martedì 30 maggio 2017

I partiti senza idee e il ritorno alla palude



 
Nel confronto di queste settimane sulla riforma elettorale e sulla data del voto, manca sempre qualcosa. Il dibattito si presenta amputato. Privato di quel nucleo essenziale che dovrebbe dare anima e sostanza a tutte le forze politiche. Quali sono gli obiettivi? Cosa intendono fare dopo le urne? Semplicemente qual è il loro programma? Non c'è nulla di tutto questo. Sembra quasi che nel tempo della transizione i partiti si sentano dispensati dall'obbligo di comunicare agli elettori i loro propositi e abbiano deciso di regredire in una sorta di immaturità permanente.

Non si spiega altrimenti quel che sta accadendo in Parlamento. I quattro principali partiti - Pd, M5s, Forza Italia e Lega - si stanno mettendo d'accordo per approvare una legge che ricalca il modello proporzionale tedesco. È doveroso che una democrazia abbia un sistema elettorale degno di questo nome. E l'Italia non ce l'ha. Ma non è solo questo in discussione. Il vero nodo si concentra nel motivo per cui queste quattro forze politiche lo scelgono: l'impotenza.

Negli ultimi ventitré anni, uno schema sostanzialmente maggioritario ha costretto tutti a misurarsi con le richieste dei cittadini e a presentare loro le idee, le linee di un futuro governo. A esporre la loro natura. Adesso succede il contrario. In una sorta di ritorno al "pentapartito" della Prima Repubblica, tutto si rinvia a dopo. In un enorme bacino dell'indistinto. Il cui pericolo più concreto prende la forma di una nuova palude in cui ogni mossa sarà frenata dalla melma. Del resto ignorare che il sistema politico italiano non è quello di Berlino non può che portare a queste conclusioni. In Germania ci sono due grandi partiti, una leader riconosciuta, Angela Merkel, e il fronte populista non supera mai la soglia del 10%. In Italia la vera guida è la frammentazione e la protesta populista nei sondaggi arriva al 40%.

Basta allora osservare la traiettoria assunta dal Pd di Renzi. Un partito nato sulla vocazione maggioritaria, appare preoccupato soprattutto di ritornare al voto per dimostrare a se stesso che la sconfitta del 4 dicembre (la principale causa delle attuali distorsioni) è stata solo un incidente di percorso. Ma il leader democratico non chiarisce quali siano le sue finalità. Come intende governare il Paese. Non riesce a delineare i confini ideali del suo partito. Non può farlo. Non può presentare il suo programma reale. Perché sa che nel migliore dei casi - dopo il voto - dovrà allearsi con il partito di Silvio Berlusconi. Con il partito che il Pd ha combattuto per 20 anni e con il quale non dovrebbe condividire nulla dal punto di vista dei contenuti. Il Partito democratico avrebbe l'obbligo di rilanciare almeno un istintivo riformismo, ma è paralizzato nell'impossibilità di aggiornare il suo profilo. Anzi il ritorno alla proporzionale lo sta inconsapevolmente modificando. E questa mutazione riguarda anche gli "scissionisti" del Pd, appagati dalla speranza della sconfitta renziana.

Lo stesso riguarda Forza Italia. Berlusconi però si crogiola nella speranza di recuperare centralità senza avere più i consensi di un tempo. E senza nemmeno rinverdire gli onirici proclami mai realizzati.

Il paradosso si raggiunge con i grillini e i leghisti. Il Movimento5Stelle si sta rintanando in una posizione meramente speculativa. La paura di governare - esplosa con i disastri della giunta Raggi a Roma - spinge l'ex comico ad accettare il bottino di parlamentari che conquisterà in autunno (se davvero si voterà in autunno). Si rintana nella sua identità primordiale: quella del vaffa. Sapendo - o sperando - che se nascerà il governissimo Renzi-Berlusconi potrà ricominciare a sparare contro tutto e tutti. Senza bisogno di spiegare agli italiani cosa vogliano davvero fare per il Paese. Come può cambiare. Come affrontare la crisi dell'Unione europea e il rapporto con Trump. Come rimettere in ordine i conti dello Stato o abbassare il tasso di disoccupazione. Solo slogan inattuabili. In perfetto spirito populista. Seguito a ruota dalla Lega di Salvini già pronta a denunciare gli "inciuci". Non si tratta quindi di un novello patto del Nazareno, ma di un'intesa per la sopravvivenza che coinvolge tutti e quattro. Assecondando così il sentimento provato da molti elettori e che Zygmunt Bauman spiegava in questi termini: "Per una grande maggioranza di cittadini l'idea di contribuire a indirizzare il corso degli eventi raramente è considerata credibile".

Il ritorno alla Prima Repubblica e il tempo della immaturità portano dunque tutti questi "doni". Le classi dirigenti di questo Paese, a cominciare dai partiti che sostengono con distrazione il governo Gentiloni, dovrebbero allora riflettere prima di fare un passo indietro. Utilizzino il tempo rimanente per tentare ancora una legge elettorale che stabilisca maggioranze certe e omogenee. E soprattutto facciano ora quello che poi non si potrà più fare. Oggi su Repubblica Liana Milella e Lavinia Rivara spiegano bene quanti provvedimenti fondamentali e civili siano ancora all'esame del Parlamento. Impieghino le loro energie per approvarli. E si concentrino sulla prossima legge di Stabilità senza escogitare barocchi artifici. E soprattutto evitando di esporci al baratro dell'esercizio provvisorio e della speculazione finanziaria.


