"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."
Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).
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mercoledì 31 maggio 2017
martedì 30 maggio 2017
I partiti senza idee e il ritorno alla palude
Nel
confronto di queste settimane sulla riforma elettorale e sulla data del voto, manca
sempre qualcosa. Il dibattito si presenta amputato. Privato di quel nucleo
essenziale che dovrebbe dare anima e sostanza a tutte le forze politiche. Quali
sono gli obiettivi? Cosa intendono fare dopo le urne? Semplicemente qual è il
loro programma? Non c'è nulla di tutto questo. Sembra quasi che nel tempo della
transizione i partiti si sentano dispensati dall'obbligo di comunicare agli
elettori i loro propositi e abbiano deciso di regredire in una sorta di
immaturità permanente.
Non si
spiega altrimenti quel che sta accadendo in Parlamento. I quattro principali
partiti - Pd, M5s, Forza Italia e Lega - si stanno mettendo d'accordo per
approvare una legge che ricalca il modello proporzionale tedesco. È doveroso
che una democrazia abbia un sistema elettorale degno di questo nome. E l'Italia
non ce l'ha. Ma non è solo questo in discussione. Il vero nodo si concentra nel
motivo per cui queste quattro forze politiche lo scelgono: l'impotenza.
Negli ultimi
ventitré anni, uno schema sostanzialmente maggioritario ha costretto tutti a
misurarsi con le richieste dei cittadini e a presentare loro le idee, le linee
di un futuro governo. A esporre la loro natura. Adesso succede il contrario. In
una sorta di ritorno al "pentapartito" della Prima Repubblica, tutto
si rinvia a dopo. In un enorme bacino dell'indistinto. Il cui pericolo più
concreto prende la forma di una nuova palude in cui ogni mossa sarà frenata
dalla melma. Del resto ignorare che il sistema politico italiano non è quello
di Berlino non può che portare a queste conclusioni. In Germania ci sono due grandi
partiti, una leader riconosciuta, Angela Merkel, e il fronte populista non
supera mai la soglia del 10%. In Italia la vera guida è la frammentazione e la
protesta populista nei sondaggi arriva al 40%.
Basta allora
osservare la traiettoria assunta dal Pd di Renzi. Un partito nato sulla
vocazione maggioritaria, appare preoccupato soprattutto di ritornare al voto
per dimostrare a se stesso che la sconfitta del 4 dicembre (la principale causa
delle attuali distorsioni) è stata solo un incidente di percorso. Ma il leader
democratico non chiarisce quali siano le sue finalità. Come intende governare
il Paese. Non riesce a delineare i confini ideali del suo partito. Non può
farlo. Non può presentare il suo programma reale. Perché sa che nel migliore
dei casi - dopo il voto - dovrà allearsi con il partito di Silvio Berlusconi.
Con il partito che il Pd ha combattuto per 20 anni e con il quale non dovrebbe
condividire nulla dal punto di vista dei contenuti. Il Partito democratico
avrebbe l'obbligo di rilanciare almeno un istintivo riformismo, ma è
paralizzato nell'impossibilità di aggiornare il suo profilo. Anzi il ritorno
alla proporzionale lo sta inconsapevolmente modificando. E questa mutazione
riguarda anche gli "scissionisti" del Pd, appagati dalla speranza della
sconfitta renziana.
Lo stesso
riguarda Forza Italia. Berlusconi però si crogiola nella speranza di recuperare
centralità senza avere più i consensi di un tempo. E senza nemmeno rinverdire
gli onirici proclami mai realizzati.
Il paradosso si raggiunge con i grillini e i leghisti. Il Movimento5Stelle si
sta rintanando in una posizione meramente speculativa. La paura di governare -
esplosa con i disastri della giunta Raggi a Roma - spinge l'ex comico ad
accettare il bottino di parlamentari che conquisterà in autunno (se davvero si
voterà in autunno). Si rintana nella sua identità primordiale: quella del
vaffa. Sapendo - o sperando - che se nascerà il governissimo Renzi-Berlusconi
potrà ricominciare a sparare contro tutto e tutti. Senza bisogno di spiegare
agli italiani cosa vogliano davvero fare per il Paese. Come può cambiare. Come
affrontare la crisi dell'Unione europea e il rapporto con Trump. Come rimettere
in ordine i conti dello Stato o abbassare il tasso di disoccupazione. Solo
slogan inattuabili. In perfetto spirito populista. Seguito a ruota dalla Lega
di Salvini già pronta a denunciare gli "inciuci". Non si tratta
quindi di un novello patto del Nazareno, ma di un'intesa per la sopravvivenza
che coinvolge tutti e quattro. Assecondando così il sentimento provato da molti
elettori e che Zygmunt Bauman spiegava in questi termini: "Per una grande
maggioranza di cittadini l'idea di contribuire a indirizzare il corso degli
eventi raramente è considerata credibile".
Il ritorno
alla Prima Repubblica e il tempo della immaturità portano dunque tutti questi
"doni". Le classi dirigenti di questo Paese, a cominciare dai partiti
che sostengono con distrazione il governo Gentiloni, dovrebbero allora
riflettere prima di fare un passo indietro. Utilizzino il tempo rimanente per
tentare ancora una legge elettorale che stabilisca maggioranze certe e
omogenee. E soprattutto facciano ora quello che poi non si potrà più fare. Oggi
su Repubblica Liana Milella e Lavinia Rivara spiegano bene quanti
provvedimenti fondamentali e civili siano ancora all'esame del Parlamento.
Impieghino le loro energie per approvarli. E si concentrino sulla prossima
legge di Stabilità senza escogitare barocchi artifici. E soprattutto evitando
di esporci al baratro dell'esercizio provvisorio e della speculazione
finanziaria.
