lunedì 31 dicembre 2018

La solitudine dei vecchi sotto le Feste



Nei giorni che precedono immediatamente il Natale cominci a ricevere telefonate di persone che non frequenti più da tantissimo tempo. E la litania prosegue fino a Capodanno. Degli auguri hanno solo la forma, in realtà sono solo una delle manifestazioni di quella solitudine che assale alla gola noi vecchi sotto le Feste. Quella solitudine c’è sempre, ma qui si fa più acuta e dolorosa. Con una velocità vertiginosa ti vengono incontro i tempi in cui eri bambino e il Natale era una Festa, ricevere i regali un’affascinante sorpresa e ti agguantano anche i Natali in cui eri tu ad avere i bambini, e la tua famiglia, di cui eri diventato il capo, non era una famiglia ma un clan, con i genitori, i nonni, gli zii, la zia rimasta nubile, le sorelle, i fratelli, i cugini, con le loro fidanzate o compagne o mogli con i propri figli e magari già con i figli dei loro figli. Adesso quel clan si è smembrato così come si è smembrata la tua vita. Molti amici sono morti. Lì per lì non te ne sei quasi accorto, erano casi isolati. Ora è come essere su un campo di battaglia senza nemmeno la battaglia.
Terribile non è solo l’ira del mansueto, lo è anche la solitudine del vecchio. D’ordine diverso sono la solitudine del giovane e del vecchio. Quella del giovane è una scelta, può interromperla in qualsiasi momento, quella del vecchio è coatta, una prigione, un buio sforato solo da qualche, rara, ‘bocca di lupo’.
Da vecchi avviene una cosa sorprendente, all’apparenza. Le giornate sembrano lunghissime perché sei molto meno o per nulla impegnato (“E adesso vai curare le gardenie, povero, vecchio e inutile stronzo”, questo è il vero senso di quella pensione tanto agognata da molti). Inoltre dormi molto meno. Di quelle ore che un tempo ti sarebbero state così preziose ora non sai che fare. Mi ricordo il raccapricciante racconto di un vecchio amico di mio padre il quale, intendo mio padre, era morto, per sua fortuna, una ventina di anni prima. Era stato Direttore, oggi nella contrazione orwelliana delle sigle si direbbe AD o CO, di una banca di media importanza, un uomo molto attivo. Adesso si svegliava all’alba e passava quattro ore, ansiose e inoperose, in attesa dell’apertura della Biblioteca, alle otto del mattino. Qui, con l’inutile e patetica voracità di Bouvard e Pécuchet, si gettava a leggere di tutto, anche, anzi soprattutto, cose di cui non gli era mai importato nulla, tanto per “ammazzare il tempo” pur essendo ben consapevole, perché era un uomo intelligente e sensibile, che era il tempo ad ammazzar lui.
Al contrario, in vecchiaia, se i giorni sono lenti, gli anni passano fulminei, senza nemmeno che te ne accorga. “Come, è già di nuovo Natale? Ma non era stato ieri?”. Pensate a un mese di vacanza. La prima settimana passa lenta, la seconda un po’ più veloce, la terza rapidissima, la quarta è appena cominciata che è già finita. Così è il Tempo nella vita dell’uomo. Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire dall’infanzia? La giovinezza, pur essendo oggettivamente più lunga (i Latini la fissavano dai 14 ai 45 anni) corre più veloce. La maturità che, sempre per i Latini, arrivava a sessant’anni, dopo di che cominciava l’atra senectus, è ancora più rapida. In vecchiaia il Tempo, questo padrone inesorabile delle nostre vite, precipita, cade a vite come un aereo cui abbiano impiombato un’ala.  E mentre spegni l’ultima candelina dell’ultimo albero di Natale ti chiedi, rassegnato più che sgomento, se ci sarà un’altra volta.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2018)



