venerdì 29 marzo 2019

Domanda: Al giorno d’oggi è più utile raccontare con le parole o attraverso delle sole immagini?




Esistono in letteratura molteplici modi di scrivere per cercare di esprimere idee e per raccontare.
Le tecnologie da sempre aiutano e incrementando i metodi di comunicazione e basandosi sempre più sull’acquisizione di nuove conoscenze scientifiche, facilitano nell’efficacia e nell’immediatezza della trasmissione dei messaggi.
Ne deriva che il linguaggio visivo oggi consente di sintetizzare, magari in un’immagine o in un breve filmato, concetti e formule comunicative che, con l’esclusivo uso di parole, avrebbero altrimenti comportato un testo articolato e complesso, talvolta necessitante anche di traduzioni in diverse lingue.
A scopo esemplificativo di quanto detto porto due formule diverse attuate per parlare di un evento culturale costituito dalla mostra “Continente Sicilia”, allestita al Centro internazionale di fotografia di Palermo. Attraverso differenti metodi descrittivi, l’obiettivo unico comune rimaneva quello di creare una efficace sintesi narrativa delle circa novanta foto in bianco e nero di Franco Zecchin esposte.
Nello specifico si evidenziano, quindi, i due articoli prodotti, che si discostano significativamente sulla composizione testo/immagini.
Il primo, infatti, basato sul solo testo, si dilunga per cercare di illustrare a parole dei contenuti visivi, con uno scritto che rimanda sì alla fantasia del lettore ma che resta influenzato dalla interpretazione che ne ha fatto chi scrive. Con tutte le parzialità possibili che ne derivano, connesse al soggetto assurto a critico/narratore, nonché al contesto temporale e socio-logistico contemporaneo in cui lo stesso vive.
Il secondo, concentrando al massimo la parte scritta, sostituisce a un insieme di parole una serie di foto che, senza alcun filtro posto a commento, consentono al lettore di raccogliere il messaggio che ogni singola fotografia riesce a trasmettere, per le infinite, complesse e variegate possibili chiavi di lettura personalizzate.
Al fine di poter verificare i due esempi in questione, a prescindere dagli interventi di revisione nel testo, rimando alla lettura dei due articoli.  

https://angolinodelfotoamatore.blogspot.com/2019/03/franco-zecchin-fotografo-magnum.html 
https://www.economiaefinanzaverde.it/2019/03/30/franco-zecchin-fotografo-magnum/ 

In aggiunta agli aspetti sopra esposti, rimane ormai assodato che la fotografia è riconosciuta come una delle forme d'arte, forse fra le più recenti e come spesso s’intreccino incroci della stessa con altre discipline.
Quanti di noi, magari alle prime armi o seguendo mode passate, si sono messi anche dietro un pittore o uno scultore per cercare di raccontare la fase creativa, per descrivere in qualche modo l’artista e il suo metodo, per inserirlo fotograficamente nel contesto urbano/intimo in cui si stava realizzando l'opera. Lo stesso hanno anche fatto da tempo tanti pittori inserendo aspetti tecnici (inquadratura, prospettiva, ricerca nelle linee) assunti successivamente dal mondo della fotografia nelle sue tematiche rappresentative.
Si racconta, ad esempio, che Van Gogh, per realizzare i suoi panorami, andasse in giro accompagnandosi sempre con una cornice, per inquadrare e vedere al suo interno ciò che avrebbe poi costituito il soggetto del suo dipinto.
Ecco, in pratica, fotografare è un po’ la stessa cosa, è come vedere, isolandola, porzioni di realtà che ci circondano, quasi estrapolandole dal contesto generale; ieri attraverso il mirino, oggi con display pure dotati di touch screen.
In conclusione, mi soffermo su un esperimento che conduco da qualche tempo per tentare di raccontare eventi, mostre, musei attraverso semplici scatti fotografici, talvolta ricorrendo anche a delle riprese video o combinando un miscuglio di entrambe le cose.
Anche questo rientra nel discorso fin qui sviluppato; il risultato magari non sempre è appagante (https://photoarteraccontarelarteconlafotografia.wordpress.com/) ma tutto ciò ci introduce nel campo della documentaristica e della filmografia più in generale, che di certo annovera aspetti e tecniche ancor più complesse.

Buona luce a tutti!

