Nelle ultime settimane l’impegno richiesto al Governo, all’industria
bancaria e alle autorità di settore per il disinnesco delle crisi di Mps, delle
due Venete e di Carige ha distolto l’attenzione dagli sviluppi della riforma
del sistema del credito cooperativo che, per dimensione, occupa la terza
posizione nella graduatoria delle banche italiane.
Come noto, nel
2016 è stata avviata infatti la riforma delle BCC, funzionale a rafforzare l’intero
movimento per non mancare l’appuntamento dell’Unione Bancaria. L’appartenenza a
un gruppo bancario cooperativo è la condizione per esercitare
l’attività bancaria in forma di Banca di Credito Cooperativo. Le
domande di costituzione dei gruppi bancari cooperativi dovranno essere
presentate entro il 3 maggio 2018. Il processo autorizzativo da parte di BCE si
avvierà dopo gli Asset Quality Review di tutte le componenti, sui cui esiti non
si nascondono le preoccupazioni.
Composto da oltre trecento banche, tre organismi di vertice
(Iccrea Banca, Cassa Centrale Trentina e Cassa Centrale Alto Adige) e una
pletora di società collaterali centrali e di strutture regionali, il nuovo
sistema avrà il fulcro nei tre gruppi indicati e in una complessa serie
di atti per assicurare unità di direzione (contratti di coesione) e
garanzie di rispetto dei requisiti prudenziali (accordi di garanzia).
Nella tabella, i dati più significativi
della sua condizione con riferimento a dicembre 2016 (Fonte Banca d’Italia e
Federcasse)
BCC
SISTEMA
Numero banche
334
604
Numero Sportelli 4.352
29.039
Numero Dipendenti 37.000
300.000
Prestiti in mld.
144
2.269
Sofferenze lorde in mld.
16
201
Totale Crediti deteriorati in mld. 26
350
Cost/Income %
70
74
Cet 1 %
17
11,5
ROE %
-0,3
-6
Le criticità del credito cooperativo
Due sono i profili essenziali delle sue criticità.
La prima è di ordine industriale.
Dato che ad una quota di mercato del 7% corrisponde
una rete distributiva pari al 15% del sistema e un numero di addetti, che
rappresenta il 12% dell’intera forza lavoro bancaria, i caratteri di
inefficienza produttiva del sistema cooperativo emergono con evidenza, mettendo
in luce come il costo di produzione di ogni unità di prodotto bancario
cooperativo sia quasi doppio rispetto alla media del sistema. La rischiosità creditizia
delle BCC è superiore di qualche punto, con riferimento sia ai crediti in
sofferenza, sia al totale dei deteriorati.
Il rapporto cost-income, assai
elevato, si mantiene inferiore al sistema, grazie alla minore percentuale di
copertura dei crediti anomali e ad una forbice dei tassi superiore, fattori che
assorbono in parte il peso della struttura.
Ne risulta una migliore condizione
patrimoniale, cui hanno contribuito i vantaggi fiscali, di cui il sistema
cooperativo ha da sempre goduto. Infine, si ha motivo di ritenere che un terzo
delle BCC versi in condizioni di debolezza individuale.
Partendo da questa situazione, la
formazione di due gruppi bancari cooperativi (il terzo è previsto dalla legge) non può che
indebolire la situazione, perché richiederà risorse aggiuntive per il
patrimonio del secondo gruppo, che dovrà anche investire in strutture centrali
per il suo funzionamento. Inoltre, dalla divisione in due si perderanno
possibili economie di scala. Anche gli investimenti in tecnologia saranno
duplicati.
Il costo di due gruppi potrebbe
essere pertanto non sostenibile. La certezza di questa affermazione non potrà che venire dai relativi piani
industriali, tuttora non noti. Ma gli indizi ci sono già tutti.
Il secondo profilo di criticità riguarda le strategie commerciali,
da sviluppare in un contesto concorrenziale in via di profonda e rapida
modificazione.
Il mercato del credito e del
risparmio delle famiglie e delle piccole e medie imprese è infatti esposto ad una crescente contendibilità.
