giovedì 27 luglio 2017

Ri-mafia Capitale




Tale era il sollievo nell’apprendere dalla sentenza sull’ex Mafia Capitale che mai i mafiosi violarono il sacro suolo del Campidoglio, che l’altroieri i consiglieri di tutti i gruppi (eccetto quello pentastellato della sindaca) hanno disertato l’aula mentre Virginia Raggi insigniva il pm antimafia Nino Di Matteo della cittadinanza onoraria di Roma. Forse per non rendersi complici di uno scempio ben più grave e irreparabile: la profanazione del sacro suolo capitolino da parte dell’antimafia.

Ai tempi del terrorismo, andava di moda – a sinistra – lo slogan “né con lo Stato né con le Br”. Ora è stato sostituito con il più attuale “né con la mafia né con l’antimafia”. Le cittadinanze onorarie si sprecano e spesso lasciano il tempo che trovano. Ma questa era un bel gesto per rompere l’osceno isolamento che circonda Di Matteo e far sentire a casa il magistrato più odiato dalla mafia e più isolato dallo Stato (il fatto che indaghi da anni sulla trattativa Stato-mafia, quella che ora sbuca anche in Calabria in versione Stato-’ndrangheta, è solo una coincidenza), nella città dove si è appena trasferito da Palermo dopo la tanto tormentata e a lungo rinviata promozione alla Procura nazionale antimafia. E il fatto che tutti i gruppi consiliari avessero votato a favore del riconoscimento lasciava sperare che, per un momento, avrebbero lasciato da parte gelosie e ripicche reciproche per unirsi intorno a un servitore dello Stato a cui sono grati tutti i cittadini onesti.

Purtroppo, era una pia illusione: tanto erano stati unanimi i partiti al momento del voto, tanto sono stati unanimi nel disertare l’aula per non applaudire Di Matteo e non farsi fotografare accanto a lui. Nessuno, naturalmente, ammetterà che i motivi della propria assenza sono questi: nella patria di Tartuffe (che non è la Francia di Molière, ma l’Italia dell’eterna trattativa), mancano sia la legalità, sia il comune senso del pudore, sia il coraggio delle proprie azioni. Dunque, tutti si nascondono dietro gli impegni precedentemente presi, le mancate comunicazioni del Cerimoniale, il traffico, la siccità, gli incendi e magari pure – pescando dallo scusario dei Blues Brothers – la gomma a terra, la benzina, la tintoria, il funerale della madre, le cavallette.

Ce ne fosse uno che osa dire la brutale verità: meglio stare alla larga da uno che ha fatto condannare tanti mafiosi e loro amici tipo Cuffaro, incazzare Napolitano e Mancino, rinviare a giudizio Dell’Utri, processare Mori e ancora cerca i complici politico-istituzionali delle stragi del 1992-93 e per questo è stato a sua volta condannato a morte da Riina e Messina Denaro. Tant’è che il ministro dell’Interno non di una procura né dei 5Stelle né del Fatto, ma dei governi Letta e Renzi, e cioè Angelino Alfano, gli fece assegnare la protezione del più eccezionale livello e propose financo di mandarlo in giro per Palermo a bordo di un carro armato Lince (quelli della guerra in Afghanistan). Altre spiegazioni del vuoto che s’è creato attorno a lui ancora l’altroieri in Campidoglio non ce ne sono.

A meno che qualcuno non abbia gradito che i 5Stelle gli abbiano chiesto di fare il ministro nel loro eventuale governo: proposta che il pm non ha accolto né rifiutato, dicendosi non contrario all’impegno politico o tecnico-ministeriale dei magistrati (un viaggio – ha precisato – di sola andata) e riservandosi di valutarlo se e quando si verificassero le condizioni, compatibilmente con i tempi del processo Trattativa che vuole prima portare a termine. Questo ne fa un appestato infrequentabile? Parrebbe proprio di no, visto che negli ultimi 40 anni tutti i partiti della Prima e della Seconda Repubblica (salvo rarissime eccezioni) hanno offerto candidature e/o incarichi a magistrati in servizio, molti dei quali in aspettativa e pronti a reindossare la toga.