© Essec



mercoledì 27 marzo 2019

Massimo Fini: "Sto con Orsetti: l'Occidente è senza valori"


A proposito di Lorenzo Orsetti morto in battaglia combattendo con i curdi contro l’Isis, Vittorio Feltri scrive (Libero 20.3): “Ci domandiamo perché abbia abbandonato la sua specialità di sommelier, non particolarmente stressante, per andare a fare il ganassa in una guerra alla quale nessuno lo aveva obbligato di partecipare. Non riusciamo a capire come mai un tranquillo cittadino italiano, lavoratore impegnato, a un certo punto della sua vita, autentico tran tran, decida di calcare il deserto allo scopo di diventare tiratore e abbattere il maggior numero di canaglie dello Stato islamico. Mistero insondabile”. 
Io invece Orsetti lo capisco benissimo e non solo perché è andato a battersi per una causa giusta, quella curda, ma perché comprendo anche i foreign fighters che, all’opposto, sono andati a combattere per l’Isis. Quello che cercano di colmare questi giovani è il vuoto di senso che si è creato nel mondo occidentale o che di questo mondo ha fatto proprio il modello. Questo fenomeno si lega a quell’altro, anche se molto meno pericoloso, dei ragazzi che si danno agli sport estremi (bungee jumping, volcano boarding, crocodile bungee, limbo skating, wing-walking, scalare a mani nude un grattacielo). Poiché questa vita è un tran tran noiosissimo, come ammette lo stesso Feltri a proposito di Orsetti, tanto vale correre il rischio di perderla. 
Come aveva preannunciato Nietzsche nella seconda metà dell’Ottocento, con un certo anticipo perché era un genio, Dio è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. E’ stato sostituito dalle ideologie nate dall’Illuminismo che proprio di Dio era stato l’assassino. Ma dopo due secoli anche le ideologie sono morte. Cosa ci resta? La Democrazia. Ma la Democrazia è un sistema di regole e di procedure, non un valore in sé, è una scatola vuota che va riempita di contenuti. Purtroppo noi in Occidente questa scatola l’abbiamo riempita solo con contenuti materialisti e quantitativi, cioè, per dirla con Fukuyama, “la diffusione di una cultura generale del consumo” coniugata col “capitalismo su base tecnologica”. Insomma si è voluto mutare l’uomo, quasi in senso genetico, in consumatore, suddito dell’Economia e della Tecnologia. E a me non pare affatto strano, lo ritengo anzi positivo, che i giovani, o perlomeno alcuni di essi, rifiutino questa degradazione che tanto sembra piacere a Vittorio Feltri ed è ritenuta necessaria dai padroni del vapore. Per usare una famosa frase di Oscar Luigi Scalfaro “io non ci sto” o, per meglio dire, non ci starei se avessi vent’anni e, naturalmente, il coraggio necessario.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2019)


giovedì 21 marzo 2019

Franco Zecchin – Fotografo Magnum



Palermo, da qualche tempo, offre ai suoi abitanti l’opportunità di poter visitare una serie di eventi di particolare spessore culturale.
In questa chiave si annovera a pieno titolo la personale fotografica dal titolo “Continente Sicilia” di Franco Zecchin che, con scatti unici, ha saputo ben mescolare - documentandola - la realtà che ha visto e che ha vissuto nell’isola durante la sua attività di fotografo svolta per il dinamico giornale “L’Ora”.
Nel suo periodo operativo figurano, quindi, tante fotografie di mafia ma non solo. Anche scorci esemplificativi di peculiarità morenti o nascenti di una Sicilia in cambiamento, con la riproposizione d’immagini che la nostra memoria ha spesso anche in parte rimosso.
Documentazioni da vedere e rivedere, che inducono a soffermarsi per analizzare meglio i dettagli, per cercare di riscoprire identità di taluni personaggi, per costatare il continuo perdurare di antiche abitudini e tradizioni.
Sono molte le immagini che in uno scatto racchiudono con un’inusuale sintesi interi racconti; altre che rappresentano tracce di tradizioni dissoltesi nel tempo.
Non mancano anche scatti che immortalano eventi che consentono di percepire l’ironia goliardica che ha sempre caratterizzato la Sicilia di provincia.
Visionare la mostra è, in parte, come leggere le pagine di un diario, del ventennio siciliano che va da 1975 al 1994; un diario dove sono annotate oltre a tante tragedie anche testimonianze di partecipazioni e di proteste attuate da una “società civile” oppressa assetata di giustizia.
Per la particolare bellezza e unicità delle foto esposte la personale costituisce, certamente, una delle più belle iniziative attuate dal Centro Internazionale di Fotografia di Letizia Battaglia.
Un plauso a Lei, quindi, per aver portato a Palermo questa notevole mostra di Zecchin, che per lungo tempo è stato, oltre che suo collega al giornale L’Ora, anche compagno di vita.
Per chi ne ha l’opportunità è consigliabile non perdere l’occasione di visitare la mostra (ingresso gratuito) che resterà aperta fino al prossimo 16 giugno.