mercoledì 12 dicembre 2018

La religione laica di Einstein, maestro di vita


Christie’s ha venduto all’asta a New York per 2 milioni e 892.500 dollari una lettera che Albert Einstein scrisse a Eric Gutkind nel 1954, a 74 anni, mezzo secolo dopo aver preso il Nobel per la Fisica. Ma più fortunati del ricco Epulone che l’ha acquistata siamo noi che possiamo leggere gratuitamente questa straordinaria lettera di questo straordinario scienziato e di quest’uomo straordinario i cui pensieri continuano ad abitarci, come quelli di tutti i grandi, da Eraclito a Leonardo a Dante a Shakespeare a Milton a Nietzsche a Leopardi, anche se i loro corpi “dormono, dormono” sulla collina o altrove, e le loro menti non hanno più coscienza di sé e tantomeno di ciò che hanno suscitato.
La lettera di Einstein ruota intorno alla questione eterna dei rapporti fra scienza, religione, spiritualità e il mito di Dio. Einstein, da scienziato, è un ‘non credente’: “Sono un religioso, non un credente…Per me la parola ‘Dio’ non è altro che l’espressione e il risultato della debolezza umana”. E liquida la Bibbia (“un libro raccapricciante che suscita orrore” secondo l’interpretazione del laico Sergio Quinzio) il Vangelo e tutte le altre cosmogonie come raccolte di “Leggende venerabili ma piuttosto primitive. Non c’è un’interpretazione, per quanto sottile possa essere (e qui si riferisce precipuamente alla Bibbia, ndr) che mi faccia cambiare idea…Per me la religione ebraica nella sua versione originale è, come tutte le altre religioni, un’incarnazione di superstizioni primitive”. Insomma sono miti fondativi, ma senza nessun riscontro storico e tantomeno scientifico.
Ma Einstein non è un ‘non credente’ integralista, ‘freddo’ alla Rita Levi-Montalcini, se in questa stessa lettera riprende un passaggio di Spinoza che concepiva la figura di Dio come un essere senza forma, impersonale: l’artefice dell’ordine e della bellezza visibili nell’universo. In Einstein sembra quindi esserci comunque e nonostante tutto una tensione verso il trascendente e in questo credo consista la sua ‘spiritualità’. La presenza/assenza di Dio lo turba se nella famosa polemica col collega danese Niels Bohr, che aveva descritto per primo la struttura dell’atomo, gli replica: “Dio non gioca a dadi con l’universo”.
Einstein è ebreo e si riconosce nella cultura ebraica sia pur senza integralismi (“con piacere”) e scrive: “E la comunità ebraica, di cui faccio parte con piacere e alla cui mentalità sono profondamente ancorato, per me non ha alcun tipo di dignità differente dalle altre comunità. Sulla base della mia esperienza posso dire che gli ebrei non sono meglio degli altri gruppi umani, anche se la mancanza di potere evita loro di commettere le azioni peggiori”. E qui Einstein centra una questione molto attuale, che non ha a che vedere con la scienza ma con l’essenza dell’umano, e che risponde a quella legge storica per cui i vinti di ieri una volta diventati vincitori non si comportano molto diversamente dai loro antichi sopraffattori. Altrimenti sarebbe incomprensibile come lo Stato di Israele tenga a Gaza un enorme lager a cielo aperto, quando proprio dei lager gli ebrei sono stati vittime nei modi atroci che ci vengono sempre ricordati.
La lettera venduta l’altro giorno da Christie’s ci riporta anche alla famosa polemica fra Niels Bohr e lo stesso Einstein. In estrema sintesi: Bohr sostiene il “principio di indeterminazione” e cioè che la Scienza non può arrivare a scoprire la legge ultima dell’universo, Einstein al contrario non riuscirà mai a convincersi che non sia possibile, per l’uomo, arrivare alla Verità assoluta. E qui noi, pur nella consapevolezza di inserirci da nani in un confronto fra giganti, stiamo con Bohr che doveva aver ben presente il profondo insegnamento di Eraclito: “Tu non troverai i confini dell’anima (e qui per anima va intesa la Verità, ndr) per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”. E aggiunge: la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana.
Infine in un’altra nota Einstein, nella sua saggezza umana, molto umana e nient’affatto troppo umana ci dà un consiglio, che con la fisica ha poco a che vedere, ma che dovrebbe far rizzare le orecchie ai cantori molto attuali, inesausti e dilaganti delle “sorti meravigliose e progressive”, delle crescite esponenziali e del mito del successo: “Una vita tranquilla e umile porta più felicità che l’inseguimento del successo e l’affanno senza tregue che ne è connesso”.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 12 dicembre 2018)

giovedì 6 dicembre 2018

Gaffe mai vista, quel bulletto di Salvini fa più danni di Renzi e B.


L’invadenza di Matteo Salvini in ogni campo, fuori dalle sue funzioni di ministro degli Interni, non solo è intollerabile ma sta diventando pericolosa e dare giusto fiato a chi teme che sottobanco l’Italia si trasformi in una dittatura dove al posto di Benito Mussolini, che almeno uno spessore politico ce l’aveva, c’è questo bulletto da quattro soldi, più insidioso di Renzi e persino di Berlusconi.
Il ministro degli Interni non può intervenire in indagini in corso e nemmeno riferirne, non tanto e non solo perché può danneggiarle come ha fatto notare il procuratore della Repubblica di Torino Armando Spataro, ma per quella divisione dei poteri fra ordine giudiziario ed Esecutivo che anche i bambini dovrebbero conoscere.
Ai rilievi di Spataro Matteo Salvini ha reagito con parole sprezzanti che sul nostro giornale sono già state riportate da Gianni Barbacetto ma che vogliamo qui riprendere: “Inaccettabile dire che il ministro dell’Interno possa danneggiare indagini e compromettere arresti. Gli attacchi politici e gratuiti lasciamoli fare ai politici che si candidano alle elezioni. Se il procuratore è stanco, si ritiri dal lavoro: a Spataro auguro un futuro serenissimo da pensionato”. Da questa ennesima esternazione si ricava che Matteo Salvini non capisce nulla, o fa finta di non capir nulla, della fondamentale divisione dei poteri, sancita nella modernità da Montesquieu e assunta come cardine da tutte le democrazie liberali. Ma più gravi ancora delle violazioni dello Stato di diritto perpetrate da Matteo Salvini, a noi paiono le sue parole  rivolte a Spataro, uno dei nostri migliori magistrati che nella sua lunga carriera si è occupato di sequestri di persona, terrorismo, criminalità organizzata, traffico internazionale di stupefacenti, mafia, ‘ndrangheta. Non è certamente un caso che quando Antonio Di Pietro motore delle indagini di Mani Pulite lasciò quel ruolo, Francesco Saverio Borrelli chiamò Armando Spataro per sostituirlo.
Io non so come i nostri magistrati, sottoposti ad ogni sorta di attacchi, impediti nella loro delicatissima funzione da leggi demenziali che spesso li costringono a girare a vuoto, riescano a mantenere la saldezza di nervi necessaria per continuare il loro lavoro. Fra le sue numerose pubblicazioni di carattere scientifico Spataro ha pubblicato anche una autobiografia professionale col titolo Ne valeva la pena. Io ci aggiungerei un punto interrogativo. No, caro Spataro, non ne valeva proprio la pena.