Solo dal 1992 a oggi, B. offrì invano ministeri a Di Pietro e a Davigo e seggi parlamentari a Squillante (poi si scoprì il perché), Parenti, Papa (poi arrestato), Centaro, Giuliano, Li Calzi, Miller, Bobbio, Nordio e nominò ministri Mancuso, Frattini e Nitto Palma e sottosegretari Mantovano e Caliendo. Il centrosinistra ha Grasso presidente del Senato e ha portato in Parlamento o al governo da Violante alla Finocchiaro, dalla Ferranti a Tenaglia, da Sinisi a Gerardo D’Ambrosio, da Fassone a Casson, da Amendola ad Ayala, da Imposimato a Manzione, da Ferri a Lo Moro, da Carofiglio a Maritati, da Della Monica a Dambruoso, senza dimenticare i governatori regionali Vito D’Ambrosio e Michele Emiliano. Dal che parrebbe di dedurre che nessun partito, esattamente come Di Matteo, è contrario all’impegno politico dei magistrati. Quindi non è per questo che trattano Di Matteo come un paria.

Restano tre sole spiegazioni possibili: il fatto che a offrirgli un ministero siano i barbari a 5Stelle; o le indagini che ha condotto questo pm in 25 anni di carriera, sempre e soltanto contro Cosa Nostra e i suoi complici esterni, e soprattutto il modo in cui le ha condotte, senza guardare in faccia nessuno, cioè come prescrive la Costituzione; oppure ciò che potrebbe fare se mai un giorno diventasse ministro, e cioè riformare i Codici per realizzare il principio costituzionale scritto e contemporaneamente tradito in tutti i tribunali: “La legge è uguale per tutti”.

È tanto difficile dire la verità? Chi fugge dal Campidoglio per non imbattersi in Di Matteo lo ammetta serenamente, così ce ne faremo tutti una ragione. E gli elettori avranno un quadro chiaro per decidere chi premiare e chi punire nelle urne. Quanto alla Raggi, un consiglio. La prossima cittadinanza onoraria la dia a Marcello Dell’Utri o a Bruno Contrada. Vedrà che l’aula sarà gremita, posti in piedi inclusi.


Video integrale della consegna della cittadinanza onoraria di Roma a Nino Di Matteo: https://www.facebook.com/FabioMassimoCastaldo/videos/1517290834976859/

mercoledì 26 luglio 2017

Fotografia: Giurie, giurati, concorsi e concorrenti.




Da sempre il tema dei concorsi fotografici alimenta discussioni che non avranno mai fine. Così come nel calcio ciascuno ha una sua opinione che reputa veritiera. L’argomento è complesso, controverso e tutti dovremmo essere consci che la soluzione perfetta non è a nostra portata.

Si potrà forse arrivare a compromessi accettabili basando il tutto sulla buona fede e la onestà intellettuale di tutti i soggetti che ne sono coinvolti: giurati e concorrenti.

Entrando nello specifico è facile riconoscere la valenza e l’utilità dei concorsi fotografici.

Molti sono i positivi auspici che si prefiggono gli organizzatori e l’occasione “competitiva” costituisce un momento di confronto fra i tanti appassionati.

Partendo dal presupposto che chi ama la fotografia è sempre attratto dall’osservare le produzioni altrui e ricerca in fotoamatori a lui più affini quelle immagini che predilige, intanto l’occasione di un concorso fotografico genera, al di là della gara intrinseca, una ricca vetrina che offre la visione delle produzioni più recenti dei vari concorrenti. Le selezioni operate in sede valutativa, peraltro, scremano le immagini in mostra ed offrono, a chi le visiona, occasioni di riflessioni e idee per personali nuovi spunti creativi.

Appare ovvio che chi si mette in competizione deve abbandonare nel momento in cui aderisce al “gioco” ogni suo strascico personale (onorificenze e vari riconoscimenti legati alla sua attività); infatti, nei concorsi fotografici patrocinati, tutti i partecipanti partono alla pari e con l’unica giusta garanzia della non cumulabilità dei premi.