 

sabato 27 maggio 2017

Il totalitarismo dell'odio è anche nostro



Molti giornali hanno pubblicato in prima pagina la fotografia di Saffie Rose Roussos la più piccola delle vittime (8 anni) della strage di Manchester. Uccidere dei bambini è una cosa orribile, ma strumentalizzarli è qualcosa che sta solo un paio di gradini sotto. Nella prima guerra del Golfo furono uccisi dai bombardieri americani e della Nato 32.195 bambini, dati inoppugnabili perché forniti, sia pur involontariamente, dal Pentagono. Se dovessimo stare nella stessa logica i giornali occidentali dovrebbero pubblicare ogni giorno, per riparazione, la fotografia di uno di questi piccoli, cioè almeno per una decina di anni. Non è che i bambini degli altri sono diversi dai nostri, se non per qualche caratteristica fisica (i bambini dei paesi musulmani, i piccoli Alì, sono in genere tutti riccioluti).

Sul Corriere della Sera Cazzullo si chiede “quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto”. Nessuna, ovviamente. Ma quale responsabilità potevano portare i bambini uccisi a Baghdad e a Bassora e le altre decine di migliaia uccisi dai bombardieri americani e Nato in Afghanistan, in Iraq, in Libia?

Certo, in questi macabri conteggi, c’è un’indubbia differenza fra i bambini uccisi a Manchester e i bambini uccisi dai bombardieri americani e Nato. L’attentatore jihadista di Manchester e i suoi complici (perché tutto fa pensare che questa volta non si tratti di un ‘lupo solitario’ ma di una cellula incistata sul suolo britannico) non solo sapevano che avrebbero ucciso dei bambini ma volevano uccidere dei bambini. I piloti, e anche i non piloti nel caso dei droni, americani e Nato non volevano premeditatamente uccidere dei bambini, anche se sapevano che li avrebbero inevitabilmente uccisi e in una misura molto maggiore di quella che può fare un kamikaze. Gli jihadisti non fanno differenze. Noi occidentali qualche differenza la facciamo ancora. In questa orribile ‘guerra asimmetrica’ c’è in questa differenza il solo punto di vantaggio a nostro favore, sul piano morale, rispetto alla jihad.

Sul Foglio Giuliano Ferrara, questo acrobata professionale nel manipolare i fatti, scrive: “Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati… E noi, invece di esportare con una violenza incomparabilmente superiore alla loro l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace, invece di rispettare il loro progetto distruggendone le radici sociali e politiche dove risiedono, noi a baloccarci, a piangerci addosso, a ricusare la violenza e l’odio”. Ferrara riprende in toto, quasi aggravandola, la teoria di George W. Bush: esportare la democrazia con la violenza. Questo irresponsabile individuo sembra non rendersi conto, non so se volutamente o meno, che proprio da questa esportazione violenta della democrazia, in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia e in Libia, è nata la guerra che oggi ci contrappone non solo all’Isis ma, sia pure in forme diverse, all’intero mondo musulmano e anche a quei pochi altri mondi che ci sono restati estranei. Gli effetti devastanti, sia nelle terre arabe che nelle nostre, della ‘teoria Bush’ sono sotto gli occhi di tutti. Ma non di quelli di Ferrara. Che, pare capire (“con una violenza incomparabilmente superiore”), non sarebbe alieno da gettare qualche atomica sul “mondo della violenza e dell’odio”.

Mi piacerebbe anche capire come “l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace” si concili, per fare un esempio recente, con le armi che Trump si appresta a fornire nella misura di 120 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, secondo l’accordo firmato l’altro giorno a Riad.  

Questo totalitarismo della violenza, dell’odio, dell’orrore non appartiene solo agli jihadisti, appartiene anche a noi. Anzi siamo stati proprio noi, ubbriacati e resi irresponsabili dalla nostra apparente superiorità militare, a provocarlo.

mercoledì 24 maggio 2017

Falcone voleva vivere e i suoi nemici non erano solo i mafiosi



 

«Per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese». Così Giovanni Falcone rispose in tv a una ragazza che gli chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?». Erano i giorni in cui girava voce che l’attentato all’Addaura (fu trovata una borsa di tritolo sulla scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare carriera, perché la mafia non sbaglia, se vuole uccidere uccide.

