Adesso che i finti colpevoli sono stati uccisi dalla polizia egiziana
è venuto il momento di domandare a tutti un po’ di silenzio. Basta per
favore con le richieste di verità sulla morte di Giulio Regeni. Basta con la promesse di indagini approfondite. Basta con le interviste al generale Abdel Fattha Al Sisi pronto a garantire che “farà luce” e “darà giustizia”. Basta con il premier Matteo Renzi
fermo nell’assicurare che non accetterà “una verità di comodo,
artificiale e raccogliticcia”. Basta con l’interessamento inutile del
presidente Mattarella. E basta pure con le proteste delle opposizioni che chiedono l’interruzione delle relazioni diplomatiche con il Cairo. Intanto la verità su Regeni questa Italia non se la può permettere. E dopo due mesi di bugie è più corretto e meno ipocrita prenderne atto.
Con l’Europa atterrita dagli attentati dell’Isis,
con Roma sempre più preoccupata per l’avanzata dello Stato Islamico
nella vicinissima Libia, il governo Renzi si comporta con l’alleato
egiziano nello stesso modo in cui si sono sempre comportati gli
esecutivi italiani con chi è più forte o è particolarmente utile: fa ammuina. Dice che “la verità per Giulio non è un optional”, assicura che non “c’è business o realpolitik che tenga”, ma poi piega la testa. Come, con tutta probabilità, piegherebbe la testa qualsiasi altro esecutivo fosse oggi al potere. Abbiamo troppa paura del terrorismo
e troppi affari in corso con l’Egitto perché le nostre classi dirigenti
trovino il coraggio di prendere una strada diversa. Perché, secondo il
nostro establishment, per il generale Al Sisi valgono le parole che il
presidente americano Franklin Delano Roosevelt usò per descrivere il dittatore nicaraguense Somoza: “È un figlio di puttana, ma è il nostro figlio di puttana”.
Non per niente l’Italia è stato il primo paese a riceverlo nel luglio 2013 subito dopo la sua presa del potere. E Renzi è stato il primo leader europeo a rendergli visita.
Tutti, o quasi, hanno fin qui sempre ossequiato il generale lodando il
suo contributo “alla stabilizzazione del Cairo” e hanno fatto finta di
non sapere che i diritti umani in Egitto vengono regolarmente violati.
Delle “violenze sessuali” utilizzate quasi sistematicamente durante gli
arresti e le detenzioni nessuno, fino alla morte di Regeni, ha mai
parlato. Così come sono sempre state ignorate le inchieste da cui
risulta che il caso dell’assassinio del giovane ricercatore italiano ha
centinaia di precedenti.
Ma si sa come vanno queste cose. L’Eni ha impianti nel delta del Nilo, estrae petrolio nel deserto, ha appena scoperto un enorme giacimento offshore con riserve di gas per 850 miliardi metri cubi. Altre 130 aziende italiane fanno affari al Cairo. C’è il turismo, c’è Intesa San Paolo, c’è Edison e ci sono tutti i grandi costruttori: Caltagirone, Techint, Italcementi. Del mercato egiziano dicono che non possiamo fare a meno. Anche perché Al Sisi ha promesso che nei prossimi anni investirà 100 miliardi nell’edilizia.
E allora perché non smettere di dire e dirci bugie? Il dittatore non
ci spiegherà mai come sono andate le cose. I nomi dei veri colpevoli non
ce li fornirà nessuno. Quello che però abbiamo in mano basta già per
capire. Le autopsie ci raccontano che Giulio Regeni è stato torturato da dei professionisti
per giorni. La cronaca ci ricorda che sulla sua morte le autorità hanno
fornito una dopo l’altra versioni false e diverse tra loro: l’incidente
stradale, i Fratelli Musulmani, la criminalità comune. Giulio, il
figlio di questa piccola e impaurita Italia, è stato ucciso dal regime.
Lo dicono i fatti e le facce. Ammetterlo e chiedere scusa è l’unica cosa che oggi chi sta a Roma può e deve fare.
Peter Gomez (Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2016)
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