Tanti
affari, poche tasse. I colossi del web continuano a macinare fatturato e
profitti in Italia ma al fisco tricolore lasciano solo le briciole. La moral
suasion della Procura di Milano - che ha "convinto" Google e Apple a patteggiare il versamento di 624 milioni
di imposte arretrate - non è servita a molto. Il gioco delle tre tavolette
erariali (incasso i soldi nel Belpaese ma registro i ricavi in Irlanda,
Lussemburgo, Olanda o nel Delaware, dove le aliquote sono low-cost) continua. E
il Tesoro resta come sempre a bocca asciutta.
Facebook,
Apple, Amazon, Airbnb, Twitter e Tripadvisor - aziende che fanno girare qualche
miliardo l'anno nella penisola - hanno versato in tutto nel 2016 all'Agenzia
delle entrate 11,7 milioni di euro. La stessa somma, per dire, pagata dalla
sola Piaggio. Cinque milioni in meno dell'assegno staccato dalla Fila, che di
mestiere fa matite, gessetti e pastelli (tutta roba old economy) e alla voce
ricavi è ferma a 422 milioni. Google Italy ha iscritto a bilancio tasse per
42,7 milioni. Ma si tratta di un'illusione ottica: la cifra corrisponde alla
rata concordata con il Fisco tricolore per sanare i peccati del passato, mentre
la quota relativa al 2016 è una frazione minima di questo tesoretto.
Tutto regolare?
Sì, assicurano i diretti interessati, abilissimi a sfruttare la competizione
fiscale tra nazioni mettendo su residenza legale dove si pagano meno balzelli.
Il caso di Facebook - passato ai raggi X dall'Ufficio parlamentare di bilancio
- è esemplare: il social di Mark Zuckerberg ha venduto nel 2015 in Italia
servizi - in particolare pubblicità - per 224,6 milioni, calcola lo studio
presentato in Senato. Quei soldi però non sono mai entrati nel mirino
dell'Agenzia delle entrate di casa nostra. Facebook li ha fatti sparire
incassandoli virtualmente - miracoli dell'era digitale - a Dublino per
sfruttare i saldi dell'erario irlandese. La filiale italiana ha contabilizzato
solo i servizi amministrativi e logistici garantiti alla casa madre (7
milioncini di euro nel 2015, 9,3 lo scorso anno) e ha versato a Roma una tassa
simbolica: 203mila euro nel 2015, 267mila l'anno scorso, più o meno quanto paga
un negozio ben avviato nel centro della capitale.
Lo stesso
giochino, in fotocopia, lo fanno tutti i giganti hi-tech. Apple triangola
sull'Irlanda i soldi incassati grazie ad iPhone & C. in Italia, come
Twitter. Amazon ha scelto fino a poco tempo fa il Lussemburgo. Il pedaggio
pagato all'erario tricolore da Airbnb nel 2016 grazie a questi giochi di prestigio
fiscali è ammontato a 62mila euro. Meno ancora ha sborsato Trip Advisor, ferma
a 12.594 euro, più o meno le imposte versate da un impiegato.
Italia ed
Europa stanno scervellandosi da tempo su come costringere Google & C. a
pagare le tasse come fanno tutti i comuni mortali (o quasi). Il metodo più
efficace si è rivelato finora quello della minaccia di cause legali, come
dimostrano i pentimenti a scoppio ritardato di Google e Apple nel nostro paese.
La Procura di Milano, non a caso, ha aperto un fascicolo anche su Amazon -
accusata di aver evaso 130 milioni - e su Facebook. La Francia avrebbe appena
chiesto 600 milioni a Microsoft e la Ue ha multato l'Ir-landa per 13 miliardi
(Dublino ha fatto ricorso) per le agevolazioni fiscali ad Apple.
Le
iniziative spot però - comprese le web-tax annacquate all'italiana o la
minaccia di una cedolare secca fatta dal Tesoro tricolore - sono poco efficaci,
come dimostrano le aliquote fiscali "bonsai" (tra il 3 e il 6% dei
profitti) pagate dai colossi digitali sulle loro attività internazionali.
Italia, Francia, Spagna e Germania hanno deciso così di rompere gli indugi e
già al consiglio europeo del prossimo 15 settembre a Tallin potrebbero
presentare un primo piano per arrivare a una tassazione digitale comune nella
Ue. L'obiettivo è far pagare le imposte dove si crea valore, i metodi sono
ancora da stabilire. Sul tavolo c'è l'esempio di Londra che ha varato un
prelievo del 25% sui "profitti trasferiti", chiamato non a caso
Google Tax. Se fosse applicato oggi in Italia, il carico fiscale di Mountain
View nel nostro paese salirebbe a circa 130 milioni l'anno, quello di Facebook
attorno ai 50. Un altro modello è quello dell'India che tassa del 6% tutte le
acquisizioni di prodotti e servizi all'estero e online fatti nel paese.
L'America (per ora) fa resistenza e si è schierata al fianco dei suoi campioni
hi-tech, mettendosi di traverso su questi interventi. La caccia al tesoro
fiscale dei giganti del web è appena iniziata.
Ettore Livini (La Repubblica – 7 settembre 2017)
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