A ogni commemorazione della strage di Capaci, non posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa è la stessa, se non peggiore: solo sui cadaveri gli italiani riescono a esprimere una solidarietà e un’empatia disinteressate. A chi si preoccupava perché fumasse troppo, Falcone rispondeva: «Non mi uccideranno le sigarette». Sembra un dettaglio futile, ma la storia di Giovanni Falcone dobbiamo raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i puntini dei dettagli futili. E dettagli futili sono il veleno quotidiano e le accuse che a Falcone venivano rivolte da colleghi magistrati e da giornalisti per come lavorava e comunicava. Falcone innovatore del diritto, Falcone magistrato che dava una solidità tale alle sue inchieste da superare la più difficile delle prove, la verifica dibattimentale, possedeva doti preziose ma solo in astratto. Per queste doti — innovazione e rigore — Falcone in vita fu considerato magistrato poco ortodosso e insabbiatore. Odiato, ostacolato, disprezzato, esposto alla pubblica disapprovazione e isolato e non, come la storiografia ufficiale ci tramanda, apprezzato, rispettato, appoggiato. Questo è il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone, perpetrare la menzogna di un talento riconosciuto, di un magistrato che ha lavorato con il sostegno dei colleghi e dell’opinione pubblica. Queste mie parole suoneranno odiose e vogliono esserlo perché per capire il Paese che siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo dobbiamo studiare ciò che è stato fatto a Falcone in vita.

Potrebbe sembrare, a un giovane lettore, che Falcone sia stato l’uomo giusto, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così. La sintesi di ciò che Falcone ha dovuto subire l’ha fatta, a dieci anni da Capaci, Ilda Boccassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il suo metodo investigativo: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia stata tradita con più determinazione e malignità». Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e — continua Boccassini — sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso.

Uno dei motori principali dell’ostilità continua verso Falcone è stato il meno citato in questi anni ed è il più abietto dei sentimenti: l’invidia. Non sembri un’esagerazione, non è una mia idea, perché questa parola — invidia — è nero su bianco in una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia”. Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo tanto esposto? Si poteva eccome, non riuscendo a eguagliare il suo rigore e il suo talento, si arrivava a detestarlo, a cercare di ostacolarlo. E soprattutto risultava insopportabile a una parte importante del giornalismo e della magistratura che lui avesse l’ambizione di raggiungere ruoli di vertice per trasformare la realtà. Meglio farlo passare per un ambizioso affamato di potere e di pubblicità. Sapete come lo attaccavano? Esattamente con le stesse parole con cui oggi gli haters riempirebbero i social. Falcon Crest, il giudice abbronzato, il guitto televisivo, l’amico dei socialisti, l’uomo che usa la mafia a favore delle telecamere. Sino alle insinuazioni “se è in vita è perché lo ha permesso Cosa Nostra” ai cui affiliati viene così attribuito potere assoluto di vita e di morte. Una sorta di omaggio, più o meno inconsapevole, alla mafia da chi credeva, diceva o fingeva di volerla combattere. E Falcone, che abbiamo visto rispondere in televisione, non riusciva fino in fondo a credere possibile di doversi scusare per essere ancora in vita.

Giovanni Bianconi, nel suo libro L’assedio, mette in fila tutte le vili accuse e le diffamazioni possibili di cui Falcone fu oggetto e parla di una vita passata a combattere la mafia e a difendersi da tutto il resto. Falcone aveva contro i mafiosi, chi non riusciva come lui a combattere i mafiosi, e chi stava a guardare come una corrida chi vincesse tra lui e la mafia. E Cosa Nostra era lì a osservare il progressivo isolamento, ad aspettare il momento giusto per colpire. Falcone viene ucciso da direttore degli Affari Penali, mentre lavora a Roma alla costruzione della Superprocura voluta da Martelli. Quando Cosa Nostra decide di eliminarlo, manda un commando nella Capitale che sarà definito simbolicamente la Supercosa, nata per contrastare la Superprocura. Ma Bianconi scrive che Falcone a Roma è tranquillo e all’inquietudine di un amico che si preoccupa per lui risponde: «Qui sono libero di fare quasi la vita che voglio, non rischio nulla. È in Sicilia che sono un morto che cammina».

lcone prima e Borsellino poi sapevano di avere il destino segnato, eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati, poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio. Giovanni Falcone voleva vivere. Paolo Borsellino voleva vivere. Nessuna vocazione da parte loro al martirio, tutt’altro.

Mi capita di paragonarli a Giordano Bruno perché anche Bruno voleva vivere e quindi credendo di potersi salvare decise di abiurare. Bruno abiura più d’una volta, ma all’inquisizione non basta che taccia, che ometta, che ragioni da filosofo. L’inquisizione vuole delegittimare quello che ha scritto, verità etiche che l’uomo non può negare perché se le negasse smetterebbero di esistere. Non si tratta di negare il moto della Terra che è un dato fisico e, per quanto lo si neghi, vero. Negare verità etiche significa cancellarle. Nel teatro dell’inquisizione Bruno ha creduto di poter recitare la parte di colui che si pente, fino a quando non capisce che la posta in gioco è troppo alta, molto più alta della sua stessa vita. Anche Falcone e Borsellino sono stati costretti a difendere la verità del loro lavoro con il sacrificio, un sacrificio che non poteva essere pubblicamente rivendicato perché adesso come venticinque anni fa la delegittimazione è percepita come autentica, più autentica di ogni legittima difesa. Buonisti li chiamerebbero oggi, di quelli che senza prove certe non lanciano dardi, nemmeno contro un nemico infame come la mafia.

Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi altri, hanno combattuto contro il può feroce dei nemici sapendo che a loro non era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via.

Roberto Saviano (La Repubblica - 23 maggio 2017)

martedì 23 maggio 2017

Lettera a Giovanni Falcone


Dottore Falcone, venga, si accomodi, scusi il disordine, il caffè è già sul fuoco! Le ho raccolto due gelsi dall’albero, quest’anno è carico, stracolmo! Mi deve perdonare se l’accolgo in pigiama ma so che, per questo 25° anniversario, di gente in grande spolvero, ne vedrà tanta.
Ieri, allo svincolo di Capaci, in quel tratto che fu oleandri e lamiera, ho visto sventolare bandiere nuove; alcuni operai stavano allestendo un palchetto per le Autorità all’altezza del cunicolo che imbottirono di tritolo quella primavera, solo che questi uomini, ieri mattina, li ho visti distintamente… quelli invece…non li vide nessuno… 
Mi trova dunque in abiti di casa, le persone come me ci tengono a non confondersi con quelli che si presenteranno con l’espressione blu-istituzionale e la camicia bianco-legalità. Come se Lei non lo sapesse poi che, sotto a quegli abiti, ci sono sempre le stesse scarpe! Quelle che a certuni, tra una retata e un’altra, ci vengono strette!!! 
Non so se ha saputo di quest’ultima inchiesta sulla corruzione a Trapani! Scoperta l’ennesima rete di rapporti con politici di un certo polso e di una certa cilindrata – Rolex e Mercedes per l’esattezza – che avrebbe favorito un imprenditore locale del settore marittimo. Peccato per loro che una dirigente regionale abbia informato la Procura dell’ennesimo sistema di pressioni e favoritismi e che nella rete dei magistrati ci siano finiti tutti a beccafico, corruttori e corrotti! 
Poi per carità, la prudenza è d’obbligo e qui c’è in gioco l’indotto delle feste a Panarea ma non mi stupirei se l’unico a pagare le spese di questa storia fosse il povero passeggero Ulisse, spesso fermo in una banchina a scrivere quell’Odissea che è raggiungere le Eolie e le Egadi per chi ci abita! 
Tuttavia dottore Falcone, facciamolo un plauso alla dirigente regionale che ci ha dimostrato che, per quanto la miopia continui ad affliggere fortemente i siciliani, di cataratta (almeno di quella) possiamo guarire! 
Vogliamo parlare del teatrino Pif – Crocetta sui disabili? O Lei si schifiò come ‘a ‘mmia e per paladini della legalità ci teniamo Orlando e Rinaldo, che forse è meglio? Anche perché del paladino Maniaci Pino e della bella “Angelica” Saguto più niente si è saputo! 
Dottore Falcone l’ha vista la nuova serie? Quella del Commissario Maltese? Una “Piovra” di seconda mano, un incrocio tra Lei e il Commissario Cattani, che dopo aver assistito ai traffici mafia-politica all’aeroporto di Birgi, scopre che il più pulito degli uomini dello Stato ha la rogna. Quando lo sappiamo tutti che, in questa terra, la realtà supera sempre la fiction. E di gran lunga.
Modestamente, senza pagare il canone in bolletta noi c’abbiamo… Il signor Fazio, quello delle note cantine, che avrebbe favorito gli intrallazzi di Ustica Lines; Il signor Scelta, manager delll’aeroporto di Palermo, che smaltiti cannoli e bustarelle, invece di preoccuparsi di chi pilota gli aerei avrebbe pilotato gli appalti per il restyling dell’aerostazione; Il signor Fiumefreddo, manager dell’esattoria regionale, che consegna su un vassoio d’argento denunce di corruzione ed evasione fiscale a politici eminenti in diretta nazionale! 
Dottore Falcone, mi dica Lei se io, con un cast d’eccezione come questo, non lo faccio il triplo dello share del Commissario Maltese!!! E comunque. 
Quest’anno non posso dirle molto altro, ché siamo in campagna elettorale e qui si deve convincere la gente che il cambiamento è vicino. 
Noterà che i candidati alla guida di Palazzo delle Aquile, non hanno quella naturale sfrontatezza con la quale Ciancimino, ai tempi suoi, consegnò la città alla mafia. Ma, stia tranquillo, che anche questa volta possiamo confidare in qualche strappo al piano regolatore, su una buona parola alla formazione, su un accordo per la gestione dei rifiuti, sul progetto “Pastafrolla”, finanziato dalla Comunità Europea, per il ripristino di strade e autostrade e soprattutto su un servizio capillare di rifornimenti di cocaina a domicilio, ché i professionisti a Palermo sono molto impegnati e non ne hanno, tempo di fare la spesa! 
Dottore Falcone – badi bene – nessuno di noi ha mai creduto che la mafia uccida solo d’estate, né che sia stata decapitata. Ha visto stamattina in via D’Ossuna? Lo sappiamo bene, in cuor nostro, che rimane un cancro inoperabile e che il 41 bis non è che la sua chemioterapia, in qualche modo ti fa sperare di sconfiggerlo ma nulla può, fino in fondo, contro le sue metastasi. 
Dottore Falcone, si accenda la sua sigaretta e mi ascolti, che però una cosa bella ogni tanto gliela voglio dire! 
L’ho vista per la prima volta quest’anno, passeggiando per le strade di questa Capitale della Cultura che le ha dato i natali, l’ho sentita nelle parole nuove della gente, l’ho incrociata negli occhi incantati di migliaia di turisti, l’ho maturata nella mano tesa di un siciliano verso un migrante, l’ho toccata nel gesto di un bambino che buttava la carta delle patatine nella spazzatura, l’ho ascoltata al Teatro Massimo, l’ho incontrata nel tram col biglietto obliterato, l’ho letta negli scritti social dei miei concittadini, me l’hanno rimandata gli oleandri a Capaci, l’ho avvertita nella dignità di chi non si piega e denuncia, l’ho ammirata nel senso delle istituzioni del dottore Di Matteo e la sento, presente, mentre torno a consegnarle nuovamente il grazie della sua terra. 
Ci stiamo rialzando dottore Falcone! Da soli. Spontaneamente, e in tanti. E’ per questo che abbiamo di nuovo motivo di temere. 
Ma non siamo più disposti a farci pestare come i gelsi che cadono dagli alberi a primavera. Per questo glieli ho raccolti, perché, per una volta, le rimanga in bocca il sapore dell’onestà, della gratitudine per quell’esempio e il gusto pieno di un orgoglio ritrovato. 
Con tutto il rispetto per l’anniversario blindato in mondovisione, credo che non potessimo scegliere per Lei, per Francesca, per Antonio, per Rocco e per Vito, bomboniera più bella di questa.

