domenica 21 dicembre 2008

Se fossi miliardario...

Se fossi miliardario non farei come Berlusconi, che si tiene tutto per sé e non dà niente a nessuno e fa solo i filmi sporchi. Lui ai poveri non li pensa. Lui è miliardario solo per sé e per la sua famiglia, ma per gli altri non lo è. Io se fossi ricco come lui farei il bene, per andare in Paradiso. Se io fossi miliardario li darei tutti ai poveri, ai ciechi, al Terzo Mondo, ai cani randaggi. A Caivano ci sono un sacco di cani randaggi che li sperdono per le strade. Loro quando vanno in villeggiatura li sperdono, e quelli vanno sotto alle macchine. Io se fossi miliardario costruirei tutta Napoli nuova e farei i parcheggi. Ai ricchi di Napoli non darei una lira, ma ai poveri tutto, soprattutto ai terremoti. Poi farei uccidere tutta la camorra e salverei i drogati. Per me mi comprerei una Ferrari Testarossa vera, una villa e una cameriera per mamma. A papà non lo farei andare più a lavorare ma lo farei stare in penzione a riposarsi, a Nicolino gli comprerei i vestiti e una 126, a Patrizia tutti i dischi di Madonna. Poi comprerei una macchina nuova pure al mio maestro, perché la sua è tutta ammaccata, e infine vorrei andare a Venezia per vedere Venezia. Infine vorrei parlare con Maradona e invitare a casa mia Madonna, per mia sorella Patrizia. Io tutto questo lo potrò fare, se vincerò il biglietto di Agnano che ha comprato papà.

Marcello D'Orta - IO SPERIAMO CHE ME LA CAVO - Sessanta temi di bambini napoletani

Faust 2001

Un giorno un signore quarantenne, agile, elegante, ben vestito, capelli curatissimi, faccia tirata a lucido, costosissima valigetta griffata in mano, riuscì a farsi ricevere dal Cavaliere. A questi il visitatore fece subito buona impressione: a prima vista, pareva il tipico dirigente-manager del partito che aveva fondato, poteva essere un buon acquisto in vista della prossima campagna elettorale. «Desidera?», domandò il Cavaliere. «Io? Io niente», fece il visitatore. «È lei che desidera qualcosa da me». Il Cavaliere s’irritò. Lui non aveva niente da desiderare, avendo tutto. «Ci dev’essere un equivoco», disse brusco. «Nessun equivoco, mi creda. Lei, ieri sera, alle diciannove e tredici esatte, solo nel suo bagno, guardandosi allo specchio ha pensato: Darei qualsiasi cosa per riavere i miei capelli. Ed eccomi qua a servirla». Senza dargli tempo di reagire, il visitatore aprì la valigetta, ne trasse fuori una dozzina di disegni e li posò sulla scrivania: in ognuno d’essi, la testa del Cavaliere era incoronata da una diversa, ma sempre foltissima, capigliatura: ora riccioluta, ora liscia, ora a onde… «Scelga quella che le piace di più. Il contratto ce l’ho qua già pronto. Appena l’avrà firmato, si ritroverà in testa il modello che desidera. E le garantisco anche che, fino alla morte, non perderà più nemmeno un capello». «Lei quale ditta rappresenta?», domandò il Cavaliere. «Non rappresento altro che me stesso. Non ha ancora capito chi sono?». Lo disse in modo tale che il Cavaliere capì. Il visitatore era il Diavolo in persona. Dunque tutto quello che aveva detto era vero. Bastava concludere il patto e avrebbe riavuto i suoi capelli. «Quindi, secondo la tradizione, lei vorrebbe in cambio la mia anima», disse lentamente il Cavaliere. Il visitatore lo guardò, leggermente stupito, ma non aprì bocca. Il Cavaliere sospirò, ci pensò ancora un momento, poi allungò la mano. «E va bene, firmiamo questo contratto», fece. A quel punto il visitatore si mise a sghignazzare. «La sua anima? Lei vorrebbe darmi in contropartita la sua anima? Ma non lo sa che da tempo non accettiamo più anime? Era un commercio che piaceva a mio nonno, che andava sempre in perdita, poveraccio, e piaceva ancora di più ai poeti che ci ricamavano sopra». «E allora lei che cosa vuole in cambio?». «L’ottantacinque per cento di tutto quello che possiede, televisioni, aziende, giornali, società, ville, tutto. Non è per niente esosa, la nostra richiesta. Pensi alla figura che farà sui manifesti elettorali, sicuramente vincerà la campagna». «In questo caso, preferisco farmi ritoccare le fotografie», disse il Cavaliere. E lo congedò.

(Andrea Camilleri)



COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA SULLA LOGGIA MASSONICA P2

