mercoledì 31 agosto 2016

Ai bei tempi la Tv pubblica faceva cultura con i migliori


Mi sembra che la morte di Ettore Bernabei, Direttore Generale della Tv dal 1961 al 1974, sia passata tra una certa indifferenza. Le Tv e quelli che Travaglio chiama ‘i giornaloni’ gli hanno dedicato il minimo indispensabile, diciamo “una modica quantità”. Un esempio è il Corriere della Sera che si è limitato a fornirci a pagina 11 un articolo, sia pur pregevole, di Paolo Conti seguito il giorno dopo a pagina 35 da una modesta intervista a Pippo Baudo (mentre alla morte di squinzie e di squinzi qualsiasi siamo alluvionati). Forse ha pesato il fatto di dover ammettere che Bernabei era un grande intellettuale, ma democristiano senza se e senza ma e, horribile dictu un vero cattolico, in un’epoca come la nostra dove i democristiani esistono ancora, come mentalità ma nascosti nelle pieghe di tutti i partiti e i cattolici sono ridotti, con buona pace di Papa Francesco, a quattro strapenate vecchiette che vanno in chiesa per paura della morte.


Fa eccezione il Fatto (ogni tanto val la pena autoelogiarsi) con un articolo di Furio Colombo che con Eco, Soldati, Levi, Vattimo e tanti altri fu fra i protagonisti di quella stagione. Colombo parla della sua esperienza personale. Io di quella di uno spettatore.


Negli anni sessanta, a differenza di oggi, non era possibile vedere le Tv di altri paesi. Ma io viaggiavo (era l’epoca hippie e di Sulla strada di Kerouac) quelle Tv le vedevo e mi sento di poter dire che nel campo culturale e dell’intrattenimento la Tv di Bernabei era allora la migliore del mondo perché univa la fantasia italiana al pugno fermo dei dirigenti che avevano cura di evitare le sguaiataggini, anche se con qualche comica pruderie (per esempio era proibita la parola ‘uccello’). Altre Televisioni, come la mitica BBC, c’erano certamente superiori nell’informazione. Ma anche qui bisogna stare attenti. La Tv di Bernabei dava notizie stringate ma vere, non c’erano le bufale (un po’ come, ancora oggi, l’Ansa) tant’è che si diceva “l’ha detto la Tv” e quello che diceva la Tv era legge.


Bernabei partiva con due vantaggi. 1) Era costretto a attingere ai protagonisti delle arti e dei mestieri, cinema, teatro, balletto e persino il circo, mentre in seguito i personaggi si sarebbero creati per partenogenesi televisiva. Cioè uno è noto perché è apparso in Tv, ma non è affatto detto che sappia far qualcosa. È il nulla del cosiddetto ‘contenitore’. 2) Bernabei agiva in regime di monopolio il che gli dava due subvantaggi, poteva programmare senza preoccuparsi dell’audience e, poiché la Dc era dominante, poteva permettersi di assumere anche persone di tutt’altro orientamento politico, purché brave. Tutti coloro che sono usciti dalle selezioni bernabeiane sono professionisti di prim’ordine. Perfino dell’orrido Vespa si può dire tutto il male che si vuole (e io l’ho scritto ad abundantiam) ma non che non sappia fare il suo mestiere.


Tuttavia l’importanza di Bernabei è un’altra. Quella di aver cercato, riuscendovi, di elevare la cultura italiana oltre che di unificare linguisticamente l’Italia dei dialetti. C’erano addirittura delle venature puriste in quella Tv, niente a che vedere col romanesco-simil english di oggi. Era insomma una Tv educativa e, in quanto tale dirigista. Non sono così ingenuo da non conoscere i rischi di totalitarismo che ci sono in ogni dirigismo, ma perlomeno quello di Bernabei era un dirigismo di alto livello che, contrariamente a tutto ciò che si è detto, non aveva affatto l’intenzione di fare dell’Italia una succursale del Papato (mi sembra che questo soccombismo al Pontefice sia molto più presente oggi).