Riguardo, poi, alla necessità di rinnovare continuamente le immagini da presentare ai concorsi, in modo da assicurare freschezze competitive e sempre nuove produzioni, una programmazione ragionata dei concorsi, articolata nell’arco dell’intero anno e con un numero definito di appuntamenti, eviterebbe che stesse immagini possano essere proposte in più concorsi (è evidente che questa ultima regola dovrebbe valere nell’ambito di una stessa associazione, ad esempio in UIF o Fiaf, per entrambe applicarle in maniera indipendente).

Ora veniamo al punto più dolente ed oggetto di tante critiche: i giurati.

Per chi organizza, comporre una giuria è sempre un momento complicato. Vuoi per i tanti rapporti personali che ciascuno di noi intrattiene, vuoi per le abitudini consolidate, vuoi per le caratteristiche personali dei potenziali giudici.

La fotografia è di certo uno dei mondi artistici che si muove più in fretta, riguardo a forme espressive, tematiche, mode, tecniche e quant’altro.

Fra gli appassionati di fotografia ci sono e resistono i “puristi” e quelli che recepiscono molto lentamente i mutamenti o che rifiutano, anche se parzialmente, innovazioni tecnologiche che consentono di realizzare immagini impensabili o fuori dai classici canoni: le cosiddette “regole”.

Con questi presupposti è difficile quindi riuscire a coordinare il tutto e assicurare piena felicità a chi vuole competere.

Puoi formare giudici quanto vuoi, le differenze valutative ci saranno sempre ed il merito rimane sempre soggettivo.

Un buon compromesso potrebbe essere quello di variegare le composizioni e alternare nel tempo i giurati. Per variegare intendo far intervenire ed alternare anche soggetti che in qualche modo operano nell’intero arco delle arti visive (come soggetti attivi, critici o altri ruoli).

La staticità dei componenti di una giuria di certo comporta il fatto che nel tempo si consolidano i loro metodi di giudizio, innescando così un perverso rapporto coi concorrenti che spesso, più che incentrarsi sul proporre loro novità creative,  si impegnano a conformarsi essenzialmente ai noti e immutati gusti dei giurati: quanto di peggio possa capitare ad un buon concorso fotografico che vuole definirsi tale.

Chi ha avuto opportunità di far parte di una giuria sa bene che, al di là delle cognizioni intrinseche di ciascun componente, dei gusti personali e dell’eveluzione/involuzione che normalmente interessa ogni essere umano, molto dipende anche dalle tecniche attuate in sede selettiva, ancor di più dal numero e dalla media qualitativa delle opere presentate, dalla indipendenza/sudditanza che caratterizza i soggetti giudicanti e chi più ne ha più ne metta.

In conclusione direi che per chi vuole partecipare in una competizione fotografica è opportuno che per prima cosa vada a consultare i nomi dei componenti la giuria, per poter a priori farsi un’idea delle caratteristiche dei giurati per poi accettarne serenamente il giudizio, quindi, partecipare o meno a quel concorso fotografico e continuare a vivere la propria passione con tranquillità.

Del resto ogni esito è sempre discutibile e la diversità dei risultati conseguiti in competizioni differenti lo avvalora.

Buona luce a tutti.


© Essec 2017/07

Rousseau, un predecessore: la sua lotta al consumismo. (Dal "Discorso sulle scienze e sulle arti")


Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al benessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, meno dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi son carichi, soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne formano i così detti ‘popoli civili’”. 

Se le nostre scienze son vane nell’oggetto che si propongono, sono ancor più pericolose per gli effetti che producono”. 

Quanti pericoli, quante false vie nella ricerca scientifica!”. 

Era antica tradizione, passata d’Egitto in Grecia, che un Dio nemico della quiete degli uomini fosse l’inventore delle scienze”. 

Popoli, sappiate dunque una buona volta che la natura ha voluto preservarvi dalla scienza, come una madre strappa un’arma pericolosa dalle mani del figlio”. 

Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna…La preferenza degli ingegni piacevoli sugli utili…Hanno messo una gioventù frivola in grado di dare il tono alla vita”. 

Che penseremo mai di quei compilatori di opere, che hanno indiscretamente infranta la porta delle scienze e introdotto nel loro santuario una plebaglia indegna d’accostarvisi…Socrate non aiuterebbe mai ad accrescere questa folla di libri che ci inonda d’ogni parte…I disordini orribili che la stampa ha già prodotto in Europa”. 