Alessia Randazzo (http://www.telejato.it/home/cultura/lettera-a-giovanni-falcone-2/)


lunedì 22 maggio 2017

Ora Berlusconi si appropria di Giovanni Falcone



Si avvicina il XXV anniversario della strage di Capaci che causò la morte di Giovanni Falcone. Inesorabile, comincia l’appropriazione indebita della sua figura. Silvio Berlusconi, in una lunga intervista del 15 maggio al direttore del Foglio, non ha resistito alla tentazione. E si è prodotto in alcune sorprendenti affermazioni. 

Sostiene B., ad esempio, che “Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”. Sembrava invece che le sue preferenze volgessero verso i giudici come Vittorio Metta, quello del lodo Mondadori. Sostiene ancora B. che “al pensiero di Falcone si ispirano molte delle nostre idee sulla giustizia”. Ma non risulta da nessuna parte che Falcone fosse un sostenitore delle leggi ad personam e men che mai un fanatico assertore della difesa non solo “nel” ma “dal” processo. Quanto poi all’idea della “separazione delle carriere” che B. attribuisce a Falcone, spiace rilevare che il magistrato parlava di separazione delle funzioni, cosa ben diversa. Un “uomo libero” come lui (così con ragione lo definisce B.) non poteva accettare un pm dipendente dal potere esecutivo, ciò che invece logicamente e inevitabilmente consegue ovunque vi sia separazione delle carriere. 

Secondo B. quello di Falcone è stato “uno strano destino”, perché è diventato “un’icona della sinistra giustizialista, esattamente quella che da vivo lo combatté in ogni modo”, per “bloccarne la nomina alla Superprocura Antimafia”. Senonché, il modo decisamente più aspro e selvaggio per combattere Falcone su questo versante fu quello escogitato dal Giornale di Napoli diretto da Lino Jannuzzi, che in un articolo ... definì Falcone e De Gennaro (rispettivamente candidati alla Pna e alla Dia) “i maggiori responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento”. Addirittura i protagonisti della lotta alla mafia vengono accomunati ai mafiosi: “Da oggi, o da domani, dovremo guardarci da due ‘Cosa Nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il passaporto”. E questo Jannuzzi è lo stesso – proprio lo stesso – che diventerà senatore nella XIV e XV Legislatura, sempre sotto le insegne berlusconiane. 

E non è tutto. Una furiosa campagna di stampa si era scatenata negli anni Ottanta contro Falcone e il maxi-processo, il capolavoro investigativo-giudiziario che stava producendo l’inedito risultato di porre fine alla vergognosa impunità di Cosa Nostra. Dal diluvio di insinuazioni e accuse, ecco alcune “perle”. L’attacco si indirizza dapprima contro i “pentiti”, definiti “avanzi di cosca”, “arnesi processuali di epoche lontane e oscure”. Si sostiene che “il pentitismo meritava un uso più intelligente” e che “l’apparato giudiziario non è stato all’altezza della straordinaria occasione” (così Salvatore Scarpino sul Giornale nel 1987). I processi di mafia vengono definiti “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”, “montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta alla mafia”. E ci si chiede “se è stato opportuno seguire la strada dei maxi-processi, estremamente utili ai fini spettacolari, ma dannosi ai fini di giustizia” (così Guido Lo Porto sul Giornale di Sicilia – 1987). 

