati, i ministri e i dirigenti di partito accusati da Pisciotta furono scagionati da ogni accusa. Resta, tuttavia, il mistero della morte di Pisciotta. Se aveva raccontato la verità, che bisogno c’era di farlo tacere per sempre dopo l’incontro in carcere con il sostituto procuratore Pietro Scaglione?
Si possono formulare due ipotesi: Pisciotta si apprestava a raccontare dell’altro, fatti che non avrebbero potuto essere confutati, oppure aveva intenzione di fare i nomi, stavolta, di coloro che gli avevano suggerito la macchinazione, cioè i veri mandanti dell’eccidio di Portella della Ginestra.
Non è semplice venir fuori dall’enigma. Il mistero era il segno dei tempi che cambiavano: l’Italia cominciava a diventare il luogo del Grande Intrigo, una Casablanca senza confini, che si affacciava pericolosamente sull’altra parte del mondo, l’Europa rossa dell’Urss e i suoi satelliti.
L’ambasciatore dei “mandanti”, e cioè l’onorevole Cusumano Geloso secondo Pisciotta, venne trovato in una pozza di sangue sul pavimento della propria abitazione. Secondo il medico legale la morte sarebbe stata causata da emofilia… Però, Cusumano aveva appena 33 anni. All’epoca si parlò di omicidio.
Così come di omicidio si parlò a proposito della morte di Ciro Verdiani, l’ispettore generale di Pubblica Sicurezza. Morirono entrambi nel 1953. E Verdiani si sarebbe incontrato più volte con Salvatore Giuliano, senza poterlo arrestare. Secondo il medico legale, Verdiani se ne andò a causa di un collasso cardiocircolatorio.
Pisciotta avvelenato, Cusumano colpito da emofilia, Verdiani ucciso da collasso cardiocircolatorio. La provvidenza aiutò i mandanti? Il fatto è che la banda Giuliano non era un’accozzaglia di delinquenti che razziava provviste e denari, questo è chiaro. Se ne servirono.
In un’audizione della Commissione antimafia, o nel corso di una deposizione al processo di Viterbo, Frank Mannino, caposquadra della banda Giuliano, fece uno strano racconto.
Tornato a casa dopo la guerra, nel ’45 Mannino aveva ripreso il suo mestiere di lattoniere. Fu avvicinato da Filippo Ferrara, ex-sottotenente della Marina, che gli chiese di eseguire “un lavoro, ma negli orari in cui vi era poca gente”.
“Di che lavoro si tratta?” domandò Mannino. Ferrara allora mostrò un foglio di carta. C’era raffigurata “l’Italia, la Sicilia, un soldato sullo Stretto e un soldato da una parte… Dall’altra parte era raffigurata l’America. Tu dovresti intagliare la latta e ricavare sei esemplari da questa stampa”, spiegò Ferrara.
Appena realizzato il primo esemplare, Mannino lo mostrò a Ferrara e questi gli riferì lo scopo di quel lavoro. “Ho aderito al separatismo”, disse. La Sicilia, secondo lui, avrebbe avuto migliore futuro separandosi dal resto del Paese.
Ferrara fece anche i nomi di coloro che erano diventati separatisti. “Abbiamo intenzione, disse, di fare della Sicilia il 49° Stato americano… Così la facciamo fiorire”.
“Verso la fine dell’anno, racconta Mannino, ci fu una riunione sopra il cimitero di Montelepre. Salvatore Giuliano si presentò per la prima volta con il grado di colonnello dell’esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia, l’Evis. Giuliano indicò il luogo in cui avremmo trovato le armi… Si partì alla volta di Bellolampo, dove assaltammo la caserma dei carabinieri… Si arresero… Presi allora pennello, colori e le stampe di latta e imbrattai mura, strada, tutto quello che mi capitava”.
Il racconto di Mannino offre un movente alle morti inspiegabili di Pisciotta, Verdiani, Cusumano? E le bugie di Pisciotta e Terranova?
