Ottantotto anni di carcere in totale per gli
uomini accusati di aver dato vita alla più perversa delle interlocuzioni:
quella tra Cosa
nostra e lo Stato. È la somma delle pene chieste dalla procura
di Palermo alla fine della requisitoria del processo sulla Trattativa
tra pezzi delle Istituzioni e la mafia. Dopo 4 anni e 8 mesi di
dibattimento, a 1914 giorni dalla prima udienza preliminare e a dieci anni
esatti dall’apertura dell’inchiesta, l’accusa ha dunque tirato le somme. I
pm Vittorio
Teresi, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene
hanno impiegato otto delle 210 udienze celebrate fino ad oggi per esporre la
requisitoria. Un racconto lungo e complesso che comincia alla fine degli anni
’80, attraversa il biennio stragista che ha destabilizzato il Paese e riscrive
nei fatti la storia della nascita della Seconda Repubblica.
Le richieste di pena – Alla corte d’Assise presieduta dal giudice Alfredo Montalto i
pm hanno chiesto di condannare a 16 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella,
cognato di Totò
Riina, l’uomo che guidò i corleonesi dopo l’arresto del capo
dei capi, il 15 gennaio del 1993. C’è Bagarella ai vertici di Cosa nostra
quando bombe e stragi escono per la prima volta dalla Sicilia e
colpiscono Roma,
Firenze e Milano.
È Bagarella che a un certo punto ispira la nascita di Sicilia Libera,
il movimento che doveva rappresentare le istanze dei mafiosi nel mondo
politico.
Ed è sempre il padrino corleonese che a poi dirotta il sostegno di Cosa nostra
sulla neonata Forza Italia. Non doversi procedere invece per
intervenuta prescrizione per Giovanni Brusca, il collaboratore di
giustizia che partecipò ai vari summit in cui si organizzò l’assalto di Cosa
nostra alla Stato e che è stato condannato – tra le altre cose – per essere
stato l’esecutore principale della strage di Capaci.
Il prequel e i carabinieri – Antonino Cinà,
medico fedelissimo di Riina, accusato di aver consegnato a Massimo Ciancimino
il papello, cioè la lista con le richieste avanzate dalla mafia per far cessare
le stragi. Ciancimino junior avrebbe consegnato quel foglio al padre, don
Vito, l’uomo agganciato dai carabinieri nel giugno del 1992 – dopo l’omicidio
di Giovanni
Falcone – con l’obiettivo di avere un’interlocuzione con la
Cupola e far cessare le stragi. Per questo motivo sono imputati per tre ex
ufficiali dell’Arma: Antonio Subranni, ex capo del Ros, per il quale l’accusa
ha chiesto 12 anni, il suo vice del tempo Mario Mori, su cui pende una
richiesta di condanna pari a 15 anni, e l’ex colonnello, anche lui in servizio
al Raggruppamento speciale, Giuseppe De Donno, che invece i pm vorrebbero condannare
a 10 anni. Per Cinà la richiesta è di 12 anni.
Il ruolo di Dell’Utri – La
procura ha poi chiesto di considerare colpevole anche Marcello Dell’Utri,
ex senatore di Forza Italia che sconta una condanna a 7 anni per concorso
esterno in associazione mafiosa: per lui sono stati chiesti altri 12 anni di
carcere. Braccio
destro di
Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia, è Dell’Utri –
secondo l’accusa – l’uomo che chiude il patto con i boss ottenendo sostengo
per il suo neonato partito politico. “Alla fine del 1993 Marcello Dell’Utri si
è reso disponibile a veicolare il
messaggio intimidatorio per conto di Cosa nostra, cioè fermare le bombe in
cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto
quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la
nomina di Silvio Berlusconi alla carica di presidente del
consiglio”, hanno
sostenuto i magistrati alla fine della requisitoria. E ancora: “La
Cassazione ci dice che tra Cosa nostra e Berlusconi e Dell’Utri il rapporto
era paritario.
Dell’Utri era un nuovo autorevole interlocutore del dialogo con Cosa nostra”.
Sono tutti imputati di minaccia e violenza a corpo politico dello Stato. Per la
procura di Palermo “risulta provato che l’incontro tra esponenti mafiosi e
Marcello Dell’Utri siano stati plurimi e ripetuti nel tempo, da collocare sia
prima delle elezioni del ’94 che dopo le politiche. Nel corso di questi
incontri – dice Del Bene in aula con i colleghi Vittorio Teresi, Roberto
Tartaglia e Nino Di Matteo – sia Graviano che Mangano hanno sollecitato
Dell’Utri a intervenire a favore di Cosa nostra. In quel momento storico e
politico è
il linguaggio della violenza quello prediletto dai mafiosi che
sulla cultura della violenza hanno costruito un sistema di potere, la loro
carriera personale. È solo con l’uso di questo linguaggio che i capi di Cosa
nostra e, in particolare uomini sanguinari come Leoluca Bagarella e Giovanni
Brusca, pensano di potere realizzare i loro obiettivi con l’uso della violenza.
E Dell’Utri non si è sottratto e si è fatto interprete degli interessi di Cosa nostra“.