Claudio Tito (La Repubblica - 30 maggio 2017)
sabato 27 maggio 2017
Il totalitarismo dell'odio è anche nostro
Molti giornali hanno pubblicato in prima pagina la fotografia di Saffie
Rose Roussos la più piccola delle vittime (8 anni) della strage di Manchester.
Uccidere dei bambini è una cosa orribile, ma strumentalizzarli è qualcosa che
sta solo un paio di gradini sotto. Nella prima guerra del Golfo furono uccisi
dai bombardieri americani e della Nato 32.195 bambini, dati inoppugnabili
perché forniti, sia pur involontariamente, dal Pentagono. Se dovessimo stare
nella stessa logica i giornali occidentali dovrebbero pubblicare ogni giorno,
per riparazione, la fotografia di uno di questi piccoli, cioè almeno per una
decina di anni. Non è che i bambini degli altri sono diversi dai nostri, se non
per qualche caratteristica fisica (i bambini dei paesi musulmani, i piccoli
Alì, sono in genere tutti riccioluti).
Sul Corriere della Sera Cazzullo si chiede “quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto”. Nessuna, ovviamente. Ma quale responsabilità potevano portare i bambini uccisi a Baghdad e a Bassora e le altre decine di migliaia uccisi dai bombardieri americani e Nato in Afghanistan, in Iraq, in Libia?
Certo, in questi macabri conteggi, c’è un’indubbia differenza fra i bambini uccisi a Manchester e i bambini uccisi dai bombardieri americani e Nato. L’attentatore jihadista di Manchester e i suoi complici (perché tutto fa pensare che questa volta non si tratti di un ‘lupo solitario’ ma di una cellula incistata sul suolo britannico) non solo sapevano che avrebbero ucciso dei bambini ma volevano uccidere dei bambini. I piloti, e anche i non piloti nel caso dei droni, americani e Nato non volevano premeditatamente uccidere dei bambini, anche se sapevano che li avrebbero inevitabilmente uccisi e in una misura molto maggiore di quella che può fare un kamikaze. Gli jihadisti non fanno differenze. Noi occidentali qualche differenza la facciamo ancora. In questa orribile ‘guerra asimmetrica’ c’è in questa differenza il solo punto di vantaggio a nostro favore, sul piano morale, rispetto alla jihad.
Sul Foglio Giuliano Ferrara, questo acrobata professionale nel manipolare i fatti, scrive: “Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati… E noi, invece di esportare con una violenza incomparabilmente superiore alla loro l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace, invece di rispettare il loro progetto distruggendone le radici sociali e politiche dove risiedono, noi a baloccarci, a piangerci addosso, a ricusare la violenza e l’odio”. Ferrara riprende in toto, quasi aggravandola, la teoria di George W. Bush: esportare la democrazia con la violenza. Questo irresponsabile individuo sembra non rendersi conto, non so se volutamente o meno, che proprio da questa esportazione violenta della democrazia, in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia e in Libia, è nata la guerra che oggi ci contrappone non solo all’Isis ma, sia pure in forme diverse, all’intero mondo musulmano e anche a quei pochi altri mondi che ci sono restati estranei. Gli effetti devastanti, sia nelle terre arabe che nelle nostre, della ‘teoria Bush’ sono sotto gli occhi di tutti. Ma non di quelli di Ferrara. Che, pare capire (“con una violenza incomparabilmente superiore”), non sarebbe alieno da gettare qualche atomica sul “mondo della violenza e dell’odio”.
Mi piacerebbe anche capire come “l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace” si concili, per fare un esempio recente, con le armi che Trump si appresta a fornire nella misura di 120 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, secondo l’accordo firmato l’altro giorno a Riad.
Questo totalitarismo della violenza, dell’odio, dell’orrore non appartiene solo agli jihadisti, appartiene anche a noi. Anzi siamo stati proprio noi, ubbriacati e resi irresponsabili dalla nostra apparente superiorità militare, a provocarlo.
Sul Corriere della Sera Cazzullo si chiede “quale responsabilità possono portare i ragazzi che vanno a un concerto”. Nessuna, ovviamente. Ma quale responsabilità potevano portare i bambini uccisi a Baghdad e a Bassora e le altre decine di migliaia uccisi dai bombardieri americani e Nato in Afghanistan, in Iraq, in Libia?
Certo, in questi macabri conteggi, c’è un’indubbia differenza fra i bambini uccisi a Manchester e i bambini uccisi dai bombardieri americani e Nato. L’attentatore jihadista di Manchester e i suoi complici (perché tutto fa pensare che questa volta non si tratti di un ‘lupo solitario’ ma di una cellula incistata sul suolo britannico) non solo sapevano che avrebbero ucciso dei bambini ma volevano uccidere dei bambini. I piloti, e anche i non piloti nel caso dei droni, americani e Nato non volevano premeditatamente uccidere dei bambini, anche se sapevano che li avrebbero inevitabilmente uccisi e in una misura molto maggiore di quella che può fare un kamikaze. Gli jihadisti non fanno differenze. Noi occidentali qualche differenza la facciamo ancora. In questa orribile ‘guerra asimmetrica’ c’è in questa differenza il solo punto di vantaggio a nostro favore, sul piano morale, rispetto alla jihad.
Sul Foglio Giuliano Ferrara, questo acrobata professionale nel manipolare i fatti, scrive: “Attaccare, per non essere attaccati. Annientare, per non essere annientati… E noi, invece di esportare con una violenza incomparabilmente superiore alla loro l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace, invece di rispettare il loro progetto distruggendone le radici sociali e politiche dove risiedono, noi a baloccarci, a piangerci addosso, a ricusare la violenza e l’odio”. Ferrara riprende in toto, quasi aggravandola, la teoria di George W. Bush: esportare la democrazia con la violenza. Questo irresponsabile individuo sembra non rendersi conto, non so se volutamente o meno, che proprio da questa esportazione violenta della democrazia, in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Somalia e in Libia, è nata la guerra che oggi ci contrappone non solo all’Isis ma, sia pure in forme diverse, all’intero mondo musulmano e anche a quei pochi altri mondi che ci sono restati estranei. Gli effetti devastanti, sia nelle terre arabe che nelle nostre, della ‘teoria Bush’ sono sotto gli occhi di tutti. Ma non di quelli di Ferrara. Che, pare capire (“con una violenza incomparabilmente superiore”), non sarebbe alieno da gettare qualche atomica sul “mondo della violenza e dell’odio”.
