Non si può più dire. Diventa rischioso lasciarsi
scappare l’antica locuzione-sfogo che tanti malcapitati ha salvato da severe
crisi di nervi. Ma che barba! Attenzione, meglio mordersi la lingua, assediati
come siamo da barbe molteplici, dalle più innocue e scadenti a quelle che mal
celano ferocie insospettate, e barbarie assonanti con l’ammasso di peli dell’ideologia
della moda.
Premessa autocritica. C’era una volta la voga
dei capelloni. Sì, imperversavano molti capelli, con un diavolo per ciascuno,
un po’ sporchi e politicizzati, e nessuno pensava di raparsi a zero perché un
fantasma calvo, quasi nuovo, aleggiava. E coloro i quali ancora conservavano la
piega dei pantaloni e avevano doppiato il Capo di Buona Speranza dell’anagrafe,
non li vedevano bene, forse memori delle chiome di Assalonne, figlio di David,
e del fatale ramo di terebinto.
Mentre il tempo “goes by” – cantava Sam – i
pantaloni sembra vadano perdendo la loro distinzione. Venivano sottoposti a
miracolosa “sarcitura” quando l’oltraggio della sedia si faceva evidente; le
suore delle clausure riuscivano a rendere invisibile l’accidentato percorso dell’ago.
Se vivessero ancora, però, dovrebbero affrontare la condizione di disoccupate,
perché a danneggiare i pantaloni non è più Crono ma le stesse fabbriche, e chi
vuole risparmiare deve infierire da sé con forbici, pietre e altri
utensili perforanti.
Conclusione: ogni generazione da protagonista
finisce per infilarsi nel freddo inverno dello scontento, rischiando la
condizione di Jean Des Esseintes, che voleva andare “a ritroso” (nel
libro À rebours di Joris Karl Huysmans) sino a raggiungere una dorata e
micidiale nevrosi.
Meglio puntare sulla Scienza dell’incertezza,
suggerita dallo studio della Statistica che, simile agli oracoli, dà risposte
prive di certezze. Oppure studiare il Futuro, prossima materia scolastica, che
non contempla il presente, la vita grigio scuro e arrabattata di tutti i
giorni, bensì quella colorata rosata aurea e fortunata che verrà. E farsi
crescere la barba.
Ogni tanto l’uomo si ricorda che discende dalla
scimmia, e si fa crescere la barba. Gli italiani discendono di più, a quanto
pare, e scimmiottano tutto, soprattutto le idiozie, specie se sono usa e getta.
Nella velocità della giornata, 15/20 minuti al
mattino per farsi la barba con le fortezze rasanti a tre e quattro lame, sono
un notevole deterrente a favore della crescita della peluria e così non perdere
velocità. E si può guadagnare anche in immagine: uno che ha un mento da quattro
soldi, con la barba può “posticciare” quell’appeal sempre vagheggiato, oppure
coloro il cui volto fa pensare ad altre parti anatomiche, con una barba “a coda
d’anatra” potrebbero fingere un aspetto decente.
È lunga la nomenclatura pelosa: alla Garibaldi,
alla Forca francese, Hollywoodiana, alla Van Dyke o a Costoletta di montone. Ci
sono anche esiguità barbine quali il pizzetto alla Dottor Occultis, amico di
Blek Macigno, ma anche alla Richelieu o Mazzarino e alla risorgimentale
del “barone di ferro” Bettino Ricasoli con Goffredo Mameli e Michele Novaro.
Eccetera. E alla Barbudos dei rivoluzionari della Cuba di Fidel e del mitico
Che, e dei Barbutos spietati della camorra, copiate dalle sanguinarie barbe
dell’Isis. E le altre, modeste e appuntite, di Lev Davidovich Bronshtein, alias
Trotskj, e Vladimir Il’ič Ul’janov, ovvero Lenin. Ma anche all’arruffata
o alla elemosinante.
Felice Cavallotti, “il bardo della democrazia”,
autorevole leader della Sinistra Storica dell’ultimo Ottocento, non aveva la
barba, e per il suo 33esimo duello scelse un avversario di venti anni più
giovane, propugnatore infiammato delle Destra Storica e munito di acuminato
pizzo. Troppa cabala e molte ombre d’intrigo sul terreno. Cavallotti al terzo
assalto fu colpito alla bocca. Morì quasi subito. Una pesante sconfitta dalla
quale la Sinistra meglio sbarbata non si è mai più riavuta.
Da non trascurare le barbe sontuose degli
sportivi, che rischiano entusiasmate tirate di compagni nella concitazione dei
festeggiamenti per il gol. I nuotatori che si rapano a sottozero e depilano il
torace per opporre meno attrito, ora mettono a repentaglio il record con la remora
irsuta.
Pelame correntemente accompagnato da estesi
tatuaggi che rendono quasi impossibile identificare la nuda e indifesa
epidermide. Cambiare pelle è un imperativo che distrae dalle gare su stadi e
campi a favore della competizione su chi resiste di più sul lettino del tattoo.
La barba ha effetti collaterali: non consente
più di incarnare antiche locuzioni della nostra lingua che descrivevano moti di
quell’anima divenuta fievole e cangiante. Come si può dire “a viso aperto” per
significare “senza timore” di fronte a uno che sembra la reincarnazione di
Barbanera, sia l’astrologo sia il pirata inglese dalla barba intorcinata. Buio
in viso, viso lungo, viso duro, volto pulito e, soprattutto, viso d’angelo:
tutte emozioni non più rivelabili, sepolte come rimangono sotto la villosa
coltre.
