venerdì 7 luglio 2017

Diego Fusaro: "Paolo Villaggio, il mio ricordo del Marx genovese"



 

Non lo nascondo. Per me Villaggio è stato un gigante. Oserei dire un mito. La saga di Fantozzi è un capolavoro filosofico. Si tratta della lotta di classe marxiana pensata senza redenzione, dall’antichità al futuro (si veda “Superfantozzi“). Villaggio è stato un genio: ha pensato con Marx, oltre Marx. Portandolo all’altezza dei tempi. È questa la vicenda narrata nel finale di quel capolavoro tragicomico che è il film di Paolo Villaggio, Fantozzi (1975), tratto dall’omonimo libro del 1971. Se letto al di là del primo e più immediato livello comico, il film e, con esso, la saga che ne è seguita mette criticamente a nudo l’unidimensionalità e le contraddizioni dell’esistenza del lavoratore del capitalismo avanzato. In particolare, il finale del primo episodio della saga adombra nitidamente l’integrazione del proletariato nella logica del nuovo ordine dominante, con annesso addomesticamento dello spirito oppositivo e disgregazione della coscienza antagonista.

Allorché il protagonista Fantozzi, paradigma dello sfruttamento subito in silenzio, inizia a frequentare sul posto di lavoro “il compagno Folagra”, noto comunista in lotta contro il sistema padronale, la sua prospettiva muta radicalmente. Mediante le discussioni serrate con il nuovo interlocutore e la lettura serale dei classici del pensiero marxista, Fantozzi viene acquisendo coscienza del conflitto e della relazione niente affatto neutra che lega i datori di lavoro ai lavoratori. Prende gradualmente congedo dalla falsa rappresentazione ideologica con cui il Signore occulta il conflitto come fondamento del rapporto: “Per vent’anni – esclama Fantozzi, dopo aver letto Marx – mi hanno fatto credere che loro mi facevano lavorare solo perché sono buoni”.

Dopo aver compiuto un gesto vandalico ai danni della ditta presso la quale lavora, Fantozzi è convocato dal “megadirettore galattico in persona”, emblema del potere assoluto, autarchico e impalpabile del capitale, del quale si vociferava fosse soltanto “un’entità astratta”, priva di identità umana. Al cospetto del megadirettore, Fantozzi espone la prospettiva conflittuale del Servo in cerca dell’emancipazione e del riconoscimento mediante il conflitto: egli articola apertamente la lotta incomponibile che separa “i padroni, gli sfruttatori” da quelli che non esita a connotare come “gli schiavi, i morti di fame”.

Il megadirettore, però, rovescia le grammatiche: nega il conflitto e disegna uno scenario pacificato, in cui in luogo dell’antagonismo tra Servo e Signore si dà una relazione paritetica tra collaboratori cooperanti in vista dello stesso obiettivo e sulla base della medesima visione del mondo. Quelli che per Fantozzi sono “padroni”, “sfruttatori” e “morti di fame”, dal punto di vista ideologico del megadirettore figurano invece, in maniera neutra, come “datori di lavoro”, “benestanti” e “classe meno abbiente”.

Il film si conclude con la scena dell’“acquario degli impiegati”, il paradisiaco luogo riservato, mediante una sorta di beatificazione lavorativa, ai subordinati che hanno svolto con maggiore dedizione e fedeltà il loro lavoro. A quel punto Fantozzi, rapito dalla visione estastica dell’acquario e dalla possibilità di farne parte, abbandona la coscienza oppositiva e si allinea con le posizioni del megadirettore. Rinuncia alla lotta contro il sistema, perché ammaliato dalla prospettiva di trarne anch’egli benefici individuali: abbandona il progetto di un’emancipazione sociale mediante il superamento della situazione oggettivamente ingiusta per aderire a quello del proprio successo individuale nell’accettazione della contraddizione. La vittoria del Signore è mediata dall’integrazione economicistica del Servo nel suo progetto, vuoi anche dall’assimilazione, da parte dei dominati, della prospettiva ideologica dei dominanti.

Il megadirettore permette a Fantozzi l’ingresso nell’agognato paradiso dei lavoratori rivolgendogli le seguenti emblematiche parole: “Mi raccomando: sia sempre rispettoso e fedele”. In queste scene è narrata, con un registro a cavaliere tra il tragico e il comico, la disgregazione storica del proletariato come classe in sé e per sé e il suo transito dal sogno di una cosa marxiano al sogno delle cose mercatistico. L’economicizzazione del conflitto segna, ancora una volta, la necessaria premessa per la riconversione del Servo in docile cultore delle sue stesse catene, in soggetto addomesticato che sogna l’ingresso nell’acquario degli impiegati e non più il rovesciamento dell’ordine ingiusto della società classista. E’ il nostro presente. Grazie Paolo Villaggio per avercelo descritto magnificamente.



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