Colleghe Senatrici, Colleghi Senatori,
rivolgo il più caloroso saluto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quest’Aula. Con
rispetto, rivolgo il mio pensiero a Papa Francesco.
Certa di interpretare i sentimenti di tutta l’Assemblea, desidero indirizzare al Presidente Emerito
Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri e la
speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato.
Il Presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole: “Desidero esprimere
a tutte le senatrici ed i senatori, di vecchia e nuova nomina, i migliori auguri di buon lavoro, al
servizio esclusivo del nostro Paese e dell’istituzione parlamentare ai quali ho dedicato larga parte
della mia vita”.
Rivolgo ovviamente anch’io un saluto particolarmente caloroso a tutte le nuove Colleghe e a tutti i
nuovi Colleghi, che immagino sopraffatti dal pensiero della responsabilità che li attende e dalla
austera solennità di quest’aula, così come fu per me quando vi entrai per la prima volta in punta di
piedi.
Come da consuetudine vorrei però anche esprimere alcune brevi considerazioni personali.
Incombe su tutti noi in queste settimane l’atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra
Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore...una follia senza
fine.
Mi unisco alle parole puntuali del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “la pace è urgente
e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale,
della libertà del popolo ucraino”.
Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva.
In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla
dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di
questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica.
Ed il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai
miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine
ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita,
fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova
per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato!
Il Senato della diciannovesima legislatura è un’istituzione profondamente rinnovata, non solo negli
equilibri politici e nelle persone degli eletti, non solo perché per la prima volta hanno potuto votare
anche per questa Camera i giovani dai 18 ai 25 anni, ma soprattutto perché per la prima volta gli
eletti sono ridotti a 200.
L’appartenenza ad un così rarefatto consesso non può che accrescere in tutti noi la consapevolezza
che il Paese ci guarda, che grandi sono le nostre responsabilità ma al tempo stesso grandi le
opportunità di dare l’esempio.
Dare l’esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio
con “disciplina e onore”, impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse.
Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa assemblea la politica urlata, che
tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto, interpretando invece una politica “alta” e
nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli
avversari, si apra sinceramente all’ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza.
Le elezioni del 25 settembre hanno visto, come è giusto che sia, una vivace competizione tra i
diversi schieramenti che hanno presentato al Paese programmi alternativi e visioni spesso
contrapposte. E il popolo ha deciso.
È l’essenza della democrazia.
La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito
altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l’imperativo di preservare
le Istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono
operare nell’interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti.
Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e
dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di
istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti.
In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la
Costituzione Repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il
testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel
settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti.
Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre
sentita amica.
In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché
da essa si sono sentiti difesi.
E anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative
non conformi ai principi costituzionali – e purtroppo questo è accaduto spesso – la nostra Carta
fondamentale ha consentito comunque alla Corte Costituzionale ed alla magistratura di svolgere un
prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto.
Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede
all’art. 138), ma consentitemi di osservare che se le energie che da decenni vengono spese per
cambiare la Costituzione – peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi – fossero state invece
impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.
Il pensiero corre inevitabilmente all’art. 3, nel quale i padri e le madri costituenti non si
accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su “sesso, razza, lingua, religione, opinioni
politiche, condizioni personali e sociali”, che erano state l’essenza dell’ancien regime.
Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla “Repubblica”: “rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non è poesia e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo
programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli!
Le grandi Nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività
civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria.
Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute
come date “divisive”, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della
Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica?
Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un
patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell’esempio, di gesti
nuovi e magari inattesi.
Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune
responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro
l’imbarbarimento del dibattito pubblico, contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Permettetemi di ricordare un precedente virtuoso: nella passata legislatura i lavori della
“Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e
istigazione all'odio e alla violenza” si sono conclusi con l’approvazione all’unanimità di un
documento di indirizzo. Segno di una consapevolezza e di una volontà trasversali agli schieramenti
politici, che è essenziale permangano.
Concludo con due auspici.
Mi auguro che la nuova legislatura veda un impegno concorde di tutti i membri di questa
assemblea per tenere alto il prestigio del Senato, tutelare in modo sostanziale le sue prerogative,
riaffermare nei fatti e non a parole la centralità del Parlamento.
Da molto tempo viene lamentata da più parti una deriva, una mortificazione del ruolo del potere
legislativo a causa dell’abuso della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia. E le gravi
emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza.
Nella mia ingenuità di madre di famiglia, ma anche secondo un mio fermo convincimento, credo
che occorra interrompere la lunga serie di errori del passato e per questo basterebbe che la
maggioranza si ricordasse degli abusi che denunciava da parte dei governi quando era minoranza, e
che le minoranze si ricordassero degli eccessi che imputavano alle opposizioni quando erano loro a
governare.
Una sana e leale collaborazione istituzionale, senza nulla togliere alla fisiologica distinzione dei
ruoli, consentirebbe di riportare la gran parte della produzione legislativa nel suo alveo naturale,
garantendo al tempo stesso tempi certi per le votazioni.
Auspico, infine, che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo in
collaborazione col Governo un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di
dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell’inflazione e
dell’eccezionale impennata dei costi dell’energia, che vedono un futuro nero, che temono che
diseguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente anziché ridursi. In questo senso avremo sempre
al nostro fianco l’Unione Europea con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata
capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale.
Non c’è un momento da perdere: dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che
nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e
tracimare.
Senatrici e Senatori, cari Colleghi, buon lavoro!
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