«La barba essendo quasi una maschera – diceva
Schopenhauer - dovrebbe essere proibita dalla polizia». Un pensiero
veramente pessimista. «È sempre stata maschera», rafforza Umberto Eco. Diego
Abbatantuono con una delle sue più icastiche battute asserisce che «La barba
sono le mutande della faccia», un altro bastian contrario del quale non ricordo
il nome soggiunge che «Con questa moda della barba lunga non so più a chi fare
l’elemosina».
Credo sia vero che i volti di oggidì non
consentano più all’intimo di trasparire. Disperso fra il vello, il linguaggio
dell’anima, della stimata e deprecata mimica facciale che fece vincere al Blue
Team – Pietro Forquet, Giorgio Belladonna e Benito Garozzo – 13 campionati
mondiali, 3 Olimpiadi e 13 titoli europei di bridge. Nessuno di loro poteva
farsi crescere la barba.
Lo stesso può dirsi per i siciliani di Andrea
Camilleri, capaci di fare un intero discorso con una sola “musione” zigomatica.
Insomma, nelle nostre giornate, sembra si faccia largo l’uomo ad una
dimensione, con barba, tatuaggi, vestiti stretti e malridotti, e tagli di
capelli incredibili.
Per decenni ci siamo illusi che prima o poi la
fantasia sarebbe andata al potere, invece è rimasta intrappolata nei capelli.
Passata la fugace fascinazione per l’eleganza “melonistica”, frutto di
un’interpretazione fuorviata delle parole testa d’uovo, spregiative per
intellettuali e teorici che, persi nei cieli personali, non vedono il concreto.
Ma anche un inconscio soprassalto di imitazione del gran rapato del Novecento.
Ecco, allontanatasi la moda cucurbitacea si è scatenata la più grande fantasia
mai vista sui capelli. Della quale non mi sento capace di riferirne a parole.
Da bambino, una volta andavo per via Garibaldi
con mio padre, che si fermò a parlare con un barbuto. Io mi nascosi dietro le
sue gambe, stringendo con tutta la forza che avevo una braca dei suoi
pantaloni; forse era il riflesso del barbutissimo Mammaddauru che rapiva i
piccoli, tramandata figura di spaventabambini, dalla corruzione del nome del
pirata – e sì, barbaresco – Mohamed Dragut.
Ma anche adesso vengo acciuffato da sgomenti
mitigati dall’età. Frequento un bar di avarissimo metraggio dove, giorni fa,
entrò un gruppetto veloce come una folata, chiacchierante e gesticolante:
avevano tutti la barba, e nel fervore orale accompagnato da rapidi e volanti
gesti intravvedevo sospesi occhi sanguigni, mascelle oscillanti, deformate
dalla lente della mia diffidente prospettiva. Corruccio schiarite brevi e
rapide come un giorno di gennaio. Insomma, quelle barbe mi apparvero unte e
atre come quella di Cerbero. Mi misi di taglio e con passi semidanzanti
guadagnai l’uscita, la libertà nella mattinata scura e intirizzita dal
maestrale.
Naturalmente ci sono già numerosi studi sulla
travolgente avanzata della barba nella difficile globalizzazione. Del resto si
studia tutto, massimamente i fenomeni che sembrano insignificanti ma che
custodiscono esiti forse vitali per noi inconsapevoli. Due professori francesi,
per esempio, hanno pubblicato sulla Scientific Review i risultati della loro
ricerca sull’origine del rumore dello schiocco delle articolazioni delle dita.
Le donne neozelandesi e polinesiane ritengono i
barbuti «più maturi e di ceto più alto e più disponibili e affettuosi con i
figli», sostengono sul Behavioral Ecology, giornale di Oxford, i dottori
Barnaby Dixson e Pane Vasey. Il professor Cyril Gruetar dell’università Western
Australia, invece, certifica che sentendosi l’uomo sotto pressione e perdente
autorità, cerca di apparire più aggressivo facendosi crescere la barba. Secondo
un team di microbiologi di Quest Diagnostics con base ad Albuquerque, la
barba cattura più batteri della tavoletta del WC. La ricerca non possiede
il rigore metodologico richiesto da un’analisi scientifica, tuttavia è comparabile
con ricerche del passato.
Alcuni uomini di scienza, ricercatori e anche
giudici hanno il gusto della trovata che assicura loro il maliardo quarto d’ora
di notorietà. Un giudice statunitense, credo astemio e dedito alle tisane, ha
rilevato che nel caffè c’è una sostanza cancerogena: in quella cosa nel bicchiere
di carta soprannominata caffè. Certo, mettendosi di buzzo buono e avendo lucido
in mente il detto siciliano “cu’ mancia fa muddichi”, le tracce letali si
riuscirebbe a trovarle anche annidate nell’aglio, nel broccolo o fra i tannini
del vino rosso siciliano.
Ovviamente ci sono altre confusioni. Un tizio
insisteva col barbiere perché gli foggiasse il suo onor del mento a “barba di
gatto”, cioè un tipo di ormeggio delle navi; alcuni credono tutt’ora che
Barbisio sia un cappello dedicato ai soli barbuti; è in discussione la forma a
barbacane. C’è chi sa che barbassore significa persona di gran conto o che si
dà grande importanza, purtroppo non è più nota la corrispondente geometria
della barba.
Un limite cogente alla fantasia, che non ha più
ambizioni governative, è costituito dal monoguancia, cioè farsi crescere la
barba su un solo lato della faccia. In questa foggia serissima e disciplinata
con legge, nella Sparta antica dovevano portarla i codardi, in modo che fosse
facile distinguerli anche a distanza (Plutarco, Vita di Agesilao) oppure
mimetizzati fra gli ardimentosi.
Qui da noi, una simile proposta di legge chissà
quali accordi trasversali riscuoterebbe per negarle una maggioranza, anche
risicata.
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