Prendiamo, per esempio, lo spettacolo di intrattenimento ‘popolare’ per definizione: il varietà del sabato sera. Sotto la gestione di Bernabei il varietà si chiamava Un, due, tre di Tognazzi e Vianello; Alta fedeltà (testi di Chiosso e Zucconi); Studio uno di Walter Chiari (1963), Lelio Luttazzi (1964), Ornella Vanoni (1966); Il signore di mezza età a cura di Camilla Cederna, Marcello Marchesi, Gianfranco Bettetini, presentato dallo stesso Marchesi con Lina Volonghi e Sandra Mondaini; L’amico del giaguaro con Bramieri, la Del Frate e Raffaele Pisu; Scarpette rosa con Carla Fracci, Walter Chiari, Mina; Quelli della domenica con Paolo Villaggio (testi di Marchesi e Costanzo). Erano tutti spettacoli che si sostenevano, oltre che su protagonisti d’ottimo livello, su un’idea e la sviluppavano. Adesso, al loro posto, cosa c’è? C’è una tecnica di altissima qualità (ma questo non è merito di nessuno perché la tecnologia va avanti per conto suo) applicata, con qualche rara eccezione, al vuoto, al nulla. Emblematico è il Fantastico di Celentano, sia pur di qualche anno fa. Si trovano sempre critici volenterosi disposti a trasformare le pause penose in silenzi dal profondo significato, l’incapacità a mettere insieme dieci parole con un nesso logico in una forma di profetismo. Oggi ‘popolare’ è diventato sinonimo di banale, di basso livello, di volgare.


Ma il varietà era solo una parte, la parte appunto ‘popolare’ della televisione di Bernabei. Si inventò lo sceneggiato all’italiana: Il mulino del Po di Bacchelli, I Demoni di Dostoevskij con la straordinaria interpretazione di Luigi Vannucchi nella parte del principe Stavroghin, I fratelli Karamazov, Delitto e castigo, i grandi russi insomma, La fiera delle vanità di Thackeray, insomma i classici inglesi. Bernabei si permise anche il lusso di dare alle 20 e 30 Il settimo sigillo di Bergman (che ognuno interpretò secondo il proprio livello culturale). Dal 1968 al 1972 furono trasmessi, spesso in prima serata, 400 concerti di musica classica, sinfonica, operistica.


Anche personaggi apparentemente insignificanti non erano tali. I più anziani ricorderanno forse le ‘tribune politiche’ moderate, con grande equilibrio (niente a che vedere col canaio dei talk di oggi dove il conduttore se la dà da mattatore) da Jader Jacobelli. Jacobelli oltre ad avere un aspetto da gallinaceo sembrava un ometto qualsiasi invece era una persona coltissima. E sulla cultura Bernabei, fiorentino dall’intelligenza finissima, ha sempre puntato anche per personaggi dalle mansioni apparentemente minori.


Si è spesso parlato di Ettore Bernabei come uomo di potere. Io invertirei i termini della questione. Bernabei aveva capito lo straordinario e inquietante potere del mezzo che dirigeva e in qualche modo cercò di smussargli le unghie. In un’occasione affermò: “La televisione ha un potenziale esplosivo superiore a quello della bomba atomica. Se non ce ne rendiamo conto rischiamo di ritrovarci in un mondo di scimmie ingovernabili”. Ipse dixit.



venerdì 12 agosto 2016

Graffiti, Street Art, Muralismo: e se smettessimo di fare confusione?



Lo scorso 6 novembre, lo street artist francese Christian Guémy, alias C215, ha pubblicato un articolo sul sito Rue89 per condividere una sua riflessione sulla fase che la street art attraversa in questi ultimi anni e per offrire la sua visione della storia di questo movimento artistico. L'articolo è stato ripreso e tradotto in inglese da RJ Rushmore su Vandalog. Da oggi, potete leggerlo anche in italiano.


"Negli ultimi tempi, in particolare dopo il successo planetario di Banksy, i grandi media parlano tutte le settimane di arti urbane: mostre di street art in galleria, aste di graffiti, “musei a cielo aperto” o repressione del vandalismo. Il riconoscimento delle arti urbane da parte del pubblico e dei media ha raggiunto un punto molto elevato. Nonostante ciò, mi stupisco per l’assenza di una distinzione tra le diverse anime che compongono questo movimento artistico. Il loro raggruppamento sotto il termine “street art” è molto comodo, ma confonde più che chiarisce.