Mi piacerebbe anche capire come “l’unico modo di vita che preveda la possibilità della pace” si concili, per fare un esempio recente, con le armi che Trump si appresta a fornire nella misura di 120 miliardi di dollari all’Arabia Saudita, secondo l’accordo firmato l’altro giorno a Riad.
Questo totalitarismo della violenza, dell’odio, dell’orrore non appartiene solo agli jihadisti, appartiene anche a noi. Anzi siamo stati proprio noi, ubbriacati e resi irresponsabili dalla nostra apparente superiorità militare, a provocarlo.
mercoledì 24 maggio 2017
Falcone voleva vivere e i suoi nemici non erano solo i mafiosi
«Per essere credibili bisogna essere ammazzati in
questo Paese». Così Giovanni Falcone rispose in tv a una ragazza che gli
chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei
fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?». Erano i giorni in cui
girava voce che l’attentato all’Addaura (fu trovata una borsa di tritolo sulla
scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare
carriera, perché la mafia non sbaglia, se vuole uccidere uccide.
A ogni commemorazione della strage di Capaci, non
posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa
è la stessa, se non peggiore: solo sui cadaveri gli italiani riescono a
esprimere una solidarietà e un’empatia disinteressate. A chi si preoccupava
perché fumasse troppo, Falcone rispondeva: «Non mi uccideranno le sigarette».
Sembra un dettaglio futile, ma la storia di Giovanni Falcone dobbiamo
raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i
puntini dei dettagli futili. E dettagli futili sono il veleno quotidiano e le
accuse che a Falcone venivano rivolte da colleghi magistrati e da giornalisti
per come lavorava e comunicava. Falcone innovatore del diritto, Falcone
magistrato che dava una solidità tale alle sue inchieste da superare la più
difficile delle prove, la verifica dibattimentale, possedeva doti preziose ma
solo in astratto. Per queste doti — innovazione e rigore — Falcone in vita fu
considerato magistrato poco ortodosso e insabbiatore. Odiato, ostacolato,
disprezzato, esposto alla pubblica disapprovazione e isolato e non, come la
storiografia ufficiale ci tramanda, apprezzato, rispettato, appoggiato. Questo
è il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone,
perpetrare la menzogna di un talento riconosciuto, di un magistrato che ha
lavorato con il sostegno dei colleghi e dell’opinione pubblica. Queste mie
parole suoneranno odiose e vogliono esserlo perché per capire il Paese che
siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo
dobbiamo studiare ciò che è stato fatto a Falcone in vita.
Potrebbe sembrare, a un giovane lettore, che Falcone
sia stato l’uomo giusto, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli
uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così. La sintesi di
ciò che Falcone ha dovuto subire l’ha fatta, a dieci anni da Capaci, Ilda
Boccassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il suo metodo
investigativo: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua
vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia
stata tradita con più determinazione e malignità». Bocciato come consigliere
istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e — continua
Boccassini — sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia,
se non fosse stato ucciso.
Uno dei motori principali dell’ostilità continua verso
Falcone è stato il meno citato in questi anni ed è il più abietto dei
sentimenti: l’invidia. Non sembri un’esagerazione, non è una mia idea, perché
questa parola — invidia — è nero su bianco in una sentenza della Corte di
Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è
alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di
strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di
invidia e gelosia”. Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo
tanto esposto? Si poteva eccome, non riuscendo a eguagliare il suo rigore e il
suo talento, si arrivava a detestarlo, a cercare di ostacolarlo. E soprattutto
risultava insopportabile a una parte importante del giornalismo e della
magistratura che lui avesse l’ambizione di raggiungere ruoli di vertice per
trasformare la realtà. Meglio farlo passare per un ambizioso affamato di potere
e di pubblicità. Sapete come lo attaccavano? Esattamente con le stesse parole
con cui oggi gli haters riempirebbero i social. Falcon Crest, il giudice
abbronzato, il guitto televisivo, l’amico dei socialisti, l’uomo che usa la
mafia a favore delle telecamere. Sino alle insinuazioni “se è in vita è perché
lo ha permesso Cosa Nostra” ai cui affiliati viene così attribuito potere
assoluto di vita e di morte. Una sorta di omaggio, più o meno inconsapevole,
alla mafia da chi credeva, diceva o fingeva di volerla combattere. E Falcone,
che abbiamo visto rispondere in televisione, non riusciva fino in fondo a
credere possibile di doversi scusare per essere ancora in vita.
Giovanni Bianconi, nel suo libro L’assedio, mette in
fila tutte le vili accuse e le diffamazioni possibili di cui Falcone fu oggetto
e parla di una vita passata a combattere la mafia e a difendersi da tutto il
resto. Falcone aveva contro i mafiosi, chi non riusciva come lui a combattere i
mafiosi, e chi stava a guardare come una corrida chi vincesse tra lui e la
mafia. E Cosa Nostra era lì a osservare il progressivo isolamento, ad aspettare
il momento giusto per colpire. Falcone viene ucciso da direttore degli Affari
Penali, mentre lavora a Roma alla costruzione della Superprocura voluta da
Martelli. Quando Cosa Nostra decide di eliminarlo, manda un commando nella
Capitale che sarà definito simbolicamente la Supercosa, nata per contrastare la
Superprocura. Ma Bianconi scrive che Falcone a Roma è tranquillo e
all’inquietudine di un amico che si preoccupa per lui risponde: «Qui sono
libero di fare quasi la vita che voglio, non rischio nulla. È in Sicilia che
sono un morto che cammina».
lcone prima e Borsellino poi sapevano di avere il
destino segnato, eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e
interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia
indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati,
poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo
stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla
morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio.