Da che i sapienti han cominciato ad apparir fra noi, dicevan i loro propri filosofi, le persone dabbene sono scomparse…Senza saper discernere l’errore dalla verità, possederanno l’arte di renderli irriconoscibili agli altri con argomenti speciosi…A sentirli non li si piglierebbe per un branco di ciarlatani, gridanti ognuno dal canto suo sopra una piazza pubblica: ‘Venite da me, io solo non inganno nessuno’?...Il falso è suscettibile d’una infinità di combinazioni; ma la verità non ha che un sol modo di essere”. 

Oggi, che le ricerche più sottili e un gusto più fine hanno ridotto a princìpi l’arte di piacere, regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano esser stati fusi in uno stesso stampo: senza posa la civiltà esige, la convenienza ordina; senza posa si seguono gli usi e mai il proprio genio. Non si osa più apparire ciò che si è…Che se per caso, fra gli uomini straordinari per il loro ingegno, se ne trovi qualcuno che abbia fermezza nell’anima e che rifiuti di prestarsi al genio del suo secolo e di avvilirsi con produzioni puerili, guai a lui! Morrà nell’indigenza e nell’oblio”. 

Gli antichi politici parlavano senza posa di costumi e di virtù: i nostri non parlano che di commercio e di danaro…un uomo non vale per lo Stato che il consumo che vi fa…i Principi sanno benissimo che tutti i bisogni che il popolo si dà, sono altrettante catene di cui si carica… qual giogo potrebbe imporsi ad uomini che non han bisogno di nulla?...L’anima si proporziona insensibilmente agli oggetti che l’occupano”. 

O Dio onnipotente tu che tieni nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle funeste arti e rendici l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possan fare la nostra felicità e che sian preziosi al tuo cospetto”. 

Queste espressioni sono tratte dal Discorso sulle scienze e sulle arti di Rousseau del 1750. Rousseau è un illuminista –perché Il contratto sociale è uno dei fondamenti della Democrazia, peraltro intesa come democrazia diretta, in spazi limitati- ma è un illuminista molto, molto particolare. 
In questo straordinario Discorso sulle scienze e sulle arti, non a caso pochissimo richiamato ai giorni nostri, Rousseau anticipa alcune delle conseguenze più devastanti della Democrazia. Si oppone alle Scienze, idola che oggi dominano incontrastate, in quanto asserviscono a sé gli uomini e invece di renderli liberi li fa schiavi (“soffocano il loro sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravan nati, fan loro amare la loro schiavitù”). Anticipa la società dello spettacolo con le sue futilità, il prevalere dell’apparire sull’essere (“Le apparenze di tutte le virtù, pur senza il possesso di alcuna”). Sottolinea come l’eccesso di comunicazione e di divulgazione abbia dato spazio a ogni tipo di ciarlatani. E come la parola possa essere fonte di ogni falsità (del resto lo stesso Cristo ha affermato: “Il tuo dire sia sì, sì, no, no. Tutto il resto è farina del diavolo”). Quando Rousseau afferma “a sentirli non li si piglierebbe per un branco di ciarlatani, gridanti ognuno dal canto suo sopra una piazza pubblica: ‘Venite da me, io solo non inganno nessuno’” non sembra di sentir parlar Renzi o Berlusconi o qualsiasi altro leader politico, italiano e anche non italiano? E, in aggiunta, c’è anche un accenno alle ‘fake news’(“Il falso è suscettibile d’una infinità di combinazioni; ma la verità non ha che un sol modo di essere”). Si scaglia contro l’omologazione –tema di scottante attualità, portato al suo apice dalla globalizzazione- che cancella il merito e annulla l’ingegno. 
Nell’ultima parte del Discorso c’è la considerazione che, forse, riguarda più da vicino la Modernità. Dopo l’affermarsi della Rivoluzione industriale sono stati introdotti bisogni di cui l’uomo non aveva mai sentito il bisogno. Si è affermata la pazzesca legge di Say, “l’offerta crea la domanda”, su cui si regge tutta la società di oggi. La stragrande maggioranza degli oggetti che oggi ci circondano e che, come osserva Rousseau contribuiscono a formare la nostra mentalità, sono del tutto superflui ma essenziali al meccanismo che ci domina e che ormai è uscito fuori dal nostro controllo: noi non produciamo più per consumare ma produciamo perché il meccanismo possa costantemente autoriprodursi e autorafforzarsi. 
Questa è la straordinaria modernità di Rousseau, l’antimoderno.


