mercoledì 14 ottobre 2020

“La vita è un gghiòmmaru ri guai, i nichi ‘nannu picca, i granni ‘nannu assai”

 

Nel film “C’era una volta in America” di Sergio Leone i cinque ragazzi del racconto, delinquenti in erba, si presentano ai titolari di una distilleria proponendo un sistema di loro invenzione per recuperare i carichi di whisky che i contrabbandieri erano costretti a gettare in mare all’arrivo della polizia.  

Il sistema era ingegnoso. Si trattava di legare i carichi a dei galleggianti e di aggiungere ad essi dei sacchi di sale per procurarne l’inabissamento immediato, ma quando il sale andava a sciogliersi, le cassette di alcool sarebbero ritornate a galla per essere facilmente recuperate.

Una tecnica simile forse succede anche con i ricordi di chi è anziano. Avvenimenti apparentemente passati nel dimenticatoio e certi personaggi con le relative storie ad un certo momento riaffiorano spontanee e se ne sente anche il bisogno di renderli pubblici e condividerli.

Oggi mi è capitato di ricevere dall’amico Gaetano un suo scritto che narra di un personaggio che forse anch’io nella comune infanzia avrò pure conosciuto.

Il suo racconto mi ha fatto tornare indietro nel tempo e, nel descrivere i rapporti intergenerazionali d’allora, la sua memoria mi ha fatto ritornare a quei periodi.

Ho chiesto a Gaetano di poter condividere nel mio blog abituale il suo bel ricordo che ha intitolato “La vita è un gghiòmmaru ri guai, i nichi ‘nannu picca, i granni ‘nannu assai” e, avendone avuto l’assenso, lo propongo di seguito spero per il piacere di altri "cursaloti".

 © Essec

 

Nella mia vita ho sempre avuto la predilezione ad avvicinarmi alle persone più anziane di me, questo è stato il primo dei gradini che ho salito per accostarmi all’alto monte della cultura.

Quando ero poco più che quindicenne, incontravo ogni pomeriggio un uomo anziano, che aveva allora poco meno di ottant’anni. Questo personaggio era noto come:‘Zu Carru, (zio Carlo) la cosa che m’incuriosiva era, di averlo visto sempre con la mano sinistra serrata a pugno chiuso.

Questa mano chiusa, che agitava sempre e comunque anche quando chiacchierava con qualcuno, da lontano sembrava un gesto minaccioso; ma di fatto non era un segno di minaccia, perché u ‘Zu Carru di fatto era un uomo buono, morigerato e molto educato.

I più grandi raccontavano che il povero ‘Zu Carrusi si era fatto trent’anni di galera per un omicidio. Io lo guardavo, non mi sembrava possibile che quel vecchio fosse stato un assassino. Lo guardavo e cercando di cogliere dei particolari, come ad esempio dei tatuaggiche in quel periodo erano diffusi tra i galeotti. Ma quest’uomo sia d’estate che d’inverno era sempre coperto, anche solo da una camicia che teneva abbottonata ai polsi. Questo tale sollecitava ogni giorno di più la mia curiosità, più di una volta ero stato sul punto di chiedergli se fosse stato veramente un galeotto.

Una volta chiesi a mio padre cosa ne sapeva di questo ‘Zu Carru, che incontravo quasi ogni giorno al bar, la sua risposta fu evasiva, disse che ne sapeva poco come tutti, essendo venuto da una ventina d’anni ad abitare nel nostro quartiere con la sorella, qualcuno raccontava qualcosa ma di certo nessuno sapeva niente.

Bisogna considerare che fino alla metà degli anni sessanta, fosse ancora in vigore, la pratica dell’omertà e che questa pratica era diffusa pure per le stupidaggini.

Quando andavo alla scuola media si era cambiato l’antico detto «Cu è orbu, surdu e taci, campa cent’anni in paci», con uno più moderno del: “Io non c’ero e se c’ero dormivo…” Quest’ultima battuta fu usata in un film e per un certo periodo diventò il tormentone, che veniva ripetuto, ad ogni domanda a cui non si voleva rispondere; ma io più guardavo o ‘Zu Carru e più mi incuriosiva la sua storia.

Mi sentivo sfacciato a chiedergli se era vero ciò che la gente mormorava, e mi sarei sentito come un giudice al suo processo.

Pesavo e ripensavo a come chiedergli la sua storia ma non trovavo il modo per fargli la domanda che mi frullava in testa da tanto tempo. Intanto il tempo passava e io lentamente mi resi conto che con lui parlavo quasi di tutto, di calcio, di televisione, di cinema e persino di teatro. Si, di teatro, e lo faceva pure con competenza, finché un giorno mi disse che lui aveva letto tanti drammaturghi da Shakespeare a Verga passando per Molière, capii che ne sapeva certo più di me. Questo dubbio mi rendeva difficile domandargli ciò che mi era chiaro in testa: “Ma lei, ha soggiornato per qualche tempo in Via Enrico Albanese?”. Questo, secondo me, sarebbe stato un modo elegante per chiedergli se era stato all’Ucciardone a scontare qualche pena.