Giovanni Falcone voleva vivere. Paolo Borsellino voleva vivere. Nessuna
vocazione da parte loro al martirio, tutt’altro.
Mi capita di paragonarli a Giordano Bruno perché anche
Bruno voleva vivere e quindi credendo di potersi salvare decise di abiurare.
Bruno abiura più d’una volta, ma all’inquisizione non basta che taccia, che
ometta, che ragioni da filosofo. L’inquisizione vuole delegittimare quello che
ha scritto, verità etiche che l’uomo non può negare perché se le negasse
smetterebbero di esistere. Non si tratta di negare il moto della Terra che è un
dato fisico e, per quanto lo si neghi, vero. Negare verità etiche significa
cancellarle. Nel teatro dell’inquisizione Bruno ha creduto di poter recitare la
parte di colui che si pente, fino a quando non capisce che la posta in gioco è
troppo alta, molto più alta della sua stessa vita. Anche Falcone e Borsellino
sono stati costretti a difendere la verità del loro lavoro con il sacrificio,
un sacrificio che non poteva essere pubblicamente rivendicato perché adesso
come venticinque anni fa la delegittimazione è percepita come autentica, più
autentica di ogni legittima difesa. Buonisti li chiamerebbero oggi, di quelli
che senza prove certe non lanciano dardi, nemmeno contro un nemico infame come
la mafia.
Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi
altri, hanno combattuto contro il può feroce dei nemici sapendo che a loro non
era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse
disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il
diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe
evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che
vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a
qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via.
Roberto Saviano (La Repubblica - 23 maggio 2017)
martedì 23 maggio 2017
Lettera a Giovanni Falcone
Dottore Falcone, venga, si accomodi,
scusi il disordine, il caffè è già sul fuoco! Le ho raccolto due gelsi
dall’albero, quest’anno è carico, stracolmo! Mi deve perdonare se
l’accolgo in pigiama ma so che, per questo 25° anniversario, di gente in
grande spolvero, ne vedrà tanta.
Ieri, allo svincolo di Capaci, in quel
tratto che fu oleandri e lamiera, ho visto sventolare bandiere nuove;
alcuni operai stavano allestendo un palchetto per le Autorità
all’altezza del cunicolo che imbottirono di tritolo quella primavera,
solo che questi uomini, ieri mattina, li ho visti distintamente… quelli
invece…non li vide nessuno…
Mi trova dunque in abiti di casa, le persone
come me ci tengono a non confondersi con quelli che si presenteranno
con l’espressione blu-istituzionale e la camicia bianco-legalità. Come
se Lei non lo sapesse poi che, sotto a quegli abiti, ci sono sempre le
stesse scarpe! Quelle che a certuni, tra una retata e un’altra, ci
vengono strette!!!
Non so se ha saputo di quest’ultima inchiesta sulla
corruzione a Trapani! Scoperta l’ennesima rete di rapporti con politici
di un certo polso e di una certa cilindrata – Rolex e Mercedes per
l’esattezza – che avrebbe favorito un imprenditore locale del settore
marittimo. Peccato per loro che una dirigente regionale abbia informato
la Procura dell’ennesimo sistema di pressioni e favoritismi e che nella
rete dei magistrati ci siano finiti tutti a beccafico, corruttori e
corrotti!
Poi per carità, la prudenza è d’obbligo e qui c’è in gioco
l’indotto delle feste a Panarea ma non mi stupirei se l’unico a pagare
le spese di questa storia fosse il povero passeggero Ulisse, spesso
fermo in una banchina a scrivere quell’Odissea che è raggiungere le
Eolie e le Egadi per chi ci abita!
Tuttavia dottore Falcone, facciamolo
un plauso alla dirigente regionale che ci ha dimostrato che, per quanto
la miopia continui ad affliggere fortemente i siciliani, di cataratta
(almeno di quella) possiamo guarire!
Vogliamo parlare del teatrino Pif –
Crocetta sui disabili? O Lei si schifiò come ‘a ‘mmia e per paladini
della legalità ci teniamo Orlando e Rinaldo, che forse è meglio? Anche
perché del paladino Maniaci Pino e della bella “Angelica” Saguto più
niente si è saputo!
Dottore Falcone l’ha vista la nuova serie? Quella
del Commissario Maltese? Una “Piovra” di seconda mano, un incrocio tra
Lei e il Commissario Cattani, che dopo aver assistito ai traffici
mafia-politica all’aeroporto di Birgi, scopre che il più pulito degli
uomini dello Stato ha la rogna. Quando lo sappiamo tutti che, in questa
terra, la realtà supera sempre la fiction. E di gran lunga.
Modestamente, senza pagare il canone in bolletta noi c’abbiamo… Il
signor Fazio, quello delle note cantine, che avrebbe favorito gli
intrallazzi di Ustica Lines; Il signor Scelta, manager delll’aeroporto
di Palermo, che smaltiti cannoli e bustarelle, invece di preoccuparsi di
chi pilota gli aerei avrebbe pilotato gli appalti per il restyling
dell’aerostazione; Il signor Fiumefreddo, manager dell’esattoria
regionale, che consegna su un vassoio d’argento denunce di corruzione ed
evasione fiscale a politici eminenti in diretta nazionale!
Dottore
Falcone, mi dica Lei se io, con un cast d’eccezione come questo, non lo
faccio il triplo dello share del Commissario Maltese!!! E comunque.
Quest’anno non posso dirle molto altro, ché siamo in campagna elettorale
e qui si deve convincere la gente che il cambiamento è vicino.