 

sabato 22 luglio 2017

"Dilemmi del credito cooperativo" di G. Coppola e D.Corsini

 


        

Nelle ultime settimane l’impegno richiesto al Governo, all’industria bancaria e alle autorità di settore per il disinnesco delle crisi di Mps, delle due Venete e di Carige ha distolto l’attenzione dagli sviluppi della riforma del sistema del credito cooperativo che, per dimensione, occupa la terza posizione nella graduatoria delle banche italiane.

Come noto, nel 2016 è stata avviata infatti la riforma delle BCC, funzionale a rafforzare l’intero movimento per non mancare l’appuntamento dell’Unione Bancaria. L’appartenenza  a un  gruppo  bancario  cooperativo è la condizione per esercitare l’attività bancaria in forma di Banca di Credito Cooperativo. Le domande di costituzione dei gruppi bancari cooperativi dovranno essere presentate entro il 3 maggio 2018. Il processo autorizzativo da parte di BCE si avvierà dopo gli Asset Quality Review di tutte le componenti, sui cui esiti non si nascondono le preoccupazioni.

Composto da oltre trecento banche, tre organismi di vertice (Iccrea Banca, Cassa Centrale Trentina e Cassa Centrale Alto Adige) e una pletora di società collaterali centrali e di strutture regionali, il nuovo sistema avrà il fulcro nei tre gruppi indicati e in una complessa serie di atti per assicurare unità di direzione (contratti di coesione) e garanzie di rispetto dei requisiti prudenziali (accordi di garanzia).

Nella tabella, i dati più significativi della sua condizione con riferimento a dicembre 2016 (Fonte Banca d’Italia e Federcasse)

                                                     BCC          SISTEMA
Numero banche                             334                604
Numero Sportelli                        4.352           29.039
Numero Dipendenti                  37.000         300.000
Prestiti in mld.                               144             2.269
Sofferenze lorde in mld.                  16                201    
Totale Crediti deteriorati in mld.     26                350    
Cost/Income %                                70                  74
Cet 1 %                                            17                11,5
ROE %                                           -0,3                 -6


Le criticità del credito cooperativo

Due sono i profili essenziali delle sue criticità.

La prima è di ordine industriale.

Dato che ad una quota di mercato del 7% corrisponde una rete distributiva pari al 15% del sistema e un numero di addetti, che rappresenta il 12% dell’intera forza lavoro bancaria, i caratteri di inefficienza produttiva del sistema cooperativo emergono con evidenza, mettendo in luce come il costo di produzione di ogni unità di prodotto bancario cooperativo sia quasi doppio rispetto alla media del sistema. La rischiosità creditizia delle BCC è superiore di qualche punto, con riferimento sia ai crediti in sofferenza, sia al totale dei deteriorati.

Il rapporto cost-income, assai elevato, si mantiene inferiore al sistema, grazie alla minore percentuale di copertura dei crediti anomali e ad una forbice dei tassi superiore, fattori che assorbono in parte il peso della struttura.

Ne risulta una migliore condizione patrimoniale, cui hanno contribuito i vantaggi fiscali, di cui il sistema cooperativo ha da sempre goduto. Infine, si ha motivo di ritenere che un terzo delle BCC versi in condizioni di debolezza individuale.

Partendo da questa situazione, la formazione di due gruppi bancari cooperativi (il terzo è previsto dalla legge) non può che indebolire la situazione, perché richiederà risorse aggiuntive per il patrimonio del secondo gruppo, che dovrà anche investire in strutture centrali per il suo funzionamento. Inoltre, dalla divisione in due si perderanno possibili economie di scala. Anche gli investimenti in tecnologia saranno duplicati.

Il costo di due gruppi potrebbe essere pertanto non sostenibile. La certezza di questa affermazione non potrà che venire dai relativi piani industriali, tuttora non noti. Ma gli indizi ci sono già tutti.

Il secondo profilo di criticità riguarda le strategie commerciali, da sviluppare in un contesto concorrenziale in via di profonda e rapida modificazione.

