domenica 8 gennaio 2017

2017, l’anno senza narrazione



 
Si avverte un certo senso di vuoto, sfogliando i giornali e guardando i siti di news in questo lento inizio di anno: è scomparsa la narrazione, è finito lo spin, si è incrinato lo storytelling. Senza più Matteo Renzi a ripetere con dedizione da studente coranico quanto sta migliorando l’economia, che boom incredibile di posti di lavoro stiamo osservando, a ricordarci la fenomenale centralità dell’Italia nello scacchiere europeo e che ottimo investimento sia il Monte dei Paschi di Siena, è sceso il silenzio. E giornali e giornalisti, molto più che i loro (ormai pochi) lettori, devono prodursi in uno sforzo da tempo dimenticato, per il quale i muscoli necessari sono da tempo rattrappiti, causa lo scarso utilizzo: pensare da soli, farsi un’opinione del mondo, scegliere in che modo presentare ai lettori quello che succede. 

Guarda caso, il dibattito sulla post-verità è arrivato con grande ritardo in Italia, solo quando ha perso forza la “verità unica”, quella decisa a palazzo Chigi e comunicata al popolo direttamente dai cellulari di Matteo Renzi e del suo braccio destro Filippo Sensi, grazie all’amplificazione di troppo ricettivi opinion maker e politici di corte. Ora che la narrazione è finita, si può finalmente ammettere che gran parte di quello che gira su siti, talk show e giornali (per non dire dei siti istituzionali) è soltanto un cumulo di balle. O, per dirla in modo più elegante, il prodotto di una propaganda tanto sofisticata quanto brutale.

Per assenza del direttore d’orchestra – il succedaneo Paolo Gentiloni mantiene una ammirevole discrezione – finalmente i suonatori possono rinunciare alla sinfonia per prodursi in una polifonia. O perfino in una assai più democratica cacofonia. 

La deflazione è un disastro per gli investimenti o l’ultima ancora dei redditi fissi? La Cgil che usa i voucher è uno scandalo di ipocrisia o la dimostrazione di quanto corrosivo è stato il loro impatto sul mercato del lavoro, eliminando le alternative? La nazionalizzazione del Monte dei Paschi è una illuminata politica industriale o l’ennesima socializzazione delle perdite dopo che i profitti sono stati da tempo privatizzati? Prima bastava un tweet, una e-news, un WhatsApp a dirimere la questione. E prima ancora, negli anni di Berlusconi ma perfino con Monti e Letta, era sufficiente attendere un segnale dai tanti volenterosi interpreti degli umori ufficiali della corte. Adesso, in questo scorcio di 2017, c’è solo il silenzio. E tocca pensare, farsi un’idea autonoma.

Di questa boccata di aria fresca, oltre a noi giornalisti, dovete approfittare anche voi lettori. Perché la gassosità del governo Gentiloni costringe anche tutti gli italiani ad accettare una scomoda verità: che le loro sorti non dipendono dal governo. Che se le nostre città sono sommerse di spazzatura, se al fisco mancano 109 miliardi ogni anno causa evasione fiscale di massa, se i turisti preferiscono Parigi e Londra alle nostre città piene di piccole frodi e trappole, se abbiamo la pubblica amministrazione più lenta e farraginosa d’Europa, non è tutta colpa di chi ci governa, dal Comune o da palazzo Chigi o da Montecitorio. Per lunghi anni l’Italia ha continuato a comportarsi come se fossimo negli anni Trenta o, al massimo, Cinquanta. Come se le nostre sorti collettive fossero appese a un qualche uomo forte, come se la politica fosse soltanto ricerca della leadership giusta. 

Oggi chi guarda a palazzo Chigi non vede nulla. Il vuoto anche se qualche cortigiano starà già meditando retroscena sulla “dottrina Gentiloni” o sulla “forza tranquilla del basso profilo”. E così sarà per lunghi mesi, forse fino a giugno, forse fino al 2018. E anche dopo le elezioni, tutto lascia pensare che ci vorranno faticose trattative per ottenere governi di coalizione dalla natura incerta e dall’agenda pasticciata. Ora che anche le promesse miracolistiche di rinnovamento del Movimento Cinque Stelle devono stemperarsi nella pratica quotidiana del governo, cercando di tradursi in scelte concrete, stanno scomparendo gli ultimi miti. Abbiamo cancellato dalla lista delle urgenze quasi tutte le soluzioni semplici a problemi complessi (e dunque di solito sbagliate). Ci rimane giusto da ridimensionare la favola per cui è tutta colpa dell’euro e della Germania, o degli Americani, e poi saremo a posto. Ma anche su questo un po’ di buonsenso sta tornando, consiglio il bel libro di Alfredo Macchiati “Peché l’Italia cresce poco” e la sua analisi della zavorra tutta italica delle nostre “élite estrattive”.

Il 2017 sarà un anno difficile, forse traumatico. Ma sembra destinato anche a essere l’anno senza narrazione, che ci costringe a pensare con la nostra testa, senza aiutini o imposizioni esterne. Approfittiamone. 


 

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