I giudici del pool vengono sostanzialmente accusati di collateralismo con i “comunisti”, che “mirano a controllare l’antimafia e appoggiano a spada tratta i magistrati-personaggio della cordata Falcone” (così Marco Ventura sul Giornale nel 1988). Il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme… un meccanismo spacciato come giuridico”, ma utilizzato ad altri fini “dai giudici capitanati da Falcone”. I quali vengono indicati come artefici di un “ormai diffuso clima maccartista” a Palermo, per cui costituirebbero “un lampante pericolo non solo di condizionamento giuridico ma ancor più di condizionamento politico” (così Ombretta Fumagalli Carulli sul Giornale nel 1988). 

Come si vede, nel florilegio di citazioni compare spesso il quotidiano dal 1979 proprietà della famiglia Berlusconi. Mentre Lo Porto e la Fumagalli come parlamentari faranno poi parte della maggioranza berlusconiana. Lo Porto diverrà anche sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi nel 1994. E ciò dopo che la furibonda campagna contro Falcone lo aveva azzoppato, cancellando il pool e azzerandone il metodo di lavoro vincente. Dunque, davvero uno strano destino quello di Falcone: ma non nel senso teorizzato da Berlusconi.

 Gian Carlo Caselli (Il Fatto Quotidiano - 18 maggio 2017)


America: un 'faro di civiltà'. Spento


E’ la prima volta nella storia, ormai nemmeno più così breve, degli Stati Uniti che un Presidente regolarmente eletto non viene accettato a priori da tutti gli americani. Trump lo ha detto: “Nessun politico nella storia, e lo affermo con grande sicurezza, è stato trattato peggio di me”. Nei casi precedenti di impeachment o di possibile impeachment ciò era avvenuto, dopo anni, per azioni ritenute scorrette da parte del Presidente.

Richard Nixon, che peraltro diede le dimissioni prima che fosse nemmeno iniziata una procedura di impeachment, e che, a mio avviso, lo dico di passata, è stato il miglior presidente del dopoguerra (aprì alla Cina con decenni di anticipo, mise fine all’ipocrisia del Gold Enchanted Standard, non aveva, a differenza del celebratissimo Kennedy, rapporti con la mafia né c’erano ombre sul suo passato) fu impallinato da un’inchiesta giornalistica, il famoso ‘caso Watergate’ che rivelò che aveva spiato illegalmente gli avversari del partito democratico. Nixon diede le dimissioni, senza nemmeno provare a difendersi, con la motivazione che gli interessi dell’America dovevano prevalere, senza se e senza ma, sui suoi. 

Con Trump si è cominciato fin da subito, fin dal primo giorno della sua elezione. Ciò, a mio parere, è uno dei segni dei profondi mutamenti che stanno avvenendo nel popolo americano. Gli americani, proprio a cagione della loro storia di transfughi, sono sempre stati nazionalisti, anzi ipernazionalisti, e hanno sempre avuto un profondo senso dell’unione della loro comunità. Al di là delle differenze, per noi europei quasi impalpabili, fra democratici e repubblicani l’America e la sua compattezza era sempre first cioè al primo posto. 

Anni fa mi trovavo in un locale, mi pare si chiamasse Finnegan, dove si salutavano due giovani yankee che stavano partendo per l’Irlanda per unirsi all’Ira. L’atmosfera era incandescente e, al limite, quasi rivoluzionaria. Ma alla fine, con mia sorpresa, tutti, compresi i due giovani, si alzarono in piedi e intonarono l’inno nazionale americano. 

Secondo me la vittoria nella seconda guerra mondiale non ha fatto bene agli americani. Prima potevano essere considerati, legittimamente, il faro delle democrazie occidentali. Il Premio Nobel per la pace dato nel 1919 al presidente Thomas Woodrow Wilson era ben meritato e niente affatto fasullo come sarebbero stati altri Nobel del genere assegnati nei decenni successivi, perché Wilson fu l’ispiratore, durante la conferenza di Parigi del 1919, della Società delle Nazioni che era un tentativo di pacificazione universale, attraverso una organizzazione che unisse tutti gli stati del mondo, e che è il precedente a cui si è ispirata la fondazione dell’Onu dell’ottobre del 1945. 

Con la vittoria nella seconda guerra mondiale la politica estera degli Stati Uniti, che fra le altre cose, a differenza degli europei, non erano mai stati colonialisti, diventa estremamente aggressiva.

Prima con la guerra del Vietnam e poi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in un crescendo parossistico con le aggressioni alla Serbia, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Somalia, alla Libia. Così l’America da nazione sostanzialmente pacifica, o almeno pacifista, diventa guerrafondaia. 

