Per me è molto noioso dovermi occupare ancora di Renzi ma chi
esercita la professione di giornalista ha l'obbligo di capire e raccontare quel
che fanno i protagonisti delle vicende politiche. Renzi è tra questi e se c'è
un uomo politico che desidera comparire ogni giorno sui media d'ogni colore,
questo è lui e non certo Romano
Prodi da lui accusato di commettere abitualmente questo peccato. Nel merito
Renzi attribuisce a Prodi una posizione che giudica totalmente sbagliata a
proposito della guerra in Siria. Il tema è tra i principali e più drammatici di
questo agitato periodo: guerre tribali, delitti orribili del Califfato, stragi
effettuate da Assad e prima di lui da suo padre, incertezze dell'America e
dell'Europa, spregiudicatezza estrema della Russia di Putin e dell'Iran e un
intrico in tutto il Medio Oriente, descritto da Bernardo Valli ieri su questo
giornale.
Sul tema Siria, nell'intervista
rilasciata al nostro Claudio Tito, Renzi ha detto: "Dubito delle ricette
scodellate in modo semplicistico: non sarà semplicemente aiutando Assad che
debelleremo l'Is. Occorre un progetto pluriennale, una coalizione che non si
limiti ad annunciare qualche raid aereo". Le ricette semplicistiche
sarebbero quelle di Prodi, ma le sue, di Renzi, quali sarebbero? Non esclude
affatto l'intervento delle truppe di Assad, ammette che i raid aerei non
basteranno a debellare l'Is e auspica una coalizione delle grandi potenze. Un
progetto pluriennale. Ma nel frattempo che cosa si fa?
Prodi a sua volta ha detto che
"quella in Siria è un fatto determinante e il suo andamento dipende
soprattutto dal rapporto tra Usa e Russia. Ma nessuna delle due potenze invierà
truppe sul terreno. Aerei sì, truppe no. Quindi il malandato esercito di Assad
va rafforzato perché quelle soltanto sono le truppe disponibili sul terreno.
Putin appoggia Assad, Obama no, ma dovrà rassegnarsi perché con i soli
bombardamenti aerei l'Is non sarà battuto" . Dunque, su questo problema
Renzi e Prodi dicono cose molto analoghe. La sola differenza è che Renzi
auspica una coalizione internazionale che di fatto già esiste, sia pure con
tutte le contraddizioni che caratterizzano la storia dell'intero Medio Oriente.
La differenza è che Prodi è soltanto un osservatore informato di prima mano,
Renzi dovrebbe essere un attore ma non lo è perché su questo terreno il premier
italiano non viene consultato né dall'America né dalla Russia né dall'Europa. A
lui piacerebbe e anche a noi, ma le cose stanno esattamente così.
Il tema che desidero trattare oggi è
quello dei rapporti tra la politica e l'informazione. La questione tra Renzi e
Prodi ne è stata una necessaria premessa, ma il tema è molto più complesso e
non si pone soltanto nel nostro paese ma dovunque. La politica cerca il
consenso, l'informazione racconta i modi con i quali il consenso è ricercato e
molte altre cose che con la politica hanno poco o nulla a che fare. Ma c'è di
più: per ottenere il consenso la politica cerca di conquistare l'informazione e
cioè i giornalisti e i loro editori. L'informazione a sua volta ambisce di
influenzare la politica indicandole interessi da tutelare e valori ai quali
ispirarsi. Entrambe si sentono depositarie di interessi generali dietro i quali
tuttavia si celano spesso interessi particolari dei singoli politici e dei singoli
addetti all'informazione.
Aggiungo un altro aspetto tutt'altro
che secondario del problema che stiamo esaminando: spesso, in Italia soprattutto,
gli editori proprietari di giornali e televisioni ricavano i loro profitti da
altre attività economiche prevalenti rispetto a quelle dell'editoria. Il
cosiddetto editore puro è una figura prevalente nei paesi occidentali, ma
piuttosto rara in Italia, non oggi ma da sempre. Questa situazione caratterizza
il rapporto tra politica e informazione, aggravandolo ancora di più se la
politica possiede direttamente strumenti informativi di massa.