Il mercato del credito e del risparmio delle famiglie e delle piccole e medie imprese è infatti esposto ad una crescente contendibilità.

Banca Intesa, ha raddoppiato la propria presenza in Veneto e in Sicilia, assorbendo le attività delle due banche venete fallite e, come Unicredito, ha da tempo costituito una propria divisione territoriale. Il Mps ha dichiarato che, dopo il salvataggio,  imposterà il proprio piano industriale puntando al mercato retail, nelle regioni di più tradizionale insediamento.

Ubi ha assorbito banche con spiccata vocazione territoriale, una volta alleggerite dei cospicui crediti anomali (Banca Marche, Banca Etruria, Carichieti), e ha già avviato politiche attive sui nuovi territori e così ha fatto Bper, con Cariferrara, mentre si appresta a fare altrettanto Cariparma, del gruppo Credit Agricole, una volta rilevate le Casse di Risparmio di Cesena, di Rimini e di San Miniato.

Di altre piccole popolari è prevista l’aggregazione con banche più grandi nei prossimi mesi.

Dall’inizio dell’anno è passato di mano o si sono affermate nuove politiche territoriali per una quota pari all’8% del mercato retail italiano. Il processo di consolidamento farà compiere scelte di accentramento decisionale e di razionalizzazione organizzativa a tutti i gruppi impegnati ad integrare nelle loro strutture la loro rafforzata proiezione locale.

La riforma del credito cooperativo, che andrà presumibilmente a regime non prima della fine del 2018, troverà quindi una situazione completamente diversa da quella in essere al momento del suo avvio e della scelta del modello aggregativo tramite il gruppo bancario cooperativo, avvenuta solo nel 2016.

Il credito cooperativo sarà anche esposto ad una concorrenza interna, date le molte sovrapposizioni territoriali tra le BCC che aderiranno al gruppo Iccrea ovvero al gruppo Trentino. La contesa per strapparsi reciprocamente aderenti spacca già in due molte regioni importanti, come Lombardia, Veneto ed Emilia, secondo scelte che non sembrano compiersi in base a differenze d’ordine strategico.

Non sembri dunque azzardato parlare di una contesa, senza benefici per chicchessia, salvo rinverdire le tenzoni medievali tra guelfi e ghibellini. Anche da parte delle Autorità andrebbero spiegati meglio i vantaggi che dovrebbero derivare da questa bipartizione.

Ma vorremmo andare avanti con la nostra riflessione, spiegando perché nemmeno la scelta di un solo raggruppamento, fondato sulle attuali regole, potrebbe dare sufficienti garanzie di rafforzamento.

Basti il fatto che la riforma basata sul contratto di coesione manterrà una struttura di governance complessa e costosa, in controtendenza con l’azione di razionalizzazione di tutti gli altri gruppi bancari. Si pensi soltanto al fatto di mantenere pressoché inalterata la pletorica configurazione degli organi sociali (amministratori, sindaci, direzioni generali), stimati al momento in non meno di 5000 posizioni. Nessun altro gruppo bancario, nemmeno il più grande, ha un simile costo di governance.

Noi non conosciamo le riflessioni in corso presso le Autorità di vigilanza europee, ma siamo certi che il criterio della sostenibilità del modello, nelle più recenti dinamiche  del mercato italiano del credito, sarà una discriminante essenziale.

Una proposta

Non crediamo di commettere sacrilegio se proponiamo di riflettere, seppure in astratto, stante la legge di riforma approvata soltanto l’anno scorso dal Parlamento italiano, su un’alternativa, che punti a un livello di accentramento organizzativo simile a quello delle banche italiane concorrenti, mirando a conservare i caratteri propri della cooperazione.

Riteniamo che, così facendo, si possa mantenere non solo una linea di continuità con la storia del movimento, ma che si possa anche potenziare lo sfruttamento dei vantaggi competitivi di una configurazione capillare, seguendo nuove modalità.

Aprire ad una nuova visione della economia sociale cooperativa, di cui vi è crescente domanda nella società italiana, non potrà che avvenire, assicurando sufficienti caratteri di tenuta economica del sistema.