Un altro segno dei cambiamenti avvenuti in America è il trattamento dei prigionieri di guerra su cui, a mio parere, si misura, almeno in parte, la civiltà di una comunità. I soldati italiani, e quindi di un Paese fascista, che sono stati prigionieri negli Stati Uniti furono trattati con tutti i riguardi. Gaetano Tumiati, lo scrittore, che visse quell’esperienza, mi raccontava che tutti i suoi compagni consideravano una fortuna aver fatto la loro prigionia negli Usa. A settant’anni di distanza le cose sono profondamente cambiate. I prigionieri non sono più ‘prigionieri di guerra’ ma sempre e comunque terroristi di cui si può fare carne di porco, torturare, umiliare. E’ quanto avvenuto, per esempio, a Guantanamo con l’ipocrisia che Guantanamo non sta in territorio americano. E’ quanto avvenuto in Iraq nella prigione di Abu Ghraib che segna il culmine di questa escalation degradante. Ad Abu Ghraib non si torturava per avere delle informazioni dai prigionieri, pratica già in sé inaccettabile ma che può servire a salvare la vita di altri compatrioti, ma semplicemente per umiliare, senza altra ragione, il nemico. 

Noi, che siamo notoriamente considerati antiamericani ma non contro il popolo americano di cui ci piace anche la naivité, ma contro le sue più recenti edites, scongiuriamo gli americani di ritornare a essere quel faro di civiltà, che pur fra tante inevitabili contraddizioni, come l’apartheid, sono stati per tutto il Novecento.


 

mercoledì 17 maggio 2017

Vizi privati, pubbliche fake news




Ieri mattina, quando Matteo Renzi ha scritto su Facebook che il Fatto Quotidiano, “politicamente parlando”, gli aveva “fatto un regalo” pubblicando la sua telefonata col padre Tiziano, abbiamo tirato un sospiro di sollievo: finalmente la smetterà di chiamarci “Falso quotidiano”, finalmente sboccia la pace tra lui e noi, magari ci ringrazierà pure. Poi purtroppo, inoltrandoci nella lettura, abbiamo scoperto che il nostro prezioso regalo politico tanto gradito non era: anzi, era “gogna mediatica” (espressione che ci pare di aver sentito da qualcun altro, ma forse è solo un’impressione) e “caccia all’uomo” di chi “costruisce scandali”, “pubblica prove false”, “si inventa di tutto”, roba da affidare agli “avvocati” per chiederci “un risarcimento danni copioso” e farsi “pagare i mutui della mia famiglia: perché noi come tutti gli italiani abbiamo i mutui, non le tangenti” (salvo quando gli appartamenti sono gratis perché li paga Marco Carrai, come del resto capita a tutti gli italiani).

Bella gratitudine: uno ti fa un regalo e tu lo ripaghi così? Anche questa schizofrenia ci ricorda qualcuno: un certo B. che, appena pubblicavamo qualcosa sui suoi scandali, diceva che gli facevamo guadagnare un sacco di voti, salvo poi chiederci i danni a suon di querele penali e cause civili. Eppure, per Renzi, era tutto molto semplice. Siccome abbiamo rivelato che in privato, parlando col padre, non credeva a lui e agli altri indagati (Lotti in testa), ma ai pm di Napoli e ai carabinieri del Noe, e poi in pubblico attaccava i pm di Napoli e i carabinieri del Noe e difendeva babbo Tiziano, Lotti & C., ieri doveva scegliere. E dirci qual è il vero Renzi a cui dobbiamo credere: quello privato o quello pubblico? Invece è riuscito nell’ardua impresa di non scegliere: dovremmo credere sia al Renzi che condanna il padre e assolve gli inquirenti sia al Renzi che assolve il padre e condanna gli inquirenti. Perché lui è un tipo “serio” (e figurarsi se non lo fosse). Dunque, con un gioco di prestigio, tagliuzza e riscrive la telefonata come pare a lui, e aggiunge la solita carrettata di balle.

1. “Mio padre ha conosciuto la giustizia solo dopo che io sono arrivato a Palazzo Chigi”. Giustizia a orologeria, direbbe quell’altro. In realtà Tiziano Renzi non è finito sotto inchiesta perché suo figlio è premier, ma perché una sua società – la Chil Post – è fallita (inchiesta per bancarotta poi archiviata, almeno per lui, a Genova) e perché gli investigatori, indagando su Romeo, hanno scoperto che trafficava con lui e col suo fido Carlo Russo per essere raccomandato alla Consip in cambio di 30 mila euro al mese per “T”. e di 5 mila euro a bimestre per “C.R.”.

2. “Qualcuno si è tolto la vita per le intercettazioni, qualcuno ci ha rimesso il lavoro”. Parla delle Olgettine, che poi B. deve pagare a titolo risarcitorio? Chissà. E ora che fa: abolisce le intercettazioni? Ha la maggioranza, proceda.

3. “La pubblicazione come sempre è illegittima ed è l’ennesima dimostrazione dei rapporti particolari tra alcune procure e alcune redazioni”. Due mesi fa lo stesso Marco Lillo rivelò, nel corso dell’interrogatorio di Virginia Raggi, la notizia segreta delle polizze di Salvatore Romeo: perché Renzi e il Pd non ci diedero dei violatori del segreto, anzi si concentrarono sui fatti e ne chiesero doverosamente conto alla Raggi e a Romeo?

4. La telefonata col padre sarebbe la prova della sua “serietà” di “uomo delle istituzioni”. Mica tanto: un uomo delle istituzioni non imbecca il padre indagato alla vigilia del suo interrogatorio istigandolo a “non dire che c’era mamma (a un ricevimento con Romeo, ndr) altrimenti interrogano anche lei”.

