Si possono comprendere i toni striduli della polemica politico-istituzionale che ha
fatto seguito alle dichiarazioni del consigliere di Cassazione e neo-presidente
dell’Associazione Nazionale Magistrati
Piercamillo Davigo, ma forse le ragioni di tanta acrimonia
non sono quelle addotte
ufficialmente. Davigo ha già presentato e discusso innumerevoli volte in sedi
pubbliche le tesi dell’intervista senza
suscitare particolare sorpresa né scandalo. Evidentemente molti si
attendevano, ovvero auspicavano, che assunto il ruolo di vertice dell’Anm il
magistrato optasse per la facile
strategia della collusione di ceto e si convertisse a più miti consigli,
magari ottenendo in cambio il controllo o la promessa di qualche strapuntino di
potere. Aspettative che la coerenza e il rigore dimostrate in tutta la sua
carriera da Davigo, qualità piuttosto rare tra chi abbia conosciuto equivalenti
livelli di popolarità, avrebbero dovuto dissuadere dal coltivare.
Tanto la classe politica – con l’eccezione del M5S e di Sel – che segmenti di vertice della stessa magistratura adesso levano alte le loro voci nell’accusare
il magistrato di provocare con le sue denunce di una perdurante corruzione “senza più vergogna” inutili, o peggio
ancora pericolose lacerazioni tra i poteri dello Stato. Proviamo però a
chiederci: pericolose per chi?
Per i cittadini, o per chi nella classe dirigente è riuscito negli ultimi
decenni a disinnescare con intese
opache, accordi sottobanco, scambi di favori, o magari con leggi ad
personam e provvedimenti ad hoc i meccanismi di bilanciamento e di
controllo istituzionale formalmente assicurati dallo Stato di diritto? Quegli
stessi meccanismi che attribuiscono a una magistratura formalmente indipendente la funzione di rilevare e
perseguire la violazione delle leggi, prassi corrente in una quota non
irrilevante di quelli che occupano ruoli di vertice, e che dunque pone
“fisiologicamente” i giudici benintenzionati in rotta di collisione col potere
pubblico corrotto.
Caposaldo dello Stato di diritto è il principio che tutti i cittadini devono essere trattati in
modo uguale davanti alla legge, inclusi gli stessi governanti. Ebbene,
in Italia tutte le fonti di conoscenza a nostra disposizione – sondaggi,
percezioni, inchieste giudiziarie, analisi scientifiche – convergono nel
dimostrare che i “colletti bianchi”, inclusa la stessa classe politica, sono
coinvolti con frequenza e intensità abnormi rispetto agli altri paesi
liberaldemocratici in pratiche illecite, talora apertamente criminali. Nel peggiore dei casi la classe dirigente
criminale si fa criminogena, di
norma mira comunque alla protezione e all’autoassoluzione, tende ad includere
altri attori sociali e istituzionali in reticoli opachi di connivenza e
reciprocità, alla separazione preferisce
la collusione tra i poteri. Non sorprende che la travolgente ascesa di
Davigo nell’associazione di rappresentanza dei magistrati si sia realizzata
sparigliando col sostegno della base i giochi delle vecchie correnti, con una
sfida aperta al collateralismo politico strisciante dei precedenti vertici
associativi.
L’illecito
come modello “tollerabile” di condotta per le classi dirigenti – già
teorizzato per i partiti da Craxi in un discorso alla Camera il 3 luglio 1992 –
produce però costi economici, sociali e persino ambientali insostenibili nel
lungo periodo, assai più gravi di quelli della micro-criminalità comune che
tanto allarme suscita, restando però sottotraccia. I sintomi dell’anomalia denunciata da Davigo sono
molti e concordanti, talora drammatici. Dai prezzi fuori mercato di appalti per
lavori, forniture o servizi pubblici spesso di dubbia qualità e discutibile utilità, alle voragini scavate
tanto nei bilanci pubblici che nelle casse di aziende e banche, spolpate fino
ad azzerare i risparmi di azionisti e obbligazionisti, alla permeabilità alla penetrazione
mafiosa di aree del centro-nord (persino nella “civica” Emilia), fino agli sversamenti di liquami
tossici e ai disastri ambientali, con le loro ricadute in termini di
diffusione di neoplasie e malformazioni infantili. Una zavorra insostenibile,
certificata dalle posizioni di coda dell’Italia in tutte le classifiche sulla
competitività delle imprese, la crescita economica, la corruzione,
l’attrattività per gli investimenti esteri, l’economia sommersa, l’evasione
fiscale. Del resto, l’alto status socio-economico può rendere di per sé
razionale la scelta di delinquere, visto che la percentuale di “colletti
bianchi” in carcere è in Italia un decimo appena della media europea,
0,6 contro il 5,9 per cento. E all’aspettativa d’impunità si
accompagnano spesso la generosa tolleranza, quando non la solidarietà omertosa dei
pari, che permette a politici, imprenditori, professionisti, funzionari
macchiatisi di gravi condotte – non necessariamente reati – di proseguire
imperturbabili la proprie carriere, talvolta beneficiando proprio dei
propri precedenti penali come “certificazione” di affidabilità nei maneggi
illeciti.
Le parole del consigliere Davigo sull’allarmante
propensione all’illecito della classe politica e dirigente italiana somigliano
allora a quelle del bambino della nota favola di Andersen, che urlando “il re è
nudo” osserva una verità sotto gli
occhi di tutti, ma che il re (della corruzione) e i suoi molti
cortigiani non possono che continuare a negare, nascondendosi sotto il manto
invisibile della loro ipocrisia.
Alberto Vannucci (Il Fatto Quotidiano - 24 aprile 2016)
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