Ho quarant’anni e seguo le arti urbane fin dal 1984, cioè da quando comparve in televisione la trasmissione televisiva “Hip Hop”, diretta da Sydney.

Ho provato a fare i miei primi graffiti nel 1989 e ho assistito all’evoluzione di questo tipo di arte urbana. Mi sembra che più “generazioni” si siano succedute da allora. Le ambizioni e le pratiche di ognuna di esse sono così diverse che meritano una distinzione.

I pionieri dei graffiti - I graffiti esistono da sempre. Si tratta di un fenomeno antropologico. Negli anni ’30 del ‘900, il fotografo Brassaï è stato il primo a interessarsi a questo tipo di iscrizioni che esistono fin dall’Antichità. Il Colosseo stesso è ricoperto di scritte lasciate da sconosciuti nel corso dei secoli. Negli anni ‘60, l’apparizione della bomboletta aerosol ha offerto alla gioventù disillusa degli anni ’70 e ’80 uno strumento particolarmente efficace per lasciare delle iscrizioni sui muri di città ordinarie, in strade considerate fino ad allora dei non-luoghi dell’arte. E’ stato lo spray, un’innovazione tecnologica, a dare slancio al movimento dei graffiti, dominato dalla cultura hip-hop in America e da quella punk-rock in Europa.

Lo spirito romantico dei graffiti - Questa prima “generazione” ha definito i codici di una nuova cultura urbana, il cui impatto sulla cultura visuale occidentale è paragonabile a quello del rock and roll sulla musica del secondo ‘900. I graffiti trovano origine in uno spirito romantico. Disinteressati e spesso anarchici, i primi adepti dei graffiti dipinti con delle gli spray definiscono una vera e propria cultura. Il coraggio è il principale elemento per giudicare la qualità di un intervento. La performance serve a trasgredire e a provocare nello spazio pubblico. La ricercatezza delle loro calligrafie è estrema e arriva fino al criptaggio. Il loro scopo principale è piacere al proprio gruppo di appartenenza, e non piacere alla società che intendono provocare. Una logica tribale li conduce a impossessarsi dello spazio pubblico. Le loro azioni possono essere interpretate come una reazione alla rapida cementificazione alla quale si assiste in una società che pensa solo a evolvere e che tende a escluderli.

“Se un giorno autorizzano le tag, smetto” - Il loro tratto distintivo è costituito dall’apposizione ripetuta di uno pseudonimo su qualsiasi superficie. Sono gli unici a poterlo decifrare e questo contribuisce ancora di più alla non-comprensione delle loro azioni da parte della società. Salvo qualche rara eccezione, queste prime generazioni non vogliono commercializzare la loro arte, che si fonda esclusivamente su una contestazione sociale e su una performance fisica. Si limitano a intervenire senza autorizzazioni, alla ricerca della “bellezza del gesto”. Non cercano il riconoscimento sociale, anzi… Si tratta di un vero e proprio stile di vita che mette radici in una generazione disillusa che vuole riconquistare lo spazio pubblico e che mette in discussione il concetto di proprietà privata. L’arte di questa prima generazione di writers è rapidamente etichettata dalla società e dalle autorità come “vandalismo”, perché degrada e diminuisce il valore di beni pubblici. Ovviamente, verso la fine degli anni ’90, questi interventi provocano una forte ondata di repressione e una disapprovazione generale da parte della società nei confronti di questa forma di espressione artistica. O’Clock (uno dei più importanti writer parigini, ndT) mi ha detto una volta “se un giorno autorizzano le tag, smetto”: una teoria del vandalismo impeccabile.

