In un bel articolo sul Corriere (26/10) Paolo Di Stefano cerca di definire quel sfuggevolissimo stato d’animo, più sfuggente anche dell’amore, che chiamiamo felicità.
E lo fa attraverso le definizioni che ne hanno dato importantissimi
personaggi: da Einstein a Montale, da Aristotele a Seneca, da Tolstoj a
Winston Churchill. Ma nessuno ci azzecca. Naturalmente, a cospetto di
tali cervelli, non posso certo esser io a farcela quando nella mia opera
teatrale Cyrano, se vi pare…
dico: “Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo,
un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità”. Chi ci
arriva più vicino è quel genio di Oscar Wilde, che oltre a essere un
grande scrittore era anche un filosofo non preso sul serio in questa
veste perché lui stesso, per il gusto della battuta a cui era disposto a
sacrificar tutto, era il primo a non prendersi sul serio (“Nella mia
vita ho messo la mia arte, nella mia opera ho messo solo il mio
talento”. E’ vero il contrario). Nel suo modo paradossale Wilde
definisce la felicità attraverso il suo contrario l’infelicità: “Felicità non è avere tutto ciò che si desidera, ma desiderare ciò che si ha”.
Purtroppo la società moderna ha preso, intellettualmente e concretamente, la direzione opposta. Gli americani nella loro Dichiarazione di indipendenza
del 1776 sanciscono “il diritto alla ricerca della Felicità”, che però
l’edonismo straccione contemporaneo ha trasformato in un diritto alla felicità
che è cosa ben diversa. Perché, come tale, non solo è un diritto
impossibile ma si rovescia nel suo opposto. Pensare che l’uomo abbia un
diritto alla felicità significa renderlo ipso facto,
e per ciò stesso, infelice. La sapienza antica era invece consapevole
che la vita è innanzitutto fatica e dolore, per cui tutto ciò che viene
in più è un frutto insperato.
L’uomo occidentale, che ha creato un modello di sviluppo imperniato sull’inseguimento spasmodico del bene, anzi del meglio,
invece che sulla ricerca dell’armonia in ciò che già c’è, come dice
indirettamente Wilde, si è costruito, con le sue stesse mani, il
meccanismo perfetto e infallibile dell’infelicità. Perché ciò che si ha è
un bene circoscritto, invece ciò che non si ha e si desidera non ha
limiti. Ma è proprio su questo meccanismo psicologico che si sostiene
tutta l’economia dell’Occidente e ormai anche di buona parte
dell’Oriente. Rovesciando venti secoli di pensiero occidentale e
orientale (“è bene accontentarsi di ciò che si ha”) Ludwig von Mises,
uno dei più estremi ma anche coerenti teorici
dell’industrialcapitalismo, afferma: “Non è una virtù accontentarsi di
ciò che già si ha”. E così prosegue parlando della situazione dei suoi
tempi (Mises scrive La mentalità anticapitalistica
negli anni 50 del Novecento): il vagabondo invidia l’operaio, l’operaio
invidia il capo officina, il capo officina invidia il dirigente, il
dirigente invidia il padrone che guadagna un milione di dollari, costui
quello che ne guadagna tre. E così via. Mises quindi ammette, come cosa
positiva, che l’intero meccanismo economico e sociale è basato sull’invidia che non è certamente un sentimento che ti fa star bene. Però centra perfettamente il core
dell’industrialcapitalismo. Oggi la stragrande maggioranza di noi vive
di questo sentimento e su questo sentimento si regge tutta la filiera
economica. Se noi smettessimo di invidiare il vicino più ricco tutto il
castello dell’attuale modello economico franerebbe miseramente su se
stesso. Ma c’è un ulteriore paradosso, che era stato già avvertito da
Adam Smith che pure è, insieme a David Ricardo, uno dei padri e dei
teorici del libero mercato, che oggi è arrivato al suo culmine: noi non
produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, cioè per
perpetuare il meccanismo. Siamo i lavandini, i water attraverso cui deve
passare il più rapidamente possibile ciò che altrettanto rapidamente
dobbiamo produrre. Non siamo noi, poveri o ricchi che si sia, a
governare la macchina ma è la macchina a governar noi. L’uomo, nella
modernità, è stato degradato a consumatore. Ci sono Associazioni di consumatori
che non si vergognano di definirsi tali, hanno accettato, con un
realismo che provoca un brivido di orrore, la degradazione. Non siamo
nemmeno consumatori coscienti e volontari, ma ranocchie che,
opportunamente stimolate, devono saltare anche quando vorrebbero star
ferme, per non inceppare l’onnipotente meccanismo che ci sovrasta. Se
questo è un uomo…
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2017)
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Premio Acqui Storia, "Testimone del Tempo" a Massimo Fini
E’
stato assegnato a Massimo Fini il Premio Acqui Storia “Testimone del
Tempo” giunto al suo cinquantesimo anno. In passato il Premio è andato a
personaggi prestigiosi come Giovanni Spadolini, Norberto Bobbio,
Giorgio Albertazzi, Uto Ughi. Questa la motivazione del Premio:
“Anticonformista,
ribelle, antimoderno, bastian contrario per eccellenza, uomo ‘contro’
quasi a prescindere, talvolta anche contro se stesso. E’ uno dei ‘mostri
sacri’ della carta stampata del nostro Paese, inviato de L’Europeo, firma di punta de Il Giorno, editorialista e (con Feltri direttore) uno degli artefici del miracolo dell’Indipendente, voce fuori dal coro del Fatto Quotidiano
di Marco Travaglio. Penna così brillante da riscattare con penetrante
intelligenza Catilina e Nerone da millenni di demonizzazione e da far
entrare ogni lettore nella psiche e nelle contraddizioni di Nietzsche.
Fini
non è solo un giornalista, è un pensatore, uno dei pochi rimasti con la
schiena diritta in quest’Italia, pur talvolta scambiato dal
politicamente corretto per una fatale Cassandra, a partire dalla
constatazione che il modello di sviluppo dell’Occidente, quello
dogmatico e totalizzante concepito dall’Illuminismo e realizzato
implacabilmente dalla Rivoluzione Industriale, sta mostrando crepe
sempre più vistose. Da qui i suoi libri filosofici, che devono molto a
Nietzsche, alla Nouvelle droite francese e alla scuola degli Annales,
per mostrare come la Ragione aveva Torto, la guerra tradizionale
sia uno dei modi per canalizzare la violenza, la femmina sia da
preferire alla donna, il denaro sia “sterco del demonio”, la democrazia
contemporanea spesso sostanzialmente un imbroglio”.
Intervistato dalla Libertà di
Piacenza Fini ha dichiarato, fra l’ironico e il serio: “Certamente
questi premi (compreso il Premio di scrittura Indro Montanelli alla
carriera ) mi lusingano perché sono il riconoscimento di una vita. Ma la
medaglia ha il suo rovescio: preferirei non averli ottenuti, ma avere
vent’anni”.
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