Giuliano era il braccio armato della strategia della tensione: la mafia era diventata Stato nel dopoguerra. L’aiuto offerto agli alleati nello sbarco in Sicilia, l’aveva in qualche modo legittimata, magari senza che ci fosse un progetto studiato a tavolino. Il lavoro sporco non avrebbe potuto farlo in prima persona, così la mafia lo commissionò a Giuliano che aveva bisogno di una identità virtuosa, di una bandiera, di un futuro e si sentiva a capo di una Sicilia americana.
Restava da capire la confessione di Pisciotta; anzi, che fine avesse fatto quella sua dettagliata ricostruzione degli eventi, densa di nomi. Se uno come Pisciotta avesse parlato oggi, avrebbe mandato in galera tutt’Italia.
Durante il periodo bellico e nell’immediato dopoguerra gli americani non ostacolarono le mire indipendentistiche, che trovavano mafia e la vecchia classe egemone siciliana schierate insieme, poi però il loro atteggiamento mutò radicalmente. Ma la situazione internazionale – con il mondo spaccato in due per gli accordi di Jalta, e il pericolo comunista – fece sì che gli USA in realtà mantenessero, seppure sottobanco, le antiche intese. L’appoggio al separatismo non serviva più; esso avrebbe compromesso il rapporto d’alleanza con il governo italiano, ma la presenza del braccio armato della mafia nella frontiera mediterranea dell’Occidente, sopravvisse e si sviluppò – inevitabilmente – con reciproca soddisfazione.
La posizione geografica della Sicilia e la solida struttura di Cosa nostra dirottarono nell’Isola i grandi traffici illegali organizzati Oltreoceano. La diga anticomunista li metteva al riparo da ogni pericolo. Il lavoro sporco veniva espletato dalla mafia, che decimava i capipopolo rossi e soprattutto creava le condizioni politico-sociali perché in ogni momento fosse giustificato un intervento golpista, in grado di impedire a un governo imbelle – finito in mano ai nemici rossi – di distruggere il Paese, minacciato da stragi, bande criminali, rivolte contadine.
Fino alla fine del comunismo – nel 1991 – la strategia occidentale rimase inalterata nella sostanza: i modi mutavano a seconda delle caratteristiche degli uomini, ma il presidio siciliano anticomunista fu mantenuto, perché fosse pronto ad intervenire ogniqualvolta si determinavano le condizioni che lo richiedevano.
Le grandi potenze si fronteggiano lungo una frontiera invisibile: in campo occidentale la democrazia impone dei costi: il forte partito filosovietico va combattuto con tutti i mezzi.
Una mafia ideologicamente golpista non è mai esistita: ma una mafia funzionale ai disegni delle strategie internazionali dell’Occidente ha fatto la storia del Paese, a cominciare da Portella della Ginestra. .
Tutto si lega insieme, offrendo lo scenario possibile: la verità possibile e la verità processuale però restano appese allo stesso filo ma non convergono.
Occorre collegare gli eventi. Per esempio scompare John Gotti dalla scena americana, e Totò Riina da Cosa nostra siciliana. Queste convergenze vanno esaminate con cura. C’è un filo costante che lega la Sicilia all’America. E’ un che Leonardo Messina riveli un disegno golpista della mafia. La diga anticomunista, il trattato di Maastricht. Queste sono le punte estreme. Ma dentro ci sono i tentativi di colpo di Stato, ogni volta che il Paese si allontana dall’Occidente o può rappresentare un pericolo. I contadini nel dopoguerra, il centrosinistra, i comunisti al governo. Ma sono le guerre di mafia a provocare i morti, non i golpe, finti, abbizzati, preparati e poi dismessi.
I messaggi politici non interessano soverchio la mafia. Basta seguire la parabola dei capimafia. Come Michele Navarra nel dopoguerra: monarchico, separatista, infine democristiano.
Va ricordato un episodio del 1943: il controspionaggio americano scelse Vincent Scamparino e Max Corvo per addestrare ad Algeri agenti da infiltrare in Sicilia: i requisiti di reclutamento non erano l’antifascismo, ma la sicilianità, o l’appartenenza a cosche mafiose o gruppi economici importanti. Mentre Galvano Lanza e Vito Guarrasi partecipavano alle trattative per l’armistizio, don Calogero Vizzini di Villalba svolgeva a livello tattico attività di preparazione dello sbarco degli alleati in Sicilia. Sono presenti ad Algeri Galvano Lanza di Trabia e Vito Guarrasi: “oscuro ufficiale di complemento del servizio automobilistico” .