Mancino e il Romanzo Quirinale – Accusato di falsa testimonianza è, invece, Nicola Mancino,
ex ministro dell’Interno. Davanti ai giudici che celebravano il processo
per favoreggiamento
a Cosa
nostra in
cui era all’epoca imputato Mori, Mancino ha negato di aver saputo
dall’allora guardasigilli Claudio Martelli di contatti “anomali” tra i
carabinieri del Ros e Ciancimino. Contatti che,
secondo la procura, avrebbero costituito il primo atto formale della stessa
trattativa. Finito coinvolto nell’inchiesta Mancino diventa poi il protagonista
del Romanzo
Quirinale. Intercettando l’ex presidente del Senato i pm
registrano anche Giorgio Napolitano: un evento che nel 2012 farà scontrare la
procura di Palermo e il Quirinale, con il Colle che ottenne la distruzione di
quelle telefonate. Per lui i pm hanno chiesto 6 anni di reclusione.
Gli altri imputati – Cinque anni di carcere
è poi la richiesta pena avanzata per Massimo Ciancimino,
figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito, accusato di calunnia e
concorso esterno (prescritto) e, allo stesso tempo, teste del processo.
Ciancimino, che dopo una condanna per detenzione di esplosivo si è visto
revocare l’indulto concessogli dopo un precedente verdetto di colpevolezza per
riciclaggio, è detenuto. Sono tutti stati rinviati a giudizio il 7 marzo del
2013. In origine, però, gli imputati erano 12. L’ex ministro Calogero
Mannino, invece, scelse il rito abbreviato: processato
separatamente è stato assolto in primo grado. L’appello a suo carico è ancora
in corso. La posizione del boss Bernardo Provenzano venne presto
stralciata in quanto il capomafia, poi deceduto, venne dichiarato non in grado
di partecipare consapevolmente all’udienza. A novembre ecco venir meno anche Riina,
personaggio chiave nella ricostruzione della Procura del dialogo che pezzi
dello Stato avrebbero stretto con Cosa nostra negli anni delle stragi.
La mancata cattura di Provenzano – Il
boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano “non poteva essere catturato perché
l’eventualità di una sua collaborazione avrebbe scoperto le carte, sparigliato
gli accordi e comportato per i Carabinieri del Ros la possibilità che il loro
comportamento sciagurato e illecito venisse scoperto dall’autorità giudiziaria
e dall’opinione pubblica” ha detto il pm Nino Di Matteo. Una vicenda per la
quale il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti in
via definitiva. “Questo era il motivo per il quale non poteva essere
arrestato Bernardo Provenzano – dice ancora Di Matteo – il motivo per cui Mario
Mori e Antonio Subranni, ai vertici del Ros, non potevano e non dovevano e non
hanno voluto catturare Provenzano. Non perché potenzialmente corrotti, o intimiditi,
o pregiudizialmente collusi con la mafia, ma perché preoccupati di rispettare
il patto con l’ala moderata di Cosa nostra e di garantire la perpetuazione
della segretezza” .
Un’inchiesta lunga 10 anni – L’udienza di oggi, tra l’altro, è l’ultima alla
quale hanno partecipato i pm Di Matteo e Del Bene: promossi alla procura nazionale
antimafia sono stati applicati al processo sulla
Trattativa solo fino alla fine della requisitoria. Sono anche gli unici due
magistrati che seguono l’inchiesta dall’inizio: dal 2008 era Di Matteo il pm
che ordinò le prime iscrizioni del registro degli indagati. “Siamo arrivati al
termine della requisitoria, la presenza mia e del collega Francesco Del Bene
cessa con l’udienza di oggi. Personalmente è stato per me un impegno,
tra le Procure di Caltanissetta e di Palermo durato 25 anni. Ho seguito questo
processo fin dall’inizio, dalle indagini preliminari. Un processo che è
destinato a portarsi dietro una scia infinita di veleni e di polemiche” ha detto Di
Matteo concludendo la sua requisitoria al processo sulla trattativa tra Stato e
mafia. I due magistrati non potranno nemmeno più seguire le udienze dedicate
alla discussione della difesa. “Man mano che siamo andati avanti ho avuto
contezza del costo
che avrei pagato per questo processo – dice ancora – e credo di
non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che l’azione di noi pm è stata
caratterizzata persino da finalità eversive, e nessuno ha reagito. Nessuno ci ha difeso di
fronte ad accuse cosi gravi, ma noi lo abbiamo messo in conto.
Così avviene in questi casi, in cui l’accertamento giudiziario non si limita
agli aspetti criminali ma si rivolge a profili più alti e causali più
complesse”. “Siamo veramente onorati di avere avuto l’occasione di confrontarci
con la serenità e l’autorevolezza della corte d’Assise – prosegue Di Matteo –
abbiamo l’ulteriore certezza che ci fa vivere con coraggio che nessuno ci potrà
togliere: quella di avere agito per cercare la verità”. Se questa verità
costituisce o meno un reato, toccherà ai giudici deciderlo.
Giuseppe Pipitone (Il Fatto Quotidiano - 26 gennaio 2018)
Spero che il carcere li possa inghiottire in via definitiva...
RispondiElimina