Internet e la generazione “street art” - Verso il 2000, alcune innovazioni tecnologiche mettono a disposizione degli artisti nuovi strumenti: i computer e l’“home office” prima e internet poi cambiano radicalmente gli equilibri mediatici. Internet confronta una nuova “generazione” di artisti all’“ipermediazione”, ovvero alla possibilità di cortocircuitare i canonici attori del sistema dell’arte: giornalisti, critici, curatori e galleristi. Questa nuova generazione fa suo internet, che diventa un nuovo “non-luogo” dell’arte. I giovani del 2000 sono cresciuti in mezzo ai graffiti e ne conoscono i codici alla perfezione. Molti sognano di diventare artisti e frequentano degli istituti di graphic design, dove studiano la cultura e l’estetica dei graffiti. Non c’è da stupirsi se un’intera generazione di graphic designer ha fondato il proprio lavoro sui codici dei graffiti. Rapidamente, il loro desiderio di diventare degli artisti professionisti li porta a deviare, se non addirittura a traviare, i codici dei graffiti con il solo fine di poterli commercializzare.

Dei maestri del marketing virale - Il marketing è una necessità per qualsiasi professionista, ma impone un’autocensura che favorisce la ricerca di consenso e che si adatta a scelte che facilitano l’emersione del movimento. La struttura e la forma stessa della street art sono condizionati dalle logiche di internet e dai suoi modelli di diffusione culturale. I nuovi artisti di strada prendono in prestito le forme dei graffiti, ma le modificano per poterli diffondere su internet, sui loro siti, su blog specializzati e per permettere al pubblico di condividerli sui social networks. Prendendo Banksy come modello, numerosi sono diventati dei maestri del marketing virale. Un nuovo Eldorado. Ai writers interessava solo il riconoscimento degli altri writers. La Street Art vuole invece sedurre quanti più spettatori possibili. Lusinga il gusto del pubblico, senza contrariarlo mai. Anzi, ne asseconda l’ego invitandolo a partecipare, come JR con il progetto “Inside Art”. Le opere di strada che chiunque può fotografare e condividere sulle proprie pagine personali intasano i social networks. Numerosi appassionati fotografano le opere e le condividono perché si illudono di prendere parte a un movimento dall’aspetto libertario.

Ognuno si sente un po’ artista - Gli appassionati si sentono persino artisti. Firmano le loro fotografie e aprono dei blog. Se facessimo un parallelo con la musica popolare, l’illusione che vive il pubblico della street art sembra quella del karaoke: ognuno si sente un po’ artista. Per conquistare il mercato e soddisfare il gusto del pubblico, questa generazione svia i principi cardine dei graffiti. Mentre i graffiti puntavano a non piacere, gli street artists in erba cercano di piacere e cercano di allargare quanto più possibile il proprio pubblico. Mentre i writers proteggevano la loro identità, gli street artists mostrano il loro volto, perché cercano popolarità e visibilità. I writers deturpano lo spazio pubblico, gli street artists lo abbelliscono e partecipano alla gentrificazione dei quartieri popolari nei quali operano.

Doc Gynéco sta ai Black Panthers come… - Mentre i writers non si sono posti il problema della commercializzazione, gli street artists hanno calcolato tutto in funzione di questa, dei musei e degli onori più diversi. Mi spiace incarnare un esempio perfetto di questa dinamica. Abbiamo mantenuto le apparenze e lo spirito romantico dei graffiti: i codici vestimentari, gli strumenti e la grafia, la voglia di provocare e la tendenza a mettere in scena i rischi corsi nel compiere delle azioni illegali. Abbiamo avuto la pretesa di iniettare un contenuto formale nei graffiti, ma ne abbiamo invece ridotto il portato rivendicativo, per spacciare dei messaggi finto-politici che sono solo un insieme di luoghi comuni che sfiorano la demagogia, come il progetto “Women Are Heroes” di JR. Questa generazione di artisti si è avvicinata così tanto al sistema che ne fa ormai parte. I writers non ci sono mai cascati e detestano la street art, perché giustamente la percepiscono come uno svilimento commerciale della loro pratica. Perché non bisogna sbagliarsi: la street art è un surrogato dei graffiti e ha tra i suoi obiettivi la loro commercializzazione e la ricerca di un’arte inseribile nello spazio pubblico che sia piacevole e facile da condividere su internet. La street art non è rivendicativa, ma edonista. Per dirlo in poche parole, la street art sta ai graffiti come Doc Gynéco sta ai Black Panthers.

