giovedì 28 febbraio 2019

Verba volant, scripta manent



Nel saggio del 2014, pubblicato nella versione italiana da Bollati Boringhieri nel 2017, “Le menzogne del web”, Charles Seife scrive come “poi, cinque millenni fa, una nuova invenzione ci inondò con la sua luce radiosa, liberandoci dall’oscurità del tempo antico: la parola scritta”. In precedenza, infatti, “l’informazione doveva essere comunicata da una persona all’altra”. Inoltre, “il supporto su cui veniva registrata l’informazione era il cervello umano” con tutti i rischi e le imperfezioni connesse, legate alla trasmissione nel tempo.
In fondo la parola, per la specie umana, costituisce di fatto l’evoluzione di un guaito, di un barrito, di un cinquettio, di un urlo, di un grido, di un sussurro ……. e anche se il famoso detto latino “Scripta manent” non assicura assolutamente l’eterno.
Sappiamo bene che può garantire solo una lunga vita “al relativo” …… perché la scrittura è legata allo spazio, appunto al tempo, alla dimensione del nostro essere e della nostra avventura nell’esistere.
Comunque scrivere costituisce di per sé una progressiva evoluzione del nostro status, che tende a mantenere stabili e trasmettere fedelmente un insieme definito di parole, fissando ampi discorsi, disquisizioni, messaggi, articoli, poesie, poemi.
Seguendo questa logica, quindi, si potrà anche scrivere sotto dettatura, senza anima …… ma per l’homo sapiens scrivere è anche …….
manifestare un sentimento,
fissare i termini di un contratto,
consolidare regole per la pacifica coesistenza,
annotare semplicemente la spesa da fare,
imbrattare un muro,
dipingere un quadro,
descrivere ciò che riusciamo guardare con i nostri occhi,
riempire le pagine di un diario,
cercare di raccontare,
la bramosia di lasciare una traccia ai posteri,
una forma unica per fantasticare e, magari, utile a far sognare,
insomma, un testimoniare di esistere, di esserci stati.
Facendo seguito a questa disquisizione in premessa mi riallaccio anche al recente saggio di Massimo Recalcati (“A libro aperto. Una vita e i suoi libri”), con il quale l’autore viene a sostenere che non sono i libri a conquistare gli uomini ma, viceversa, che sono questi ultimi a catturarci e che le nostre letture giovanili sono ciò che andrà a costruire le fondamenta del nostro modo di essere.
Nello specifico, sostiene che “I libri sono tagli nel corso delle nostre vite. Ogni incontro d'amore ha la natura traumatica del taglio” e che “L'incontro con un libro è un incontro d'amore”. 
Nel corpo del volume elenca tutta una serie di opere, più o meno classiche e variegate, che lo stesso ha avuto modo di leggere e assorbire e le intreccia con racconti del suo vissuto e con gli studi filosofici e di psicanalisi.
Per quanto ovvio, in qualche modo la stessa cosa può con certezza dirsi per la fotografia.
Ciascuno di noi, al di là dell’indole intrinseca, determinata dalla sensibilità e dalle caratteristiche  del proprio DNA, studia e si rifà sempre a autori e artisti che hanno già tracciato solchi, prima di noi.
In genere, pertanto, nulla di nuovo si muove sotto il sole, se si escludono i pochi eretici pionieri che esistono e ci saranno in ogni tempo e che, se dotati, riescono ad aprire nuove strade.

Dopo aver letto il tutto, l'amico Nino Giaramidaro mi invia le sue considerazioni, che riporto: 

"Si aggirano nel cielo monadi chiare che albergano le sapienze abbandonate da coloro che ci hanno lasciato senza il tempo di consegnarcele. Vagano queste conoscenze faticosamente acquistate durante tutta la vita, rimangono sospese in un limbo sconosciuto del firmamento, in attesa di un incontro: inconscio non cercato, che si verifica per vie e volontà insospettate e misteriose. Così da permettere agli eredi putativi il rispecchiamento, la cui identità ciascuno può trafugare fra i mille nomi che riusciamo a dargli: dal genio al fattore C.
L’interpretazione del rispecchiamento - operazione a posteriori, travaglio doloroso, coscienza di una verità conquistata – è un combattimento fra la prismatica rivelazione e la capacità dell’anima – possiamo usare questa parola, logos, verbo che viene maneggiata con la stessa cautela riservata a un candelotto di Tnt.
Ecco, quando le parole che adottiamo per identificare la nostra verità hanno un “suono giusto” (Elias Canetti) possiamo pensare che la malferma verità della memoria, anche quella recentissima, possa avvicinarsi alla verità assoluta (sempre Canetti) della letteratura e, per estensione, di tutte le altre arti, fotografia inclusa.
Nei nostri scritti, nelle nostre opere dobbiamo sentirvi l’”Inno alla parola” di San Giovanni; bisogna frugare nel segno della parola, pure se nemmeno questo riesce ad evocare dalla sua immutabile forma una verità che valga per tutti i modi di ricevere il verbo, la narrazione, la disperata confessione. Rimane l’anelito sconfitto, l’incompiutezza, lasciandoci soli alla ricerca del bene, dell’uomo buono, dell’ostinarsi a credere che il bene c’è, basta continuare a cercarlo se si è diventati buoni."

L'amico Pippo Pappalardo, dopo aver letto anche lui il mio articolo, risponde:

"Una risposta come un calembour, come un divertissement, come una pappalardata (forma retorica letteraria non ancora ufficializzata dai Lincei). Vado:
Considerate le tue letture, imprescindibile si appalesa la ricognizione di Francesco Antinucci 'Parola e immagine: storia di due tecnologie' Laterza, anno 2011.
Attento, però, stiamo parlando di tecnologie!
Siccome ti sò di noùs e soma alquanto teneri ti confido (sulle orme di Bufalino) che quando la scrittura apparve all’uomo, ebbene, quel giorno, Sherazade morì. Ed io con lei.
Se sei tra coloro che piangono la dipartita, allora arrivederci."

Buona luce a tutti!

© Essec


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