5. “Secondo i magistrati di Napoli Romeo avrebbe dato 30mila euro in nero al mese” a babbo Tiziano, ma a questa “storia non crede nemmeno un bambino di 3 anni”. I pm di Napoli non l’hanno mai detto: sono i pm di Roma che hanno indagato babbo Tiziano a scrivere che “si faceva promettere 30mila euro al mese da Romeo”. La promessa non si tradusse in realtà perché, nel frattempo, papà Tiziano e gli altri protagonisti dello scandalo furono avvertiti delle indagini da alcune talpe istituzionali, tutte vicine a Renzi.

6. Renzi si sarebbe fatto l’idea che papà Tiziano mentiva, negando di aver mai incontrato Romeo, perché “ingenuo come sono, credo a Repubblica che ha intervistato il commercialista del Pd Alfredo Mazzei, il quale raccontava che Romeo gli riferì di una cena segreta con papà Tiziano in una bettola. Ma poi “mio padre mi ribadisce: non c’è stata nessuna cena” e lui capisce che “non c’entra niente, non ha fatto niente, questa storia puzza”. Purtroppo la telefonata è ben diversa. Il babbo esclude cene con Romeo, ma non incontri “al bar”. E Renzi gli dà del bugiardo (“non ti credo… non è credibile che non ricordi di aver incontrato uno come Romeo”), perché sa bene che il punto non è il ristorante, o la bettola, o il bar. Sono gli incontri. Renzi crede a Mazzei perché “è l’unico che conosco anch’io”, non perché è “ingenuo” e si fida di Repubblica. E dà per scontato che almeno un incontro fra Tiziano e Romeo ci sia stato (“Devi dire se hai incontrato Romeo una o più volte”). Siccome Mazzei e il sindaco di Rignano Daniele Lorenzini han messo a verbale che Tiziano incontrò Romeo, non si vede cosa sia cambiato dal 2 marzo per convincere Matteo che “mio padre non ha fatto niente” ed “è entrato in una storia più grande di lui solo per il cognome che porta” e “il mio impegno in politica”.

7. La svolta che azzera i fatti non può essere l’indagine per falso sul capitano Scafarto: lo scambio di persona Romeo-Bocchino per la frase “l’ultima volta che ho visto Renzi” non azzera le testimonianze giurate di Mazzei e Lorenzini. E gli errori o i falsi del capitano sui servizi segreti e il presunto spionaggio anti-Noe non riguardano il ruolo di Tiziano nell’indagine.

8. Renzi si vanta di aver detto al padre di dire “tutta la verità ai pm”. Ma non è così. Che vuol dire “Io non voglio essere preso in giro e tu devi dire la verità in quanto in passato la verità non l’hai detta a Luca e non farmi aggiungere altro”? Chi è Luca, per caso Lotti? E a che titolo parlò con Tiziano? E quando: prima o dopo dello scoop del Fatto che il 22 dicembre rivelò l’indagine? Se prima, è l’ennesima prova che Lotti e Tiziano sapevano dell’inchiesta, e pure Renzi (come racconta Vannoni ai pm e come emerge dall’intercettazione): e chi li aveva informati? Se dopo, in che veste il sottosegretario o ministro indagato Lotti parla con l’indagato Tiziano? Per molto meno, di solito, parte l’accusa di inquinamento di prove. Ma soprattutto: quale bugia Renzi sa che il babbo ha raccontato a Luca? È quanto dovrà spiegare ai pm, se e quando lo convocheranno come testimone.

9.Marco Lillo già in un caso ha preteso di mettere una clausola di riservatezza così da non dire fuori se e quanto ha dovuto pagare: fanno sempre così i teorici della trasparenza altrui”. Lillo non ha dovuto pagare un centesimo a Renzi né ha preteso alcuna clausola di riservatezza. Un giornalista dell’Espresso, ora a Repubblica, nel 2008 scrisse un articolo sulle primarie a Firenze accanto a uno di Lillo. Renzi, presidente della Provincia li querelò. Poi Lillo uscì dall’indagine e vi restò solo il collega: l’Espresso concluse una transazione per il ritiro della querela con clausola di riservatezza che Renzi sottoscrisse e ora ha violato. Ma né Lillo né il Fatto c’entrano nulla: perciò Renzi sarà querelato.

10. Il Renzi della telefonata, a parte l’imbeccata sulla madre, ci piaceva un sacco: inflessibile, logico, ancorato ai fatti, conscio della gravità giudiziaria, etica e politica dello scandalo Consip e delle bugie paterne, quasi un giustizialista e un socio onorario del Fatto. Ma ieri purtroppo non ha retto, è stato più forte di lui. Chi mente in pubblico e viene scoperto a dire la verità in privato, ha due strade: o ammette la sua menzogna, chiedere scusa e andare avanti; o continua a mentire per coprire le menzogne precedenti. Renzi, purtroppo, ha scelto la seconda opzione. E si è condannato a mentire sempre, all’infinito, in saecula saeculorum. Una prece.