In merito l’amica Enza Bertuglia, che ha visitato la mostra prima di me, ha scritto nel suo profilo FB: “Oggi pomeriggio sono andata ai Cantieri culturali alla Zisa a vedere la mostra fotografica di Franco Zecchin, al Centro internazionale di fotografia. Che dire? sono rimasta totalmente presa da quelle immagini cariche di una forza comunicativa impressionante. Più di 90 foto b/n e non una banale, non una superflua, non una scontata su una Sicilia messa a nudo lungo un arco di oltre un ventennio, dagli anni '70 agli anni '90. E' raro potere vedere una mostra con tante foto che coniugano in modo perfetto tecnica di ripresa e forza espressiva, tecnica di stampa e toni in equilibrio con l'immagine ... Se mai ce ne fosse stato bisogno, mi sono convinta ancora di più che le corde più profonde del sentire vibrano con il b/n!

Buona luce a tutti!

© Essec

Franco Zecchin nasce a Milano nel 1953, si trasferisce a Palermo nel 1975, dove diventa fotografo professionista. Nel 1977, con Letizia Battaglia, crea il primo centro culturale per la fotografia situato nel Sud Italia e nel 1980 è fra i fondatori del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”. Nel 1988 diviene membro dell’Agenzia Magnum e sue foto fanno parte della collezione dell’International Museum of Photography di Rochester, del MOMA di New York e della Maison Europèenne de la Photographie di Parigi. Oggi vive in Francia.


domenica 17 marzo 2019

Massimo Fini: "L'antisocialismo surreale di Sallusti"


Mercoledì 6 marzo Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale, riferendosi al ‘reddito di cittadinanza’, approvato in questi giorni dal governo, inizia così il suo editoriale: “Oggi è il giorno zero di uno Stato socialista, speriamo provvisorio”. Sallusti avrebbe una qualche ragione se si riferisse al Psi dell’ultimo Craxi che violava princìpi che prima ancora di essere socialisti sono liberali, garantendo a Silvio Berlusconi, il vero proprietario del Giornale sotto la maschera del fratello Paolo, una posizione oligopolista nel settore dell’informazione che è contraria ai princìpi dello stato liberista così come lo avevano previsto i suoi padri fondatori, da Adam Smith a David Ricardo, e manteneva un numero sterminato di parassiti, di prosseneti, di fannulloni, di dame dalla coscia facile, insomma si era trasformato nel partito “dei nani e delle ballerine” come disse il compagno Rino Formica. 
Ma il craxismo non è il socialismo. Socialismo è coniugare una ragionevole uguaglianza sociale con i diritti civili e in questo si differenzia dal comunismo che schiaccia i diritti civili in nome di un’uguaglianza sociale che là dove si è realizzato, per esempio in Unione Sovietica, non è stata raggiunta perché anche lì si è creata una classe politica di privilegiati e di favoriti (la ‘nomenklatura’). Principio fondante e iniziale del socialismo come del liberismo correttamente inteso è che tutti i cittadini abbiano pari opportunità almeno sulla linea di partenza. Per questo il liberismo imponeva tasse ereditarie altissime che farebbero impallidire i Sallusti, i Berlusconi e tutti i neo o pseudoliberisti di oggi. Perché non ci sono solo i fannulloni pronti a sdraiarsi sul divano grazie al reddito di cittadinanza, ci sono anche, e in misura rilevante, i  fannulloni che sul divano ci sono già da sempre, come tanti figli di ricchi, che probabilmente anche Sallusti conosce, il cui unico merito è aver ricevuto una cospicua eredità. 
Comunque oggi il problema non è il socialismo, questa ‘terza via’ fra capitalismo e comunismo che non è riuscita a inverarsi e là dove ha tentato di farlo, vedi l’attuale Venezuela, è stata strangolata dai padroni del mondo. 
Il problema è il turbocapitalismo globalizzante che sta mettendo in ginocchio popoli e individui. E’ un capitalismo nemmeno più industriale, ma finanziario, che non dà lavoro, che non offre lavoro se non a pochissimi. Un abile finanziere può agire anche da solo, o con uno staff ridottissimo, lavorando sul denaro che non è ricchezza ma solo l’apparenza della ricchezza. Il collasso della Lehman Brothers, che ha messo in ginocchio interi Stati con le loro popolazioni, non ne è che l’esempio più evidente, ma solo uno dei tanti. Negli Stati Uniti il problema è stato risolto immettendo nel sistema, nella forma del credito, 3 trilioni di dollari e creando un’enorme bolla speculativa che prima o poi, più prima che poi, ricadrà sulla testa di tutti, forse anche su quella dello stesso Sallusti.
Ma accecato dal suo miope disprezzo per i Cinque Stelle che stanno cercando di avviare un programma di un minimo di riequilibrio sociale in un Paese come il nostro in cui le disuguaglianze sono fortissime e, oserei dire, intollerabili, Alessandro Sallusti queste cose non le vede o piuttosto conoscendone l’intelligenza non le vuole vedere. 
E pensando al giornalismo italiano di oggi, a quasi tutto il giornalismo italiano di oggi, non certamente al solo Sallusti, viene in mente un famoso articolo di Karl Kraus, “La stampa come mezzana”, pubblicato ai primi del Novecento, in cui il celebre scrittore, aforista, polemista mette sullo stesso piano i giornalisti e le prostitute. Intellettuali in questo caso.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2019)

