(in gergo palermitano vuol dire letteralmente: "Salvatore accendi la luce")
Luca
Lotti ha presentato denuncia contro il profilo twitter di Beatrice Di Maio
sapendo che quel nome celava un’altra identità: quella di Tommasa Giovannoni Ottaviani detta Titti, nonché moglie di Renato
Brunetta. È lecito pensarlo. Come è lecito sostenere che la sua
denuncia, arrivata sette mesi dopo rispetto al tweet incriminato, è stata
recapitata in poche ore al quotidiano La Stampa che l’ha poi divulgata costruendole attorno una “rete di cyber propaganda del
Movimento 5 Stelle” sulla quale “la procura indaga”.
Insomma una
notizia vera (la denuncia di Lotti) usata per costruire una notizia falsa
(indagine su M5S). Notizia falsa poi cavalcata dal Partito Democratico per
presentare delle interrogazioni parlamentari contro “la macchina del fango
M5S”. Tempi, modi, attori: tutto rientra nel classico schema del “dossieraggio”
nel quale sono dunque in qualche modo coinvolti un esponente importante del
governo (Lotti), il partito di maggioranza (il Pd) e un quotidiano nazionale.
Questo è quanto si può ricostruire e vedere oggi. Altri attori o soggetti sono
stati coinvolti nei singoli passaggi ma al momento non sono ancora stati
individuati con certezza. Ma è solo questione di tempo perché la “rete” (questa
sì, reale) ha commesso alcuni errori.
Va detto
che il quotidiano torinese ha sicuramente agito in buona fede. Forse è stato
semplicemente usato, strumentalizzato. Insomma sembra aver preso la più
classica delle “polpette avvelenate”. Capita e può capitare. Peccato però che
invece di riconoscerlo e impegnarsi a scoprire se un rappresentante dello Stato
ha utilizzato strumenti illeciti per individuare un profilo twitter e
screditare con una notizia falsa un avversario politico, fa finta di niente e
addirittura arriva a scrivere (questa mattina) che il collegamento tra Beatrice
Di Maio e la cyber propaganda contro M5S non lo avevano ipotizzato loro, ma i
parlamentari del Pd. Già. Si legge nell’articolo: “Nulla a che vedere con il
Movimento, come invece avevano ipotizzato i parlamentari del Pd negli scorsi
giorni”. Sembra di vivere in 1984 di George Orwell, quando descrive come si
modificano i giornali del passato in funzione di ciò che è utile nell’oggi. Ma
ognuno fa il proprio mestiere come crede, figurarsi. Privilegio questo che
invece non può valere per i componenti del governo e per i parlamentari. Ed è
per questo che la vicenda di Beatrice Di Maio non può essere archiviata con una
risata.
Andiamo
con ordine. Mercoledì 16 La Stampa pubblica un articolo con questa titolazione:
“Ecco la cyber propaganda M5S, la procura indaga sull’account chiave.
Algoritmi, false notizie, bufale. Palazzo Chigi denuncia per diffamazione”.
Tutte notizie poi rivelatesi false: l’account chiave sarebbe quello di Beatrice
Di Maio, che non ha alcun collegamento con M5S; la procura non indaga su nulla
e di certo non su una rete di cyber propaganda visto che ancora non è reato
fare propaganda politica; Palazzo Chigi non ha denunciato nessuno. L’unica
notizia vera si trova nel testo dell’articolo: Luca Lotti ha querelato il
profilo twitter di Beatrice Di Maio perché si è sentito diffamato da un tweet
che lo definiva indirettamente mafioso. Punto. Nient’altro. E che in quella
denuncia non ci sia altro lo rivela lo stesso avvocato di Lotti, Alberto Bianchi, al Fatto.
Inoltre, dice il legale, l’atto è stato presentato martedì 15 ai Carabinieri di
Firenze. Quindi come può La Stampa il mercoledì 16 scrivere che “la procura
indaga”? È materialmente impossibile. Le date rivelano un altro aspetto
importante: Lotti querela Di Maio per un tweet pubblicato sette mesi prima, cioè
il 7 aprile. Questo.
Facendo
una semplicissima ricerca sia attraverso Google sia su Twitter, in quei giorni
l’intercettazione “abbiamo le foto di Delrio con i mafiosi” era apparsa
ovunque. Per ovvi motivi. Ma su Twitter tantissimi utenti ci hanno ironizzato o
l’hanno usata in vari modi. Non solo Di Maio. C’è chi ha fatto peggio. Il
profilo del Secolo d’Italia, il quotidiano web della destra italiana, ha messo
la foto di Delrio con Renzi che lo indica ridendo. E tanti altri.
Eppure
Lotti chi querela sette mesi dopo? Il profilo di Beatrice Di Maio. Solo
lei. Che poi si scopre essere gestito da
chi? Dalla moglie di Brunetta, oppositore principale dell’esecutivo Renzi.
Quindi diciamo che o Lotti è stato molto fortunato e denunciando un
utente a caso (nonostante avesse poco
seguito) ha smascherato la consorte dell’avversario politico, oppure è andato a
colpo sicuro. Abbiamo tentato di parlarci ma negli ultimi due giorni ha avuto
altri impegni. Eppure sarebbe utile sapere direttamente da lui se era al corrente della vera identità dell’account
al momento della denuncia. E se sì come l’ha scoperto? Ancora: è al corrente di
come la sua denuncia sia passata in poche ore dai Carabinieri a La
Stampa? E se è stata accompagnata da
altri documenti, studi, relazioni, informative che collegavano Di Maio alla
rete di cyber propaganda M5S, come ha scritto il quotidiano torinese? E se sì,
sa chi li ha aggiunti e messi in relazione?
Da ultimo
aiuterebbe conoscere in quali modi e tempi Emanuele Fiano – e gli altri parlamentari che hanno presentato le
interrogazioni sulla base dell’articolo de La Stampa gridando alla “macchina del fango M5S” – sono stati
avvisati o spinti ad agire. Perché ancora una volta i tempi lasciano pensare
che tutto sia stato ben scandito. Denuncia, articolo, interrogazioni
parlamentari, dichiarazioni di esponenti del Pd. E tutto su una notizia falsa, una
bufala: l’indagine di una procura sulla
cyber propaganda M5S. Notizia falsa spacciata per vera e finita persino su Le Monde e il Guardian. E usata dal Pd per dire
che la macchina del fango è quella
del movimento di Grillo.
Davide Vecchi (Il Fatto Quotidiano - 25 novembre 2016)
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