Per esser chiari ricorderò quanto
accadde durante i vent'anni di regime fascista. Il "Popolo d'Italia"
fondato da Mussolini, fin dai tempi dell'intervento nella guerra del 1915, era
un giornale di partito; ma quando il Duce conquistò il governo instaurò il
regime le sue mire furono d'impadronirsi dei grandi giornali d'opinione e della
radio. Fondò l'Eiar, servizio pubblico monopolista, e affidò i grandi giornali
a gruppi economici e famiglie che barattarono quel beneficio con una completa
subordinazione politica al regime. Alla "Stampa" di Torino fu
estromesso Frassati al quale subentrò la famiglia Agnelli; al "Corriere
della Sera" fu estromesso Albertini e prese il suo posto la famiglia
Crespi; al "Messaggero" di Roma la famiglia Perrone, proprietaria
dell'Ansaldo e azionista della "Banca di sconto", si asservì a Mussolini
e così accadde anche al "Mattino" di Napoli, alla "Gazzetta del
Mezzogiorno" di Bari e al "Giornale di Palermo", al "Popolo
di Roma", al "Resto del Carlino" di Bologna, alla
"Nazione" di Firenze. Insomma l'intera stampa italiana, nazionale e
regionale, fu in mano a famiglie succubi del regime e spesso titolari anche di
altre attività economiche più redditizie dei giornali. Quindi editori
"impuri" e politicizzati. Situazioni analoghe si verificarono nella
Germania nazista, nella Spagna franchista, nel Portogallo salazariano. Dove
esiste la dittatura o una democrazia fragile e anomala, il rapporto tra
politica e informazione è assai poco confortante per la libertà.
L'Italia per fortuna non è un regime,
non lo fu ai tempi della Democrazia cristiana né a quelli di Berlusconi e
neppure dopo Berlusconi. Renzi è al potere da appena due anni e non mi pare che
abbia in mente una dittatura. Vuole comandare da solo, questo sì; vuole un
Parlamento "dominato", questo anche, ma non più di tanto. Del resto
siamo anche membri dell'Unione europea, che è ancora una confederazione e
quindi sono gli Stati nazionali a decidere le mosse dell'Unione. Nessuno di
loro ama l'eventuale prospettiva degli Stati Uniti d'Europa. Ma comunque
l'Unione c'è e chi ha la leadership in Italia deve tenerne conto.
Ciò non toglie che Renzi vuole
comandare da solo e non lo nasconde. Non con editti ma con la capacità di farsi
amare. A Roma uno come lui lo chiamano "piacione". È un piacione, è
questo che vuole e ci riesce abbastanza. Quando non ci riesce si arrabbia e
molti, che non lo amano affatto, fanno finta di esserne innamorati; altri che
sono invece incantati dalla sua piacioneria, fanno finta di non esserlo, di
sentirsi neutrali, liberi di decidere pro o contro. Così facendo dicono no nelle
questioni marginali ma lo appoggiano in quelle fondamentali. Insomma c'è grande
confusione in questo paese, col risultato che molti e specialmente i giovani si
allontano dalla politica, sono indifferenti, leggono poco i giornali, guardano
sempre meno la televisione e i "talk show" in particolare, dove il
tema pressoché unico è ormai diventato Renzi magari anche per criticarlo ma
l'argomento che predomina è sempre lui. E la gente - i giovani
soprattutto - cambia canale o spegne e passa a Internet dove la
scelta degli argomenti e degli interlocutori è infinita.
Renzi - l'ho già
detto - non vuole un regime. Vuole piacere. Vuole comandare da
solo. Vuole ridurre il Senato ad un'agenzia territoriale con 74 eletti secondo
le leggi regionali, 21 sindaci di grandi città e 5 nominati dal presidente
della Repubblica. Vuole una Camera di "nominati" che si presentano in
più circoscrizioni contemporaneamente. Vuole insomma che l'Esecutivo sia
nettamente più forte del Legislativo, mentre in una democrazia forte dovrebbe
avvenire il contrario. Vuole il cambiamento ma non dice quale. Vuole la
sinistra purché sia moderna, alla moda di Tony Blair che ereditò e mantenne
viva nella sua essenza la politica della Thatcher, non più di destra ma di
centro.
Questo è Renzi. Quanto
all'informazione, in Italia è ancora libera ma difficilmente riesce a vincere
l'indifferenza, forse perché anche noi stiamo diventando indifferenti e
un'informazione indifferente non esiste più.
Il rischio è di diventare una
democrazia che interessa un 30-40 per cento del paese. Un'ampia maggioranza non
se ne interessa più, vive per proprio conto e bada alla sua situazione
economica. Il resto è chiacchiera, divertimento, tristezza e musica rock. Un
tempo era l'età del jazz. Adesso anche il jazz è andato in soffitta
Eugenio Scalfari (La Repubblica – 4 ottobre2015)
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