Ma come facevo a chiedere a uno che mi aveva detto che Molière era uno pseudonimo e non il suo vero nome e che il drammaturgo in realtà si chiamava: Jean-BaptistePoquelin, io lo sapevo ma tanti studenti come me certamente non lo sapevano, non glielo dissi per non sembrare un piccolo arrogante, saccente studentello.

Un giorno, dopo l’ennesimo caffè pomeridiano preso al bar, parlando delle solite sciocchezze, u ‘Zu Carro mi guardò negli occhi da sopra la tazzina del caffè, mi sembrò uno sguardo un poco inquietante, nella mia mente in quei pochi secondi provai come se una tempesta si fosse abbattuta nella mia testa e provai pensieri opposti e confusi. Quando lentamente scopri tutto il volto e apri la bocca disse: “Mi puoi fare due domande, a cui io risponderò, ma dopo che ti avrò risposto non potrai chiedermi nessun dettaglio”.

Mi sentii come se una pentola di acqua bollente mi fosse stata versata addosso, come se stessi affogando e mi mancò il fiato.

Secondo me lui, si accorse del mio disagio e mi sorrise. Io non capii se quel sorriso fosse di simpatia o di divertimento per il mio evidente imbarazzo, riuscii a dire con un filo di voce, soltanto: “Ci posso pensare dato che sono solo due le domande?” Sorrise e annui, – paga il caffè – disse e si allontanò.

Guardando la sua nuca mi sembrò di vedere il suo volto compiaciuto per avermi sconvolto.

Ci pensai una notte come formulare le domande per avere più risposte possibili e non trovai il modo di formularle.

Mi stavo convincendo che non avrei avuto mai il coraggio di chiedergli qualcosa e più ci pensavo e più mi sembrava che il cervello diventasse decotto, non trovando una soluzione razionale.

Pensai di non andare all’incontro quotidiano del rito “caffè. Poi pensai pure che se non fossi andato si sarebbe sentito autorizzato a credere che fossi solo uno spocchioso arrogante che, al momento della verità, per paura della risposta, non avrei saputo fare la domanda giusta, vanificando l’occasione che mi aveva dato.

Mentre mi recavo all’incontro ricordai quello che mi ripeteva sempre un mio insegnante quando frequentavo la scuola media. Diceva sempre: “Se vuoi avere le risposte giuste devi saper fare le domande giuste”.

Si, pensavo, valla a trovare la “domanda giusta”, con un ex galeotto qualsiasi domanda avrebbe potuto urtare la sua sensibilità.

Passando davanti alla chiesa parrocchiale mi segnai con il segno di croce, pensai che in confessione si chiede perdono dopo un esame di coscienza e un contrito pentimento; forse avevo trovato la prima domanda da fare, gli avrei chiesto se si fosse pentito di quello che aveva fatto. Non ebbi modo di fare congetture e riflettere ulteriormente perché una mano si posò sulla mia spalla, mi girai ed era lui.

Mi chiese se ero pronto a fare le mie domande: certo, risposi baldanzoso. Allora – rispose lui – prima il caffè e poi l’interrogatorio, mi disse ridendo quasi sghignazzando. Riuscii solo a calare la testa senza proferire parola.

Finito il rito del caffè ci incamminammo senza parlare, si fermò mi guardo e disse: dai spara, fammi queste maledette domande. Pensai alla confessione e gli dissi: “‘Zu Carru,  s’è pentito di quello che ha fatto?”

Lui abbassò la testa e dopo qualche secondo, che a me sembro un secolo, con un velo di tristezza disse: certo, ho avuto trent’anni per pentirmi. Poi cambiò espressione come di chi è soddisfatto di essersi liberato di un peso e aggiunse: ma vuoi metter il piacere che ho provato quando il dito ha sfiorato i due grilletti e sentito partirei due colpi dal fucile? E poi, vedere il tuo nemico accasciarsi al suolo. Non è giusto ma purtroppo è così, si prova la soddisfazione e si affrontano le conseguenze.

Dai fammi la seconda domanda.

Non sapevo cosa dire e pensai al suo pugno chiuso, e gli chiesi: perché non apre mai la mano sinistra, neanche quando parla?

Lui alzò lentamente il braccio e apri la mano e vidi solo un groviglio di spago per imballaggio.

Lo guardai stupito e lui rispose alla mia domanda: “La vita è un gghiòmmaru ri guai, i nichi ‘nannu picca, i granni ‘nannu assai” che, tradotto per chi non è siciliano, vuol dire: la vita è un groviglio di guai, i piccoli ne hanno pochi, i grandi ne hanno molti.

 

(Racconto di Gaetano Martorana ©  postato su “Il Siciliano”)


2 commenti:

  1. Un bel racconto di vita vissuta e pieno di significati. Ciao Toti e buona serata, Angelo.

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  2. Ottima foto. Mio fratello è sempre il migliore.

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