lunedì 25 aprile 2016

Se Davigo svela che il re (della corruzione) è nudo

Si possono comprendere i toni striduli della polemica politico-istituzionale che ha fatto seguito alle dichiarazioni del consigliere di Cassazione e neo-presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo, ma forse le ragioni di tanta acrimonia non sono quelle addotte ufficialmente. Davigo ha già presentato e discusso innumerevoli volte in sedi pubbliche le tesi dell’intervista senza suscitare particolare sorpresa né scandalo. Evidentemente molti si attendevano, ovvero auspicavano, che assunto il ruolo di vertice dell’Anm il magistrato optasse per la facile strategia della collusione di ceto e si convertisse a più miti consigli, magari ottenendo in cambio il controllo o la promessa di qualche strapuntino di potere. Aspettative che la coerenza e il rigore dimostrate in tutta la sua carriera da Davigo, qualità piuttosto rare tra chi abbia conosciuto equivalenti livelli di popolarità, avrebbero dovuto dissuadere dal coltivare.
Tanto la classe politica – con l’eccezione del M5S e di Sel – che segmenti di vertice della stessa magistratura adesso levano alte le loro voci nell’accusare il magistrato di provocare con le sue denunce di una perdurante corruzione “senza più vergogna” inutili, o peggio ancora pericolose lacerazioni tra i poteri dello Stato. Proviamo però a chiederci: pericolose per chi? Per i cittadini, o per chi nella classe dirigente è riuscito negli ultimi decenni a disinnescare con intese opache, accordi sottobanco, scambi di favori, o magari con leggi ad personam e provvedimenti ad hoc i meccanismi di bilanciamento e di controllo istituzionale formalmente assicurati dallo Stato di diritto? Quegli stessi meccanismi che attribuiscono a una magistratura formalmente indipendente la funzione di rilevare e perseguire la violazione delle leggi, prassi corrente in una quota non irrilevante di quelli che occupano ruoli di vertice, e che dunque pone “fisiologicamente” i giudici benintenzionati in rotta di collisione col potere pubblico corrotto.
Caposaldo dello Stato di diritto è il principio che tutti i cittadini devono essere trattati in modo uguale davanti alla legge, inclusi gli stessi governanti. Ebbene, in Italia tutte le fonti di conoscenza a nostra disposizione – sondaggi, percezioni, inchieste giudiziarie, analisi scientifiche – convergono nel dimostrare che i “colletti bianchi”, inclusa la stessa classe politica, sono coinvolti con frequenza e intensità abnormi rispetto agli altri paesi liberaldemocratici in pratiche illecite, talora apertamente criminali. Nel peggiore dei casi la classe dirigente criminale si fa criminogena, di norma mira comunque alla protezione e all’autoassoluzione, tende ad includere altri attori sociali e istituzionali in reticoli opachi di connivenza e reciprocità, alla separazione preferisce la collusione tra i poteri. Non sorprende che la travolgente ascesa di Davigo nell’associazione di rappresentanza dei magistrati si sia realizzata sparigliando col sostegno della base i giochi delle vecchie correnti, con una sfida aperta al collateralismo politico strisciante dei precedenti vertici associativi.
L’illecito come modello “tollerabile” di condotta per le classi dirigenti – già teorizzato per i partiti da Craxi in un discorso alla Camera il 3 luglio 1992 – produce però costi economici, sociali e persino ambientali insostenibili nel lungo periodo, assai più gravi di quelli della micro-criminalità comune che tanto allarme suscita, restando però sottotraccia. I sintomi dell’anomalia denunciata da Davigo sono molti e concordanti, talora drammatici. Dai prezzi fuori mercato di appalti per lavori, forniture o servizi pubblici spesso di dubbia qualità e discutibile utilità, alle voragini scavate tanto nei bilanci pubblici che nelle casse di aziende e banche, spolpate fino ad azzerare i risparmi di azionisti e obbligazionisti, alla permeabilità alla penetrazione mafiosa di aree del centro-nord (persino nella “civica” Emilia), fino agli sversamenti di liquami tossici e ai disastri ambientali, con le loro ricadute in termini di diffusione di neoplasie e malformazioni infantili. Una zavorra insostenibile, certificata dalle posizioni di coda dell’Italia in tutte le classifiche sulla competitività delle imprese, la crescita economica, la corruzione, l’attrattività per gli investimenti esteri, l’economia sommersa, l’evasione fiscale. Del resto, l’alto status socio-economico può rendere di per sé razionale la scelta di delinquere, visto che la percentuale di “colletti bianchi” in carcere è in Italia un decimo appena della media europea, 0,6 contro il 5,9 per cento. E all’aspettativa d’impunità si accompagnano spesso la generosa tolleranza, quando non la solidarietà omertosa dei pari, che permette a politici, imprenditori, professionisti, funzionari macchiatisi di gravi condotte – non necessariamente reati – di proseguire imperturbabili la proprie carriere, talvolta beneficiando proprio dei propri precedenti penali come “certificazione” di affidabilità nei maneggi illeciti.
Le parole del consigliere Davigo sull’allarmante propensione all’illecito della classe politica e dirigente italiana somigliano allora a quelle del bambino della nota favola di Andersen, che urlando “il re è nudo” osserva una verità sotto gli occhi di tutti, ma che il re (della corruzione) e i suoi molti cortigiani non possono che continuare a negare, nascondendosi sotto il manto invisibile della loro ipocrisia.



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