“Mentre Insalaco rivestiva ancora la carica di Sindaco”, si legge nella requisitoria di Alberto Di Pisa contro Vito Ciancimino, “l’avvocato Guarrasi in una memoria fatta pervenire allo stesso Insalaco sosteneva la legittimità, nel rinnovo dei grandi appalti di Palermo, della trattativa privata; il che avrebbe implicitamente favorito l’impresa Lesca, dei Cassina. Indagini giudiziarie poi dimostreranno che i Cassina erano vicini a Ciancimino e all’onorevole Salvo Lima”.
E’ straordinario che episodi così lontani e così misteriosi abbiano come protagonista la stessa persona, Vito Guarrasi. Joseph Macaluso, italoamericano, e John Mc Caffery, preannunciano l’entrata in scena di Michele Sindona nelle vicende italiane. Joseph Macaluso avrebbe accompagnato Sindona in Sicilia nel 1979, quando il banchiere siciliano incontrava mafiosi e massoni con l’intenzione di preparare un colpo di Stato (almeno, così fece credere). Mac Caffery, il responsabile della centrale di spionaggio inglese a Berna nel ’43, sarebbe stato travolto dal crack delle banche sindoniane negli USA. Già all’inizio degli anni quaranta, si creano le grandi intese fra alta finanza, servizi americani e inglesi, banche svizzere e mafia.
Personaggi come Sindona, Joseph Macaluso, Mc Caffery scrivevano le regole del grande business contemporaneo, del mondo illegale sotterraneo che continuava a combattere contro l’Est comunista e ne traeva benefici, attraverso i traffici illegali della droga e delle armi.
La mafia si sarebbe assunto il ruolo di sentinella del nuovo assetto, ed in cambio avrebbe preteso la non ingerenza nei suoi affari?
Come provarlo? Michele Sindona. Era lui il filo conduttore, l’uomo chiave del nuovo contesto. Pisciotta e Sindona sono stati uccisi con una tazzina di caffè avvelenato. Sapevano troppo entrambi e volevano parlare.
La storia si accorcia d’improvviso. Il crimine lascia tutte le volte una impronta riconoscibile, è come se avesse bisogno di segnalare la sua presenza. Per trarne giovamento. Perché chi ha da capire, capisca. Quale altra ragione, altrimenti?
Gli stessi personaggi, le stesse situazioni, i metodi. Il potere non è mai mutato dal dopoguerra agli anni Ottanta. Gli uomini, quelli sì; ma il rinnovamento è avvenuto all’interno del contesto immutabile, secondo le regole, gli equilibri politici, economici, finanziari.
Leonardo Messina, nel dicembre del ’92, racconta alla Commissione antimafia che ad uccidere il bandito Giuliano è stato Luciano Liggio. “Lo ha regalato allo Stato”, per rispettare la volontà del capo dei capi, Calogero Vizzini (“Serviamoci dei banditi tanto poi ci penso io a disfarmene”). “C’è stato un compromesso tra un’ala dello Stato e Cosa Nostra”, spiega Messina. “Ora ci sarà un nuovo compromesso con chi rappresenta il nuovo Stato”.
Un elemento resta inalterato: il ruolo e le trame dello Stato nella gestione del bandito nella sua uccisione. Il 24 ottobre ’44, i servizi statunitensi riferiscono ciò che si prepara in Sicilia: “Eliminare dal mondo politico italiano tutti i filocomunisti, finanziare squadre di killer…”
Un’ipotesi plausibile? Scomparso il pericolo dell’Est, i compiti nuovi dell’avamposto siciliano in Europa, mutano. Come? L’obiettivo più importante è saldare fra loro i gruppi che si stavano impadronendo del mercato ex comunista – il mercato legale e quello illegale (ma i confini fra l’uno e l’altro sono davvero labili) – e mettere in ginocchio l’Europa nata a Maastricht. Un pericolo per la finanza che s’affaccia sul Pacifico e sull’Atlantico.


Salvatore Parlagreco (SiciliaInformazioni - 2014)