giovedì 7 marzo 2019

Gadgets: il pericolo nei social




Una cosa che oggi, da vecchio, trovo fastidiosa è l’inconcludenza di quelle ripetizioni che non portano valore aggiunto.
Me ne accorgo di più nei momenti in cui cerco di indurre un bambino in tenera età a variare la monotematica di un gioco, di un’applicazione; anche se mi rendo conto che per loro, che sperimentano le cose, è una necessità formativa il ripetere le esperienze, per assimilarne le logiche e impadronirsi delle regole sottostanti.
Le necessità di un soggetto maturo per riconoscere un qualcosa, sia essa una melodia, l’osservazione di un’opera d’arte, la concettualizzazione di un discorso, presuppongono invece quantitativi d’informazioni assai minori, lo stesso pertanto dicasi riguardo alla necessità di un’eventuale ripetitività.
In proposito ricordo come da giovane, negli anni settanta, ero gratificato nell’ascolto di un brano musicale che - a quel tempo e nella sola Italia - ebbe un clamoroso successo, scalando pure le classifiche della hit parade di quegli anni: “Neandertal Man”.
La canzone inglese di un certo Mac Devis in verità non diceva nulla di particolare, anzi ripeteva sistematicamente queste semplici parole:

I'm a neanderthal man
You're a neanderthal girl
Let's make neanderthal love
In this neanderthal world

I'm a neanderthal man
You're a neanderthal girl
Let's make neanderthal love
In this neanderthal world

I'm a neanderthal man
You're a neanderthal girl
Let's make neanderthal love
In this neanderthal world

I'm a neanderthal man
You're a neanderthal girl
Let's make neanderthal love
In this neanderthal world.

A quel tempo il brano ossessivo piaceva anche a me; ero ragazzino, vestivo strasandato  e portavo i capelli lunghi.
Sarà anche per l’età e le tante esperienze musicali, ma i miei gusti di oggi sono cambiati del tutto. Di recente ho riascoltato quel brano e dopo pochi secondi l’ho pure trovato fastidioso.
Non ci crederete, ma oggi, quando sono associato ad altri in affollati gruppi di Whats App, Messanger o qualsivoglia altra diavoleria, mi sembra essere ripiombato in quella fase “ancestrale”.
Con la differenza che mentre ieri la cosa la connotavo tranquillamente per l’aspetto goliardico non vincolante, oggi l’eventuale abbandono del gruppo può determinare a quelli più suscettibili una irritazione; può perfino innescare all’ideatore dell’invadente aggregazione una vera e propria offesa.
E’ l’ennesima riprova dell’uso e del dosaggio e di come tutte le innovazioni comportano sempre una sapiente e accorta gestione.
Se installi un confort o un qualsiasi marchingegno nel contesto fisico e sociale in cui ti muovi, sarebbe bello chiedersi anche se il suo utilizzo continuo (e nel caso invadente) sia sempre una soluzione gradita.