Si tratterebbe di conferire ad una sola Banca gli asset di tutte le Bcc, ottenendone in cambio una partecipazione proporzionale al capitale. Pur perdendo la qualifica di banca, esse potrebbero estendere il proprio raggio di azione a finalità socio-economiche ancora più ampie dell’esercizio del banking cooperativo.

Le società cooperative continuerebbero infatti ad avere radicamento nei territori di origine e le basi sociali manterrebbero i diritti di proprietà sul patrimonio della cooperativa.

Oltre a svolgere il ruolo di azionisti della Banca della Cooperazione Italiana (non sarebbe un nome appropriato?), esse potrebbero sviluppare proprie autonomie, stabilendo politiche per assistere al meglio i territori con servizi aggiuntivi, che potrebbero essere di natura professionale, ovvero sanitari, assistenziali,  assicurativi, culturali, da rivolgere in prevalenza ai soci, ma anche ad altri utenti.

Quanto ai primi, si potrebbe puntare sull’assistenza tecnica a categorie economiche, quali, ad esempio, gli agricoltori, per aiutarli nelle scelte da compiere per una più rapida modernizzazione delle attività. Si pensi alla diffusione di nuove tecniche colturali (biologiche, di precisione, etc.) e di commercializzazione (filiere corte e a chilometro zero), alle pratiche comunitarie per l’acquisizione di contributi, agli incentivi per accrescere la produzione di energie alternative e il rispetto dell’ambiente. Altri esempi possono essere facilmente prefigurati.

Circa la seconda tipologia di servizi, si tratterebbe di sviluppare quelli di assistenza alla persona e alle famiglie, contribuendo, sussidiariamente, ad un welfare che lo stato ha sempre più difficoltà a fornire da solo.

Le economie di scala e di rete tra le cooperative potrebbe far collocare questi servizi con efficienza ed equità.

Altri campi di sviluppo sono i progetti di inclusione sociale e finanziaria e lo studio per nuove forme di socialità digitale, come le smart communities.

Quanto ai mezzi necessari per rendere possibili queste attività potrebbe prevedersi che gli immobili delle singole BCC restino nella proprietà delle Cooperative originarie le quali potrebbero percepire gli affitti per l’utilizzo funzionale a uffici della banca. Potrebbero rimanere nel compendio delle cooperative scorporanti anche altri asset reali o finanziari, tra cui una parte degli stessi crediti in sofferenza, i cui ricavi o realizzi potrebbero aggiungersi alle fonti di reddito dei dividendi da partecipazione.

Le nuove attività delle cooperative potrebbero anche consentire l’assorbimento di parte del personale, che si renderà eccedentario nel mondo del credito cooperativo. 

La governance di queste cooperative dovrebbe essere espressione di volontariato, con costi praticamente ridotti a riconoscimenti simbolici.

La nuova Banca della Cooperazione Italiana, che potrebbe aprire il proprio capitale anche al mercato e partire alleggerita da immobilizzi tecnici e finanziari, avrebbe fin da subito la dimensione per essere concorrenziale, con una rete distributiva estesa a tutto il territorio nazionale, secondo indirizzi definiti, coordinati e controllati da una Direzione Generale centralizzata. La migliore condizione patrimoniale, da utilizzare per investimenti d’ordine tecnologico (una sola piattaforma informatica, in luogo delle otto oggi esistenti) e d’ordine commerciale con lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi bancari (per esempio, la più capillare diffusione di pagamenti elettronici), continuerebbe ad essere edificata su una rete di oltre due milioni di soci/clienti.

Conclusioni

Si deve riconoscere che non ci sono più le condizioni per la dispersione di risorse, in nome di asserite differenze tra gruppi o per la conservazione di costose e anacronistiche forme di autonomia bancaria. Le regole dell’efficienza economica sono uguali per tutti, mentre quelle della diversità socio culturale, su base no profit e solidaristica, possono essere sviluppate con modalità del tutto nuove da chi ne ha fatto da sempre la propria missione. Questo è il vantaggio che il credito cooperativo deve saper sfruttare, evitando il rischio che si perda il motivo stesso dell’appartenenza cooperativa che, divenendo sempre più onerosa per i suoi stessi soci, arrivi fino al punto di fagocitare se stessa.

G. Coppola, D.Corsini