Noterà
che i candidati alla guida di Palazzo delle Aquile, non hanno quella
naturale sfrontatezza con la quale Ciancimino, ai tempi suoi, consegnò
la città alla mafia. Ma, stia tranquillo, che anche questa volta
possiamo confidare in qualche strappo al piano regolatore, su una buona
parola alla formazione, su un accordo per la gestione dei rifiuti, sul
progetto “Pastafrolla”, finanziato dalla Comunità Europea, per il
ripristino di strade e autostrade e soprattutto su un servizio capillare
di rifornimenti di cocaina a domicilio, ché i professionisti a Palermo
sono molto impegnati e non ne hanno, tempo di fare la spesa!
Dottore
Falcone – badi bene – nessuno di noi ha mai creduto che la mafia uccida
solo d’estate, né che sia stata decapitata. Ha visto stamattina in via
D’Ossuna? Lo sappiamo bene, in cuor nostro, che rimane un cancro
inoperabile e che il 41 bis non è che la sua chemioterapia, in qualche
modo ti fa sperare di sconfiggerlo ma nulla può, fino in fondo, contro
le sue metastasi.
Dottore Falcone, si accenda la sua sigaretta e mi
ascolti, che però una cosa bella ogni tanto gliela voglio dire!
L’ho
vista per la prima volta quest’anno, passeggiando per le strade di
questa Capitale della Cultura che le ha dato i natali, l’ho sentita
nelle parole nuove della gente, l’ho incrociata negli occhi incantati di
migliaia di turisti, l’ho maturata nella mano tesa di un siciliano
verso un migrante, l’ho toccata nel gesto di un bambino che buttava la
carta delle patatine nella spazzatura, l’ho ascoltata al Teatro Massimo,
l’ho incontrata nel tram col biglietto obliterato, l’ho letta negli
scritti social dei miei concittadini, me l’hanno rimandata gli oleandri a
Capaci, l’ho avvertita nella dignità di chi non si piega e denuncia,
l’ho ammirata nel senso delle istituzioni del dottore Di Matteo e la
sento, presente, mentre torno a consegnarle nuovamente il grazie della
sua terra.
Ci stiamo rialzando dottore Falcone! Da soli. Spontaneamente,
e in tanti. E’ per questo che abbiamo di nuovo motivo di temere.
Ma non
siamo più disposti a farci pestare come i gelsi che cadono dagli alberi
a primavera. Per questo glieli ho raccolti, perché, per una volta, le
rimanga in bocca il sapore dell’onestà, della gratitudine per
quell’esempio e il gusto pieno di un orgoglio ritrovato.
Con tutto il
rispetto per l’anniversario blindato in mondovisione, credo che non
potessimo scegliere per Lei, per Francesca, per Antonio, per Rocco e per
Vito, bomboniera più bella di questa.
Alessia Randazzo (http://www.telejato.it/home/cultura/lettera-a-giovanni-falcone-2/)
lunedì 22 maggio 2017
Ora Berlusconi si appropria di Giovanni Falcone
Si avvicina il XXV anniversario della strage di Capaci che causò la morte di Giovanni Falcone. Inesorabile, comincia l’appropriazione indebita della sua figura. Silvio Berlusconi, in una lunga intervista del 15 maggio al direttore del Foglio, non ha resistito alla tentazione. E si è prodotto in alcune sorprendenti affermazioni.
Sostiene B., ad esempio, che “Falcone è il simbolo di come dovrebbe essere un magistrato”. Sembrava invece che le sue preferenze volgessero verso i giudici come Vittorio Metta, quello del lodo Mondadori.
Sostiene ancora B. che “al pensiero di Falcone si ispirano molte delle
nostre idee sulla giustizia”. Ma non risulta da nessuna parte che
Falcone fosse un sostenitore delle leggi ad personam e men che mai un fanatico assertore della difesa non solo “nel” ma “dal” processo. Quanto poi all’idea della “separazione delle carriere” che B. attribuisce a Falcone, spiace rilevare che il magistrato parlava di separazione delle funzioni, cosa ben diversa. Un “uomo libero” come lui (così con ragione lo definisce B.) non poteva accettare un pm dipendente dal potere esecutivo, ciò che invece logicamente e inevitabilmente consegue ovunque vi sia separazione delle carriere.
Secondo B. quello di Falcone è stato “uno strano destino”, perché è diventato “un’icona della sinistra giustizialista,
esattamente quella che da vivo lo combatté in ogni modo”, per
“bloccarne la nomina alla Superprocura Antimafia”. Senonché, il modo
decisamente più aspro e selvaggio per combattere Falcone su questo
versante fu quello escogitato dal Giornale di Napoli diretto da Lino Jannuzzi, che in un articolo ... definì Falcone e De Gennaro
(rispettivamente candidati alla Pna e alla Dia) “i maggiori
responsabili della débâcle dello Stato di fronte alla mafia… una coppia
la cui strategia, passati i primi momenti di ubriacatura per il
pentitismo e i maxi-processi, ha approdato al più completo fallimento”.
Addirittura i protagonisti della lotta alla mafia
vengono accomunati ai mafiosi: “Da oggi, o da domani, dovremo guardarci
da due ‘Cosa Nostra’, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta
per insediarsi a Roma. E sarà prudente tenere a portata di mano il
passaporto”. E questo Jannuzzi è lo stesso – proprio lo stesso – che
diventerà senatore nella XIV e XV Legislatura, sempre sotto le insegne
berlusconiane.
E non è tutto. Una furiosa campagna di stampa si era scatenata negli anni Ottanta contro Falcone e il maxi-processo, il capolavoro investigativo-giudiziario che stava producendo l’inedito risultato di porre fine alla vergognosa impunità di Cosa Nostra. Dal diluvio di insinuazioni e accuse, ecco alcune “perle”. L’attacco si indirizza dapprima contro i “pentiti”, definiti “avanzi di cosca”, “arnesi processuali di epoche lontane e oscure”.