Aggiunge il mio amico D. nella versione rivisitata pubblicata su "Economia & Finanza Verde": "A pensarci bene è tutt’altra cosa di quello che avviene in fotografia, per la quale hai sì un obbligo, financo paradossale. Quello di cercare sempre, attraverso migliaia di scatti, la diversità dell’angolazione, della prospettiva, del caso che, per una frazione di secondo, ti presenta un’immagine. Non puoi essere assolutamente ripetitivo. Non c’è niente di più esiziale della ripetitività in fotografia."

Buona luce a tutti!

© Essec


La cultura, la capacità di giudizio, l'autonomia di pensiero dei giovani che escono da scuola sono i fattori che determinano la qualità della nostra democrazia


La cronaca degli ultimi giorni racconta un aumento preoccupante del numero di aggressioni perpetrate dai genitori nei confronti dei docenti e, più in generale, del totale disprezzo verso ogni autorità educativa, siano insegnanti o allenatore di calcio di una squadra giovanile. Il loro ruolo non viene più riconosciuto e si tenta con ogni strumento di piegarli nel tentativo di assecondare la prestazione dei propri figli che hanno sempre ragione e che non possono essere messi in discussione.
Ci troviamo di fronte a una contrapposizione inedita ma sempre più diffusa, tra l'autorità educativa e l'autoritarismo genitoriale. Come se le regole fossero un ostacolo da superare e l'insegnante non fosse un alleato con cui collaborare in un rapporto di fiducia educativa.
Si trascura di riconoscere, dunque, due dei principi cardine su cui si dovrebbe fondare ogni sistema educativo: l'alleanza tra scuola e famiglia e l'accettazione da parte dei ragazzi del fatto che qualcuno indichi loro gli errori e, insieme, la capacità di superare gli impedimenti, riconoscendo i propri limiti.
I genitori che sostengono in modo arrogante e prevaricatore le ragioni dei propri figli, dimostrano di non essere capaci di accettare i loro fallimenti quasi fossero espressione della mancata capacità genitoriale. Una proiezione totale nei confronti dei ragazzi che devono vivere la loro vita senza che sia frapposto un ostacolo al normale scorrere degli eventi che è fatto di successi ma anche di fallimenti.
Sembra che l'obiettivo principale di questi genitori sia quello di assicurare ai ragazzi una vita di affermazioni positive e di vittorie senza sudore. E infatti i successi vengono premiati anche eccessivamente mentre le sconfitte diventano un incubo per i ragazzi: come si deve essere sentito il giovane calciatore che non ha potuto proseguire, insieme alla squadra, la partita a causa delle intemperanze del padre? Se mio figlio perde è colpa tua. Se mio figlio sbaglia tu non hai alcun diritto di rimproverarlo. Ma, soprattutto, non posso accettare in alcun modo una sua sconfitta e tu ne sei responsabile.
Fa bene Recalcati a definire questa aggressività un "oltraggio alla vita collettiva". Come altro potremmo definire il costante tentativo di mettere in discussione, dileggiare e mortificare l'autorità educativa, quella che -proprio insieme alla famiglia- dovrebbe sostenere e guidare il percorso di crescita dei ragazzi, facendoli diventare cittadini responsabili e consapevoli dei diritti e dei doveri a cui si ispira, o si dovrebbe ispirare, ogni relazione educativa?
La cultura, la capacità di giudizio, l'autonomia di pensiero dei giovani che escono da scuola sono i fattori che determinano la qualità della nostra democrazia e la vitalità della società in cui viviamo. Se i genitori si sottraggono al loro compito che è quello di contribuire a sostenere questo percorso viene meno un ruolo fondamentale.
Oggi la sfida è quella di ricondurre le famiglie dentro il patto e ricostruire la fiducia nelle agenzie educative perché se non contribuiamo a restituire autorevolezza alle figure di riferimento non genitoriali svuotiamo i processi educativi della loro forza.
Se le famiglie assenti o disgregate decidono di superare mancanze, frustrazioni o sensi di colpa sostenendo i ragazzi nel tentativo (comprensibile a quell'età) di costante di delegittimazione delle autorità fanno un danno che pagherà un'intera generazione. Alterare la differenza tra generazioni distrugge il patto educativo e incrina i valori su cui si fonda la collettività.
Si possono educare i figli in tanti modi differenti ma una cosa li deve accomunare tutti: comprendere e tollerare i propri limiti non è un segno di debolezza ma è un atto etico e di onestà da cui non si può prescindere.
Riconoscere i propri errori e accettare le conseguenze è uno strumento con cui si diventa cittadini. Ed è una competenza che deve durare tutta la vita. Questo è il punto da cui parte necessariamente ogni avventura educativa. Si impara da ragazzi e si insegna da genitori.