Banca Intesa, ha raddoppiato la
propria presenza in Veneto e in Sicilia, assorbendo le attività delle due banche venete fallite e,
come Unicredito, ha da tempo costituito una propria divisione territoriale. Il
Mps ha dichiarato che, dopo il salvataggio,
imposterà il proprio piano industriale puntando al mercato retail, nelle
regioni di più tradizionale insediamento.
Ubi ha assorbito banche con spiccata
vocazione territoriale, una volta alleggerite dei cospicui crediti anomali
(Banca Marche, Banca Etruria, Carichieti), e ha già avviato politiche attive sui nuovi
territori e così ha fatto Bper, con Cariferrara, mentre si appresta a fare
altrettanto Cariparma, del gruppo Credit Agricole, una volta rilevate le Casse
di Risparmio di Cesena, di Rimini e di San Miniato.
Di altre piccole popolari è prevista l’aggregazione con banche
più grandi nei prossimi mesi.
Dall’inizio dell’anno è passato di mano o
si sono affermate nuove politiche territoriali per una quota pari all’8% del mercato
retail italiano. Il processo di consolidamento farà compiere scelte di
accentramento decisionale e di razionalizzazione organizzativa a tutti i gruppi
impegnati ad integrare nelle loro strutture la loro rafforzata proiezione
locale.
La riforma del credito cooperativo,
che andrà
presumibilmente a regime non prima della fine del 2018, troverà quindi una
situazione completamente diversa da quella in essere al momento del suo avvio e
della scelta del modello aggregativo tramite il gruppo bancario cooperativo,
avvenuta solo nel 2016.
Il credito cooperativo sarà anche esposto ad una concorrenza
interna, date le molte sovrapposizioni territoriali tra le BCC che aderiranno
al gruppo Iccrea ovvero al gruppo Trentino. La contesa per strapparsi
reciprocamente aderenti spacca già in due molte regioni importanti, come
Lombardia, Veneto ed Emilia, secondo scelte che non sembrano compiersi in base
a differenze d’ordine strategico.
Non sembri dunque azzardato parlare
di una contesa, senza benefici per chicchessia, salvo rinverdire le tenzoni
medievali tra guelfi e ghibellini. Anche da parte delle Autorità andrebbero spiegati meglio i
vantaggi che dovrebbero derivare da questa bipartizione.
Ma vorremmo andare avanti con la
nostra riflessione, spiegando perché nemmeno la scelta di un solo raggruppamento, fondato
sulle attuali regole, potrebbe dare sufficienti garanzie di rafforzamento.
Basti il fatto che la riforma basata
sul contratto di coesione manterrà una struttura di governance complessa e costosa, in
controtendenza con l’azione di razionalizzazione di tutti gli altri gruppi
bancari. Si pensi soltanto al fatto di mantenere pressoché inalterata la
pletorica configurazione degli organi sociali (amministratori, sindaci,
direzioni generali), stimati al momento in non meno di 5000 posizioni. Nessun
altro gruppo bancario, nemmeno il più grande, ha un simile costo di governance.
Noi non conosciamo le riflessioni in
corso presso le Autorità di vigilanza europee, ma siamo certi che il criterio
della sostenibilità del modello, nelle più recenti dinamiche del mercato italiano del credito, sarà una
discriminante essenziale.
Una proposta
Non crediamo di commettere sacrilegio
se proponiamo di riflettere, seppure in astratto, stante la legge di riforma
approvata soltanto l’anno scorso dal Parlamento italiano, su un’alternativa,
che punti a un livello di accentramento organizzativo simile a quello delle
banche italiane concorrenti, mirando a conservare i caratteri propri della
cooperazione.
Riteniamo che, così facendo, si possa mantenere non solo
una linea di continuità con la storia del movimento, ma che si possa anche
potenziare lo sfruttamento dei vantaggi competitivi di una configurazione
capillare, seguendo nuove modalità.
Aprire ad una nuova visione della
economia sociale cooperativa, di cui vi è crescente domanda nella società italiana, non potrà che
avvenire, assicurando sufficienti caratteri di tenuta economica del sistema.
Si tratterebbe di conferire ad una sola Banca gli asset di
tutte le Bcc, ottenendone in cambio una partecipazione proporzionale al
capitale. Pur perdendo la qualifica di banca, esse potrebbero estendere il
proprio raggio di azione a finalità socio-economiche ancora più ampie dell’esercizio
del banking cooperativo.