Si sostiene che “il pentitismo meritava un uso più intelligente” e che
“l’apparato giudiziario non è stato all’altezza della straordinaria
occasione” (così Salvatore Scarpino sul Giornale nel 1987). I processi di mafia
vengono definiti “messinscene dimostrative, destinate a polverizzarsi
sotto i colpi di quel po’ che è rimasto dello Stato di diritto”,
“montature” allestite dai “registi del grande spettacolo della lotta
alla mafia”. E ci si chiede “se è stato opportuno seguire la strada dei
maxi-processi, estremamente utili ai fini spettacolari, ma dannosi ai
fini di giustizia” (così Guido Lo Porto sul Giornale di Sicilia – 1987).
I giudici del pool vengono sostanzialmente accusati di collateralismo
con i “comunisti”, che “mirano a controllare l’antimafia e appoggiano a
spada tratta i magistrati-personaggio della cordata Falcone” (così Marco Ventura sul Giornale nel 1988). Il maxi-processo viene definito un “un processo-contenitore abnorme…
un meccanismo spacciato come giuridico”, ma utilizzato ad altri fini
“dai giudici capitanati da Falcone”. I quali vengono indicati come
artefici di un “ormai diffuso clima maccartista” a Palermo, per cui
costituirebbero “un lampante pericolo non solo di condizionamento
giuridico ma ancor più di condizionamento politico” (così Ombretta
Fumagalli Carulli sul Giornale nel 1988).
Come si vede, nel florilegio di citazioni compare spesso il quotidiano dal 1979
proprietà della famiglia Berlusconi. Mentre Lo Porto e la Fumagalli
come parlamentari faranno poi parte della maggioranza berlusconiana. Lo
Porto diverrà anche sottosegretario alla Difesa nel governo Berlusconi nel 1994.
E ciò dopo che la furibonda campagna contro Falcone lo aveva azzoppato,
cancellando il pool e azzerandone il metodo di lavoro vincente. Dunque,
davvero uno strano destino quello di Falcone: ma non nel senso teorizzato da Berlusconi.
Gian Carlo Caselli (Il Fatto Quotidiano - 18 maggio 2017)
America: un 'faro di civiltà'. Spento
E’
la prima volta nella storia, ormai nemmeno più così breve, degli Stati
Uniti che un Presidente regolarmente eletto non viene accettato a priori
da tutti gli americani. Trump lo ha detto: “Nessun politico nella
storia, e lo affermo con grande sicurezza, è stato trattato peggio di
me”. Nei casi precedenti di impeachment o di possibile impeachment ciò
era avvenuto, dopo anni, per azioni ritenute scorrette da parte del
Presidente.
Richard Nixon, che peraltro diede le dimissioni prima che fosse nemmeno iniziata una procedura di impeachment, e che, a mio avviso, lo dico di passata, è stato il miglior presidente del dopoguerra (aprì alla Cina con decenni di anticipo, mise fine all’ipocrisia del Gold Enchanted Standard, non aveva, a differenza del celebratissimo Kennedy, rapporti con la mafia né c’erano ombre sul suo passato) fu impallinato da un’inchiesta giornalistica, il famoso ‘caso Watergate’ che rivelò che aveva spiato illegalmente gli avversari del partito democratico. Nixon diede le dimissioni, senza nemmeno provare a difendersi, con la motivazione che gli interessi dell’America dovevano prevalere, senza se e senza ma, sui suoi.
Richard Nixon, che peraltro diede le dimissioni prima che fosse nemmeno iniziata una procedura di impeachment, e che, a mio avviso, lo dico di passata, è stato il miglior presidente del dopoguerra (aprì alla Cina con decenni di anticipo, mise fine all’ipocrisia del Gold Enchanted Standard, non aveva, a differenza del celebratissimo Kennedy, rapporti con la mafia né c’erano ombre sul suo passato) fu impallinato da un’inchiesta giornalistica, il famoso ‘caso Watergate’ che rivelò che aveva spiato illegalmente gli avversari del partito democratico. Nixon diede le dimissioni, senza nemmeno provare a difendersi, con la motivazione che gli interessi dell’America dovevano prevalere, senza se e senza ma, sui suoi.
Con
Trump si è cominciato fin da subito, fin dal primo giorno della sua
elezione. Ciò, a mio parere, è uno dei segni dei profondi mutamenti che
stanno avvenendo nel popolo americano. Gli americani, proprio a cagione
della loro storia di transfughi, sono sempre stati nazionalisti, anzi
ipernazionalisti, e hanno sempre avuto un profondo senso dell’unione
della loro comunità. Al di là delle differenze, per noi europei quasi
impalpabili, fra democratici e repubblicani l’America e la sua
compattezza era sempre first cioè al primo posto.
Anni
fa mi trovavo in un locale, mi pare si chiamasse Finnegan, dove si
salutavano due giovani yankee che stavano partendo per l’Irlanda per
unirsi all’Ira. L’atmosfera era incandescente e, al limite, quasi
rivoluzionaria. Ma alla fine, con mia sorpresa, tutti, compresi i due
giovani, si alzarono in piedi e intonarono l’inno nazionale americano.
Secondo
me la vittoria nella seconda guerra mondiale non ha fatto bene agli
americani. Prima potevano essere considerati, legittimamente, il faro
delle democrazie occidentali. Il Premio Nobel per la pace dato nel 1919
al presidente Thomas Woodrow Wilson era ben meritato e niente affatto
fasullo come sarebbero stati altri Nobel del genere assegnati nei
decenni successivi, perché Wilson fu l’ispiratore, durante la conferenza
di Parigi del 1919, della Società delle Nazioni che era un tentativo di
pacificazione universale, attraverso una organizzazione che unisse
tutti gli stati del mondo, e che è il precedente a cui si è ispirata la
fondazione dell’Onu dell’ottobre del 1945.