L’avvento del “muralismo” - La street art ha raggiunto un duplice obiettivo verso il 2010: il movimento ha ottenuto un vasto riscontro da parte del pubblico e i suoi attori si sono professionalizzati. Più recentemente, la commercializzazione ha raggiunto un apice. Le istituzioni culturali iniziano a investire in questo nuovo filone, ma non provano né capirlo né a renderlo comprensibile al grande pubblico. La street art è ormai un prodotto come gli altri.
Non senza aberrazioni, si organizzano aste e mostre di street art, anche se si dovrebbe usare il termine street art solo per degli interventi eseguiti in strada e nonostante il fatto che i graffiti non siano mai stati un bene commercializzabile.


Il ritorno dei mediatori - Gli attori del mercato – galleristi, collezionisti, pubblicitari e i media – se la godono, perché si è ormai creata un’economia molto simile a quella dell’industria dell’entertainment. I writers e gli street artists hanno accettato le regole del gioco e producono opere per decorare i salotti borghesi. La provocazione è ormai solo simulata. I media parlano di street art con gli stessi toni con cui segnalavano un tempo i concerti dello “sfrontato” Michel Sardou. I graffiti e la street art sono diventati un mestiere qualunque e sono talmente apprezzati, da essere integrati nei corsi di alcune scuole d’arte. Molte istituzioni, municipalità, sponsor e gallerie, oltre ad una miriade di altre possibilità commerciali fanno oggi della street art un mestiere rispettabile. Il fiorire dei festival mette a disposizione di una nuova generazione di artisti quelle superfici legali che non hanno avuto ne i primi writers ne la prima generazione di street artists. E’ un sogno che si avvera.

Delle commissioni monumentali - Le commissioni di muri di dimensioni monumentali implicano una censura collettiva (progetto preliminare, toni politically correct che non turbino la cittadinanza, censure politiche locali) e hanno genrato un nuovo tipo di street art: il “muralismo”. Questi interventi sono realizzati in gran parte nell’ambito di festival sostenuti dalle municipalità. Sono affidati a un gruppo relativamente ristretto di pittori, a cui non viene offerta nessuna possibilità di trasgressione o di provocazione. Il finanziamento di operazione come queste è il terreno su cui stanno tornando in pompa magna i galleristi, i curatori e gli sponsor, ovvero tutti quegli attori che erano stati schivati dalle due prime generazioni. Con la nuova pratica semi-istituzionale del muralismo, non rischia di sparire solo la libertà di espressione, ma anche l’indipendenza stessa degli artisti. Bisogna quindi sperare che il muralismo non trasformi un po’ alla volta la street art in un’arte decorativa e priva di contenuti polemici… Per quel che mi riguarda, la valanga di insulti che ho ricevuto per il mio recente ritratto di Christiane Taubira (il ministro della Giustizia, nata nella Guyana francese, ndT) mi incoraggia a prendere sempre più posizione sui temi che mi stanno a cuore.

Le strade hanno una bella cera - Ecco in che direzione stiamo andando. Muri monumentali dipinti nello spazio pubblico si commissionano da sempre. E’ quindi lecito chiedersi in cosa il muralismo di oggi sia moderno, tenendo comunque a mente che non si può parlare di “normalizzazione”, perché le strade dei nostri quartieri hanno finalmente una bella cera e sono più vivibili di quelle grigie della mia infanzia. Sono invecchiato e mi capita piuttosto spesso di dipingere dei gattini. Avrete capito che questa presa di posizione con valore di autocritica è il tentativo di descrivere la storia di un movimento complesso, che i grandi musei di arte contemporanea continuano a ignorare. Se ne capisce anche il perché. Per quel che mi riguarda, dovrei probabilmente pubblicare questo testo sulla mia pagina Facebook e diffonderlo con il buon vecchio metodo della pubblicità, perché si tratta senza alcun dubbio del supporto più efficace. Vi ringrazio di avermi letto fino in fondo."
Christian Guémy, alias C215

(fonte:  http://legrandj.eu/article/graffiti_street_art_muralismo_e_se_smettessimo_di_fare_confusione)