 

sabato 2 marzo 2019

Afghanistan, il vero specchio dell'Occidente


Su Sette è stato pubblicato un interessante reportage da Kabul di Lorenzo Cremonesi, forse il nostro migliore inviato di guerra, equilibrato, attendibile, credibile. Interessante perché ci fornisce elementi per capire la situazione non solo dell’Afghanistan di oggi ma anche quella di ieri e di domani.
Cominciamo da alcuni dati. Il governo di Ashraf Ghani controlla il 30% del Paese, i Talebani il restante 70% e questo è l’esatto opposto di quanto la stampa occidentale aveva sostenuto finora . Ed è quanto sostengo io da tempo. Non ci voleva un genio per capire che tutto l’Afghanistan rurale, cioè territorialmente la stragrande maggioranza del Paese, è legato alle proprie tradizioni e che qui la sharia non ha alcun bisogno di essere imposta, sta nel dna di quelle popolazioni. Se i Talebani sono meno forti nelle città ciò è dovuto certamente al fatto che Kabul o Herat si erano avviate verso una moderata modernizzazione già in epoca pretalebana, ma anche al fatto che ogni tentativo di conquista delle città da parte dei Talebani è sempre stato stoppato dall’intervento dei bombardieri americani.
Cremonesi sostiene che la situazione dell’Afghanistan attuale è pur sempre migliore di quella dell’epoca talebana. Non tiene conto che quando Omar e i suoi arrivarono al potere, l’Afghanistan usciva da dieci anni di devastante invasione sovietica e da due anni di conflitto civile fra i ‘signori della guerra’. Conflitto che proprio i Talebani erano riusciti a sedare, anche se Massud, il leader dei Tagiki, continuava a porre dei problemi  perché non si rassegnava alla sconfitta. E sarà proprio Massud ad aprire le porte all’intervento americano.
Certo gli afgani erano poveri, come poveri lo sono sempre stati perché il Paese non ha nessuna delle grandi risorse energetiche che altri hanno, a cominciare dal petrolio. Erano poveri, ma non miserabili. Sono due categorie sociologiche diverse. Una cosa è essere povero dove tutti lo sono, altro è esserlo quando vedi che intorno a te crescono grandi e inspiegabili ricchezze. Ed è questo uno dei guasti più gravi portati dall’occupazione occidentale in Afghanistan, in cui anche noi italiani siamo abbondantemente compromessi. Racconta Hamidullah Qasemi, uno dei più importanti uomini d’affari di Kabul: “Negli ultimi cinque anni abbiamo subìto fughe di capitali privati pari a oltre 70 miliardi di dollari”. Da dove vengono questi 70 miliardi? Dal profluvio di dollari che gli americani hanno riversato in Afghanistan per corrompere la popolazione e portarla dalla loro parte. E adesso questi collaborazionisti corrotti se la filano verso esili dorati, che si erano già preparati da tempo in previsione del ritorno talebano, a Istanbul, a Dubai, a New York, in Europa. Nell’Afghanistan non controllato dai Talebani è corrotto l’esercito, è corrotta la polizia, è corrotta la magistratura, è corrotta la pubblica amministrazione.
A petto di questo disastro etico e sociale quali sono stati i vantaggi portati dall’occupazione occidentale? Cremonesi scrive che “6 milioni di afgani girano con i cellulari in mano, s’informano su una cinquantina tra radio e televisioni più o meno libere, trovano cibo nei mercati e hanno i figli che surfano in Internet come a New York, Parigi, Pechino o Roma”. Insomma il progresso –questa non è certamente l’idea del solo Cremonesi- sarebbe aver portato in Afghanistan la nostra nevrosi, la nostra mancanza di dignità, la nostra mancanza di senso, cioè proprio quello che sta corrodendo nel profondo il mondo occidentale e i Paesi che si sono allineati al suo modello.