Con
la vittoria nella seconda guerra mondiale la politica estera degli
Stati Uniti, che fra le altre cose, a differenza degli europei, non
erano mai stati colonialisti, diventa estremamente aggressiva.
Prima con la guerra del Vietnam e poi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in un crescendo parossistico con le aggressioni alla Serbia, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Somalia, alla Libia. Così l’America da nazione sostanzialmente pacifica, o almeno pacifista, diventa guerrafondaia.
Prima con la guerra del Vietnam e poi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, in un crescendo parossistico con le aggressioni alla Serbia, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Somalia, alla Libia. Così l’America da nazione sostanzialmente pacifica, o almeno pacifista, diventa guerrafondaia.
Un
altro segno dei cambiamenti avvenuti in America è il trattamento dei
prigionieri di guerra su cui, a mio parere, si misura, almeno in parte,
la civiltà di una comunità. I soldati italiani, e quindi di un Paese
fascista, che sono stati prigionieri negli Stati Uniti furono trattati
con tutti i riguardi. Gaetano Tumiati, lo scrittore, che visse
quell’esperienza, mi raccontava che tutti i suoi compagni consideravano
una fortuna aver fatto la loro prigionia negli Usa. A settant’anni di
distanza le cose sono profondamente cambiate. I prigionieri non sono più
‘prigionieri di guerra’ ma sempre e comunque terroristi di cui si può
fare carne di porco, torturare, umiliare. E’ quanto avvenuto, per
esempio, a Guantanamo con l’ipocrisia che Guantanamo non sta in
territorio americano. E’ quanto avvenuto in Iraq nella prigione di Abu
Ghraib che segna il culmine di questa escalation degradante. Ad Abu
Ghraib non si torturava per avere delle informazioni dai prigionieri,
pratica già in sé inaccettabile ma che può servire a salvare la vita di
altri compatrioti, ma semplicemente per umiliare, senza altra ragione,
il nemico.
Noi,
che siamo notoriamente considerati antiamericani ma non contro il
popolo americano di cui ci piace anche la naivité, ma contro le sue più
recenti edites, scongiuriamo gli americani di ritornare a essere quel
faro di civiltà, che pur fra tante inevitabili contraddizioni, come
l’apartheid, sono stati per tutto il Novecento.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2017)
mercoledì 17 maggio 2017
Vizi privati, pubbliche fake news
Ieri mattina, quando Matteo Renzi ha scritto su Facebook che il Fatto Quotidiano,
“politicamente parlando”, gli aveva “fatto un regalo” pubblicando la
sua telefonata col padre Tiziano, abbiamo tirato un sospiro di
sollievo: finalmente la smetterà di chiamarci “Falso quotidiano”,
finalmente sboccia la pace tra lui e noi, magari ci ringrazierà pure. Poi
purtroppo, inoltrandoci nella lettura, abbiamo scoperto che il nostro prezioso
regalo politico tanto gradito non era: anzi, era “gogna mediatica”
(espressione che ci pare di aver sentito da qualcun altro, ma forse è
solo un’impressione) e “caccia all’uomo” di chi “costruisce scandali”,
“pubblica prove false”, “si inventa di tutto”, roba da affidare agli “avvocati”
per chiederci “un risarcimento danni copioso” e farsi “pagare i mutui della mia
famiglia: perché noi come tutti gli italiani abbiamo i mutui, non le tangenti”
(salvo quando gli appartamenti sono gratis perché li paga Marco Carrai,
come del resto capita a tutti gli italiani).
Bella gratitudine: uno ti fa un regalo e tu lo ripaghi così? Anche
questa schizofrenia ci ricorda qualcuno: un certo B. che, appena
pubblicavamo qualcosa sui suoi scandali, diceva che gli facevamo
guadagnare un sacco di voti, salvo poi chiederci i danni a suon di querele
penali e cause civili. Eppure, per Renzi, era tutto molto semplice. Siccome
abbiamo rivelato che in privato, parlando col padre, non credeva a lui e agli
altri indagati (Lotti in testa), ma ai pm di Napoli e ai
carabinieri del Noe, e poi in pubblico attaccava i pm di Napoli e i carabinieri
del Noe e difendeva babbo Tiziano, Lotti & C., ieri doveva scegliere. E
dirci qual è il vero Renzi a cui dobbiamo credere: quello privato o
quello pubblico? Invece è riuscito nell’ardua impresa di non scegliere:
dovremmo credere sia al Renzi che condanna il padre e assolve gli inquirenti
sia al Renzi che assolve il padre e condanna gli inquirenti. Perché lui è un
tipo “serio” (e figurarsi se non lo fosse). Dunque, con un gioco di
prestigio, tagliuzza e riscrive la telefonata come pare a lui, e aggiunge la
solita carrettata di balle.
1. “Mio padre ha conosciuto la giustizia solo dopo che io sono arrivato a
Palazzo Chigi”. Giustizia a orologeria, direbbe quell’altro. In realtà Tiziano
Renzi non è finito sotto inchiesta perché suo figlio è premier, ma
perché una sua società – la Chil Post – è fallita (inchiesta per bancarotta poi archiviata, almeno
per lui, a Genova) e perché gli investigatori, indagando su Romeo,
hanno scoperto che trafficava con lui e col suo fido Carlo Russo per
essere raccomandato alla Consip in cambio di 30 mila euro al mese per “T”. e di 5 mila euro a bimestre per “C.R.”.
2. “Qualcuno si è tolto la vita per le intercettazioni, qualcuno ci ha
rimesso il lavoro”. Parla delle Olgettine, che poi B. deve pagare a
titolo risarcitorio? Chissà. E ora che fa: abolisce le intercettazioni? Ha la
maggioranza, proceda.
