Lo spettacolo di Grillo (Grillo versus Grillo) non è comico. Ma non è nemmeno
politico. E’ esistenziale. Dichiarando apertamente il proprio disagio, il
proprio smarrimento, la propria confusione (“Ma io chi sono?”) interpreta il
disagio, lo smarrimento e la confusione che è in molti di noi. La sua è una
‘psicanalisi di gruppo’ senza terapeuta o, per essere più precisi, dove è
proprio il terapeuta quello ad avere più bisogno di aiuto.
Grillo, heideggeriano
probabilmente senza saperlo, pone al centro della sua riflessione la Tecnica.
Ma non solo quella informatica, che ha fatto la fortuna del suo movimento
grazie all’input di Casaleggio, ma la Tecnica in generale, in ogni sua forma,
su cui è documentatissimo e si cogli che a 67 anni suonati (“Un’età spaventosa”
come l’ha definita una volta) ha ancora una curiosità giovanile, onnivora, che
è una dote che uno si porta nel Dna e che, come il coraggio di manzoniana
memoria, se uno non ce l’ha non se la può dare. Grillo è affascinato, quasi
ipnotizzato, dalla Tecnica, dai risultati straordinari che ha conseguito e da
quelli ancor più sbalorditivi che, a breve e medio termine, potrà raggiungere.
Ma nello stesso tempo è anche consapevole che la Tecnica è un’arma a doppio
taglio. Che accanto agli aspetti positivi ce ne sono di negativi. Che anzi –ma
di questo non so quanto Beppe ne sia conscio- positività e negatività della
Tecnica non viaggiano in parallelo ma sono strettamente intrecciate e che sono
proprio i risultati straordinari la causa delle negatività più profonde. Perché
la Tecnica ci separa dagli altri e, alla fine, anche da noi stessi e dalla
nostra interiorità. Grillo, fra altri frizzi e lazzi, fa un esempio, minimale,
che è anche mio. Quello del treno. Una volta, in un tempo non poi tanto
lontano, sul treno si chiacchierava, si ciacolava con gli altri viaggiatori, si
raccontavano anche balle strepitose, soprattutto alle belle ragazze, tanto non
ci si sarebbe visti più. Oggi tutti stanno al computer, al tablet, attaccati al
cellulare, sono connessi col mondo intero tranne che con chi gli sta solo a due
metri più in là. A questo proposito c’è un bel libro di uno psicanalista
junghiano, Luigi Zoja, che si intitola La morte del prossimo. Il ‘prossimo’ è il vicino, colui che io posso toccare. Quando
l’ologramma –che compare, ironicamente, anche nello spettacolo di Grillo, come
suo duplex- corredato di odori, di umori e anche, in un futuro non lontano, di
possibilità di tatto, avrà sostituito in tutto e per tutto, o quasi, l’uomo,
saremo definitivamente soli.
Politicamente Grillo non ha
detto, ne voleva, nulla che già non si sappia. Ha solo accentuato l’incitamento
alla ribellione e, fors’anche, all’insurrezione, comunque a una reazione
collettiva (“Grillo sei tutti noi. Col cazzo! Cominciate anche voi a essere
tutti voi”).
Il comico non esiste più. Perché non fa
ridere. E non c’è figura più patetica, e drammatica, del comico che non fa
ridere. C’è un momento, delicato, dolce e commovente, della pièce in cui Beppe,
abbandonando l’atteggiamento tonitruante, chiede con un sorriso timido alla
platea: “Ma vi faccio divertire ancora?” ricavandone un flebile applauso.
L’uomo, dopo averne spese per anni,
intellettualmente e fisicamente, in dosi industriali, ha ancora energie da
vendere. Non si regge, da soli, senza supporti, quasi tre ore sul palcoscenico
se non si ha una grandissima energia. Ma non sa più dove metterla. Non sa dove
sbattere la testa. Come chiunque fra noi che, a dispetto della tecnologia,
l’abbia conservata.
Massimo Fini (Il FattoQuotidiano, 6 febbraio 2016)
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