domenica 27 novembre 2016

Caso Beatrice Di Maio, e se la cyber-propaganda fosse a Palazzo Chigi?



 
  (in gergo palermitano vuol dire letteralmente: "Salvatore accendi la luce")

Luca Lotti ha presentato denuncia contro il profilo twitter di Beatrice Di Maio sapendo che quel nome celava un’altra identità: quella di Tommasa Giovannoni Ottaviani detta Titti, nonché moglie di Renato Brunetta. È lecito pensarlo. Come è lecito sostenere che la sua denuncia, arrivata sette mesi dopo rispetto al tweet incriminato, è stata recapitata in poche ore al quotidiano La Stampa che l’ha poi divulgata costruendole attorno una “rete di cyber propaganda del Movimento 5 Stelle” sulla quale “la procura indaga”.

Insomma una notizia vera (la denuncia di Lotti) usata per costruire una notizia falsa (indagine su M5S). Notizia falsa poi cavalcata dal Partito Democratico per presentare delle interrogazioni parlamentari contro “la macchina del fango M5S”. Tempi, modi, attori: tutto rientra nel classico schema del “dossieraggio” nel quale sono dunque in qualche modo coinvolti un esponente importante del governo (Lotti), il partito di maggioranza (il Pd) e un quotidiano nazionale. Questo è quanto si può ricostruire e vedere oggi. Altri attori o soggetti sono stati coinvolti nei singoli passaggi ma al momento non sono ancora stati individuati con certezza. Ma è solo questione di tempo perché la “rete” (questa sì, reale) ha commesso alcuni errori.

Va detto che il quotidiano torinese ha sicuramente agito in buona fede. Forse è stato semplicemente usato, strumentalizzato. Insomma sembra aver preso la più classica delle “polpette avvelenate”. Capita e può capitare. Peccato però che invece di riconoscerlo e impegnarsi a scoprire se un rappresentante dello Stato ha utilizzato strumenti illeciti per individuare un profilo twitter e screditare con una notizia falsa un avversario politico, fa finta di niente e addirittura arriva a scrivere (questa mattina) che il collegamento tra Beatrice Di Maio e la cyber propaganda contro M5S non lo avevano ipotizzato loro, ma i parlamentari del Pd. Già. Si legge nell’articolo: “Nulla a che vedere con il Movimento, come invece avevano ipotizzato i parlamentari del Pd negli scorsi giorni”. Sembra di vivere in 1984 di George Orwell, quando descrive come si modificano i giornali del passato in funzione di ciò che è utile nell’oggi. Ma ognuno fa il proprio mestiere come crede, figurarsi. Privilegio questo che invece non può valere per i componenti del governo e per i parlamentari. Ed è per questo che la vicenda di Beatrice Di Maio non può essere archiviata con una risata.

Andiamo con ordine. Mercoledì 16 La Stampa pubblica un articolo con questa titolazione: “Ecco la cyber propaganda M5S, la procura indaga sull’account chiave. Algoritmi, false notizie, bufale. Palazzo Chigi denuncia per diffamazione”. Tutte notizie poi rivelatesi false: l’account chiave sarebbe quello di Beatrice Di Maio, che non ha alcun collegamento con M5S; la procura non indaga su nulla e di certo non su una rete di cyber propaganda visto che ancora non è reato fare propaganda politica; Palazzo Chigi non ha denunciato nessuno. L’unica notizia vera si trova nel testo dell’articolo: Luca Lotti ha querelato il profilo twitter di Beatrice Di Maio perché si è sentito diffamato da un tweet che lo definiva indirettamente mafioso. Punto. Nient’altro. E che in quella denuncia non ci sia altro lo rivela lo stesso avvocato di Lotti, Alberto Bianchi, al Fatto. Inoltre, dice il legale, l’atto è stato presentato martedì 15 ai Carabinieri di Firenze. Quindi come può La Stampa il mercoledì 16 scrivere che “la procura indaga”? È materialmente impossibile. Le date rivelano un altro aspetto importante: Lotti querela Di Maio per un tweet pubblicato sette mesi prima, cioè il 7 aprile. Questo. 
Facendo una semplicissima ricerca sia attraverso Google sia su Twitter, in quei giorni l’intercettazione “abbiamo le foto di Delrio con i mafiosi” era apparsa ovunque. Per ovvi motivi. Ma su Twitter tantissimi utenti ci hanno ironizzato o l’hanno usata in vari modi. Non solo Di Maio. C’è chi ha fatto peggio. Il profilo del Secolo d’Italia, il quotidiano web della destra italiana, ha messo la foto di Delrio con Renzi che lo indica ridendo. E tanti altri.

Eppure Lotti chi querela sette mesi dopo? Il profilo di Beatrice Di Maio. Solo lei. Che poi si scopre essere gestito da chi? Dalla moglie di Brunetta, oppositore principale dell’esecutivo Renzi. Quindi diciamo che o Lotti è stato molto fortunato e denunciando un utente a caso (nonostante avesse poco seguito) ha smascherato la consorte dell’avversario politico, oppure è andato a colpo sicuro. Abbiamo tentato di parlarci ma negli ultimi due giorni ha avuto altri impegni. Eppure sarebbe utile sapere direttamente da lui se era al corrente della vera identità dell’account al momento della denuncia. E se sì come l’ha scoperto? Ancora: è al corrente di come la sua denuncia sia passata in poche ore dai Carabinieri a La Stampa? E se è stata accompagnata da altri documenti, studi, relazioni, informative che collegavano Di Maio alla rete di cyber propaganda M5S, come ha scritto il quotidiano torinese? E se sì, sa chi li ha aggiunti e messi in relazione?

Da ultimo aiuterebbe conoscere in quali modi e tempi Emanuele Fiano – e gli altri parlamentari che hanno presentato le interrogazioni sulla base dell’articolo de La Stampa gridando alla “macchina del fango M5S” – sono stati avvisati o spinti ad agire. Perché ancora una volta i tempi lasciano pensare che tutto sia stato ben scandito. Denuncia, articolo, interrogazioni parlamentari, dichiarazioni di esponenti del Pd. E tutto su una notizia falsa, una bufala: l’indagine di una procura sulla cyber propaganda M5S. Notizia falsa spacciata per vera e finita persino su Le Monde e il Guardian. E usata dal Pd per dire che la macchina del fango è quella del movimento di Grillo.



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