3. “La pubblicazione come sempre è illegittima ed è l’ennesima dimostrazione
dei rapporti particolari tra alcune procure e alcune redazioni”. Due mesi fa lo
stesso Marco Lillo rivelò, nel corso dell’interrogatorio di Virginia
Raggi, la notizia segreta delle polizze di Salvatore
Romeo: perché Renzi e il Pd non ci diedero dei violatori del
segreto, anzi si concentrarono sui fatti e ne chiesero doverosamente conto
alla Raggi e a Romeo?
4. La telefonata col padre sarebbe la prova della sua “serietà” di “uomo
delle istituzioni”. Mica tanto: un uomo delle istituzioni non imbecca il
padre indagato alla vigilia del suo interrogatorio istigandolo a “non dire
che c’era mamma (a un ricevimento con Romeo, ndr) altrimenti
interrogano anche lei”.
5. “Secondo i magistrati di Napoli Romeo avrebbe dato 30mila euro in
nero al mese” a babbo Tiziano, ma a questa “storia non crede nemmeno un bambino
di 3 anni”. I pm di Napoli non l’hanno mai detto: sono i pm di Roma che hanno
indagato babbo Tiziano a scrivere che “si faceva promettere 30mila euro
al mese da Romeo”. La promessa non si tradusse in realtà perché, nel frattempo,
papà Tiziano e gli altri protagonisti dello scandalo furono avvertiti delle
indagini da alcune talpe istituzionali, tutte vicine a Renzi.
6. Renzi si sarebbe fatto l’idea che papà Tiziano mentiva, negando di
aver mai incontrato Romeo, perché “ingenuo come sono, credo a Repubblica”
che ha intervistato il commercialista del
Pd Alfredo Mazzei, il quale raccontava che Romeo gli riferì di una cena
segreta con papà Tiziano in una bettola. Ma poi “mio padre mi ribadisce:
non c’è stata nessuna cena” e lui capisce che “non c’entra niente, non ha fatto
niente, questa storia puzza”. Purtroppo la telefonata è ben diversa. Il
babbo esclude cene con Romeo, ma non incontri “al bar”. E Renzi gli dà
del bugiardo (“non ti credo… non è credibile che non ricordi di aver incontrato
uno come Romeo”), perché sa bene che il punto non è il ristorante, o la
bettola, o il bar. Sono gli incontri. Renzi crede a Mazzei perché “è l’unico
che conosco anch’io”, non perché è “ingenuo” e si fida di Repubblica. E
dà per scontato che almeno un incontro fra Tiziano e Romeo ci sia stato (“Devi
dire se hai incontrato Romeo una o più volte”). Siccome Mazzei e il sindaco di
Rignano Daniele Lorenzini han messo a verbale che Tiziano incontrò
Romeo, non si vede cosa sia cambiato dal 2 marzo per convincere Matteo
che “mio padre non ha fatto niente” ed “è entrato in una storia più grande di
lui solo per il cognome che porta” e “il mio impegno in politica”.
7. La svolta che azzera i fatti non può essere l’indagine per falso sul capitano Scafarto:
lo scambio di persona Romeo-Bocchino per la frase “l’ultima
volta che ho visto Renzi” non azzera le testimonianze giurate di Mazzei e
Lorenzini. E gli errori o i falsi del capitano sui servizi segreti e il
presunto spionaggio anti-Noe non riguardano il ruolo di Tiziano nell’indagine.
8. Renzi si vanta di aver detto al padre di dire “tutta la verità ai pm”. Ma
non è così. Che vuol dire “Io non voglio essere preso in giro e tu devi dire la
verità in quanto in passato la verità non l’hai detta a Luca e non farmi
aggiungere altro”? Chi è Luca, per caso Lotti? E a che titolo parlò con
Tiziano? E quando: prima o dopo dello scoop del Fatto che il 22
dicembre rivelò l’indagine? Se prima, è l’ennesima prova che
Lotti e Tiziano sapevano dell’inchiesta, e pure Renzi (come racconta
Vannoni ai pm e come emerge dall’intercettazione): e chi li aveva informati? Se
dopo, in che veste il sottosegretario o ministro indagato Lotti parla con
l’indagato Tiziano? Per molto meno, di solito, parte l’accusa di inquinamento
di prove. Ma soprattutto: quale bugia Renzi sa che il babbo ha raccontato a Luca?
È quanto dovrà spiegare ai pm, se e quando lo convocheranno come testimone.
9. “Marco Lillo già in un caso ha preteso di mettere una clausola
di riservatezza così da non dire fuori se e quanto ha dovuto pagare: fanno
sempre così i teorici della trasparenza altrui”. Lillo non ha dovuto pagare un
centesimo a Renzi né ha preteso alcuna clausola di riservatezza. Un
giornalista dell’Espresso, ora a Repubblica, nel 2008
scrisse un articolo sulle primarie a Firenze accanto a uno di Lillo. Renzi,
presidente della Provincia li querelò. Poi Lillo uscì dall’indagine e vi
restò solo il collega: l’Espresso concluse una transazione per il ritiro
della querela con clausola di riservatezza che Renzi sottoscrisse e ora ha
violato. Ma né Lillo né il Fatto c’entrano nulla: perciò Renzi sarà
querelato.
10. Il Renzi della telefonata, a parte l’imbeccata sulla
madre, ci piaceva un sacco: inflessibile, logico, ancorato ai fatti, conscio
della gravità giudiziaria, etica e politica dello scandalo Consip e delle bugie
paterne, quasi un giustizialista e un socio onorario del Fatto.
Ma ieri purtroppo non ha retto, è stato più forte di lui. Chi mente in pubblico
e viene scoperto a dire la verità in privato, ha due strade: o ammette la sua
menzogna, chiedere scusa e andare avanti; o continua a mentire per coprire le
menzogne precedenti. Renzi, purtroppo, ha scelto la seconda opzione. E si è
condannato a mentire sempre, all’infinito, in saecula saeculorum.
Una prece.
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano - 17 maggio 2017)
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