Le società cooperative continuerebbero infatti ad avere radicamento
nei territori di origine e le basi sociali manterrebbero i diritti di proprietà
sul patrimonio della cooperativa.
Oltre a svolgere il ruolo di azionisti della Banca della
Cooperazione Italiana (non sarebbe un nome appropriato?), esse potrebbero
sviluppare proprie autonomie, stabilendo politiche per assistere al meglio i
territori con servizi aggiuntivi, che potrebbero essere di natura
professionale, ovvero sanitari, assistenziali,
assicurativi, culturali, da rivolgere in prevalenza ai soci, ma anche ad
altri utenti.
Quanto ai primi, si potrebbe puntare sull’assistenza tecnica a categorie economiche, quali, ad
esempio, gli agricoltori, per aiutarli nelle scelte da compiere per una più rapida
modernizzazione delle attività. Si pensi alla diffusione di nuove tecniche
colturali (biologiche, di precisione, etc.) e di commercializzazione (filiere
corte e a chilometro zero), alle pratiche comunitarie per l’acquisizione di
contributi, agli incentivi per accrescere la produzione di energie alternative
e il rispetto dell’ambiente. Altri esempi possono essere facilmente
prefigurati.
Circa la seconda tipologia di servizi, si tratterebbe di
sviluppare quelli di assistenza alla persona e alle famiglie, contribuendo,
sussidiariamente, ad un welfare che lo stato ha sempre più difficoltà a fornire da solo.
Le economie di scala e di rete tra le cooperative potrebbe
far collocare questi servizi con efficienza ed equità.
Altri campi di sviluppo sono i progetti di inclusione sociale
e finanziaria e lo studio per nuove forme di socialità digitale, come le smart communities.
Quanto ai mezzi necessari per rendere possibili queste
attività potrebbe prevedersi che gli immobili delle singole BCC
restino nella proprietà delle Cooperative originarie le quali potrebbero
percepire gli affitti per l’utilizzo funzionale a uffici della banca.
Potrebbero rimanere nel compendio delle cooperative scorporanti anche altri
asset reali o finanziari, tra cui una parte degli stessi crediti in sofferenza,
i cui ricavi o realizzi potrebbero aggiungersi alle fonti di reddito dei
dividendi da partecipazione.
Le nuove attività
delle cooperative potrebbero anche consentire l’assorbimento di parte del
personale, che si renderà eccedentario nel mondo del credito cooperativo.
La governance di queste cooperative dovrebbe essere
espressione di volontariato, con costi praticamente ridotti a riconoscimenti
simbolici.
La nuova Banca della Cooperazione Italiana, che potrebbe
aprire il proprio capitale anche al mercato e partire alleggerita da
immobilizzi tecnici e finanziari, avrebbe fin da subito la dimensione per
essere concorrenziale, con una rete distributiva estesa a tutto il territorio
nazionale, secondo indirizzi definiti, coordinati e controllati da una Direzione
Generale centralizzata. La migliore condizione patrimoniale, da utilizzare per
investimenti d’ordine tecnologico (una sola piattaforma informatica, in
luogo delle otto oggi esistenti) e d’ordine commerciale con lo sviluppo di
nuovi prodotti e servizi bancari (per esempio, la più capillare diffusione di
pagamenti elettronici), continuerebbe ad essere edificata su una rete di oltre
due milioni di soci/clienti.
Conclusioni
Si deve riconoscere che non ci sono più le condizioni per la dispersione di risorse, in nome di
asserite differenze tra gruppi o per la conservazione di costose e
anacronistiche forme di autonomia bancaria. Le regole dell’efficienza economica
sono uguali per tutti, mentre quelle della diversità socio culturale, su base
no profit e solidaristica, possono essere sviluppate con modalità del tutto
nuove da chi ne ha fatto da sempre la propria missione. Questo è il vantaggio
che il credito cooperativo deve saper sfruttare, evitando il rischio che si
perda il motivo stesso dell’appartenenza cooperativa che, divenendo sempre più onerosa
per i suoi stessi soci, arrivi fino al punto di fagocitare se stessa.
G.
Coppola, D.Corsini