Cosa succederà in Afghanistan se le forze occupanti se ne andranno e i Talebani riprenderanno il potere che si erano legittimamente conquistati nel 1996? C’è un prima e un dopo. Facendo un’inversione temporale parliamo innanzitutto del dopo. Nei colloqui che sono in corso a Mosca fra Talebani e rappresentanti della società civile non legati al governo Ghani, Nazar Mutmain, uno dei negoziatori, ha affermato: “Le donne andranno a scuola, frequenteranno l’università, ma sempre nel pieno rispetto della legge coranica, che negli ultimi tempi è stata troppo spesso violata”. C’è da precisare che nell’Afghanistan talebano non c’era nessun divieto formale per le donne di frequentare la scuola (si veda il decreto del 1996, pubblicato nel fondamentale libro Talebani di Ahmed Rashid). Solo che i Talebani, nella loro indubbia sessuofobia, non solo non volevano le classi miste ma pretendevano che gli edifici scolastici di maschi e femmine fossero a debita distanza. Ma ancora impegnati militarmente da Massud avevano, nell’immediato, altre priorità e non ebbero il tempo di costruire edifici scolastici dedicati alle donne.
Ma l’eventuale uscita di scena degli americani e la formalizzazione, sempre eventuale, degli accordi che si stanno cercando a Mosca, hanno un prima. Nel 1996 quando il Mullah Omar prese il potere fece giustiziare Najibullah, il presidente fantoccio che i sovietici avevano lasciato a Kabul, e il giorno dopo concesse un’amnistia generale. Ma Omar, uomo di grande saggezza e per nulla assetato di sangue, è morto nel 2015 e gli americani hanno avuto anche l’’astuzia’ di uccidere con un drone il suo numero due, Mansoor, che era della sua stessa generazione, aveva fatto lo stesso percorso e ne seguiva l’impostazione sostanzialmente moderata. Come siano i Talebani delle nuove generazioni post Omar non lo sappiamo. Possiamo però immaginare che dopo 18 anni di guerriglia si siano geneticamente modificati rispetto ai Talebani della prima ora e incarogniti. Certamente non metteranno le mani sui soldati dell’esercito ‘regolare’ afgano loro coetanei, loro affini, costretti ad arruolarsi per la situazione disperata in cui è precipitato l’Afghanistan (Kabul all’epoca di Omar aveva un milione di abitanti, oggi ne ha 6 milioni, che cosa possono fare i ragazzi di Kabul se non arruolarsi, visto anche che l’arrivo del turbocapitalismo occidentale, ma adesso anche cinese, ha distrutto l’artigianato locale?). Ma i collaborazionisti ad alto livello, uomini del governo Ghani, alti ufficiali dell’esercito, magistrati, giornalisti, non se la caveranno a buon mercato. Ci sarà un bagno di sangue. Non vorrei proprio essere nei panni di un giornalista di Tolo Tv.
Si dirà che io ho la ‘fissa’ dell’Afghanistan. Ma in Afghanistan si gioca una partita che lo trascende. Ha detto il giovane Mohammed Saber, 24 anni, intervistato da Cremonesi: “E’ ora di porre fine a tutte queste libertà per le donne. C’è troppa promiscuità, si stanno minando le basi delle nostre tradizioni. Occorre trovare un compromesso tra il liberalismo eccessivo delle città e le spinte conservatrici delle nostre realtà rurali. Ecco il motivo per cui i contingenti stranieri devono andarsene. E’ tempo che noi afgani si prenda finalmente in mano il nostro destino, senza interferenze straniere o di culture e abitudini a noi estranee”.
Ed è questo il punto. Bisogna ritrovare il diritto, dei popoli ma anche degli individui, schiacciato dalla globalizzazione mondiale, ad essere, o a tornare ad essere, ciò che si è.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2019)