CONCLUSIONI

La trattazione che abbiamo condotto nel corso dei capitoli che precedono ci consente di procedere alla formulazione di alcune considerazioni di ordine conclusivo, specifiche sul problema della Loggia P2 e del suo inserimento nella vita del Paese. L'esame di queste situazioni ci consente in primo luogo di ribadire con fermezza il rilievo assoluto che la Loggia P2 ha rivestito nelle vicende della vita nazionale, intrecciandosi ad essa secondo trame che, se non completamente conosciute, non è possibile ignorare o ridurre ad interpretazioni di basso profilo. Questa è stata peraltro la valutazione che l'opinione pubblica - alla quale sola, si spera, troppo affrettatamente si è inteso fare riferimento, in pur autorevole sede, quando sì è parlato di "improvvisati tribunali di opinione" - ha istintivamente fornito al momento della pubblicazione delle liste, con un generale movimento di allarme e di necessariamente generica riprovazione. La documentazione in possesso della Commissione, la mole di dati e di notizie in essa contenute, le audizioni effettuate, le argomentazioni che da un tale complesso patrimonio conoscitivo è possibile svolgere motivatamente, nonché smentire le prime reazioni della pubblica opinione, si allineano dinanzi alla nostra attenzione per suffragare, in ben precisa direzione, il quadro iniziale quale si ricavava dalla semplice consultazione delle liste. Un quadro che, pur nella non ancora precisata nettezza di particolari e di aspetti anche fondamentali, disegna una riconoscibile trama che si presta a risolvere molti interrogativi e altri ne apre, nel contempo, di inquietante portata, tali, gli uni e gli altri, da non consentire sommarie liquidazioni dei fenomeno e delle sue molteplici inaspettate ramificazioni. L'esame degli avvenimenti ed i collegamenti che tra essi è possibile instaurare sulla scorta delle conoscenze in nostro possesso portano infatti a due conclusioni che la Commissione ritiene di poter sottoporre all'esame del Parlamento. La prima è in ordine all'ampiezza ed alla gravità del fenomeno che coinvolge, ad ogni livello di responsabilità, gli aspetti più qualificati della vita nazionale. Abbiamo infatti riscontrato che la Loggia P2 entra come elemento di peso decisivo in vicende finanziarie, quella Sindona e quella Calvi, che hanno interessato il mondo economico italiano in modo determinante. Non si è trattato, in tali casi, soltanto del tracollo di due istituti di credito privati di interesse nazionale, ma di due situazioni finanziariamente rilevanti in un contesto internazionale, che hanno sollevato - con particolare riferimento al gruppo Ambrosiano - serie difficoltà di ordine politico non meno che economico allo Stato italiano. In entrambe queste vicende, la Loggia P2 si è posta come luogo privilegiato di incontro e centro di intersecazione di una serie di relazioni, di protezioni e di omertà che ne hanno consentito lo sviluppo secondo gli aspetti patologici che alla fine non è stato più possibile contenere. In questo contesto finanziario la Loggia P2 ha altresì acquisito il controllo del maggiore gruppo editoriale italiano, mettendo in atto, nel settore di primaria importanza della stampa quotidiana, una operazione di concentrazione di testate non confrontabile ad altre analoghe situazioni, pur riconducibili a preminenti centri di potere economico. Queste operazioni infine, come abbiamo visto, si sono accompagnate ad una ragionata e massiccia infiltrazione nei centri decisionali di maggior rilievo, sia civili che militari e ad una costante pressione sulle forze politiche. Da ultimo, non certo per importanza, va infine ricordato che la Loggia P2 è entrata in contatto con ambienti protagonisti di vicende che hanno segnato in modo tragico momenti determinanti della storia del Paese. La seconda conclusione alla quale siamo pervenuti è che in questa vasta e complessa operazione può essere riconosciuto un disegno generale di innegabile valore politico; un disegno cioè che non solo ha in se stesso intrinsecamente valore politico - ed altrimenti non potrebbe essere, per il livello al quale si pone - ma risponde, nella sua genesi come nelle sue finalità ultime, a criteri obiettivamente politici. Le due conclusioni alle quali siamo pervenuti ci pongono pertanto di fronte ad un ultimo concludente interrogativo: è ragionevole chiedersi se non esista sproporzione tra l'operazione complessiva ed il personaggio che di essa appare interprete principale. E’ questa una sorta di quadratura del cerchio tra l'uomo in sé considerato ed il frutto della sua attività, che ci mostra come la vera sproporzione stia non nel comparare il fenomeno della Loggia P2 a Licio Gelli, storicamente considerato, ma nel riportarlo ad un solo individuo, nell'interpretare il disegno che ad esso è sotteso, e la sua completa e dettagliata attuazione, ad una sola mente. Abbiamo visto come Licio Gelli si sia valso di una tecnica di approccio strumentale rispetto a tutto ciò che ha avvicinato nel corso della sua carriera. Strumentale è il suo rapporto con la massoneria, strumentale è il suo rapporto con gli ambienti militari, strumentale il suo rapporto con gli ambienti eversivi, strumentale insomma è il contatto che egli stabilisce con uomini ed istituzioni con i quali entra in contatto, perché strumentale al massimo è la filosofia di fondo che si cela al fondo della concezione politica del controllo, che tutto usa ed a nessuno risponde se non a se stesso, contrapposto al governo che esercita il potere, ma è al contempo al servizio di chi vi è sottoposto. Ma allora, se tutto ciò deve avere un rinvenibile significato, questo altro non può essere che quello di riconoscere che chi tutto strumentalizza, in realtà è egli stesso strumento. Questa infatti è nella logica della sua concezione teorica e della sua pratica costruzione la Loggia Propaganda 2: uno strumento neutro di intervento per operazioni di controllo e di condizionamento. Quando si voglia ricorrere ad una metafora per rappresentare questa situazione, possiamo pensare ad una piramide il cui vertice è costituito da Licio Gelli; quando però si voglia a questa piramide dare un significato è giocoforza ammettere l'esistenza sopra di essa, per restare nella metafora, di un'altra piramide che, rovesciata, vede il suo vertice inferiore appunto nella figura di Licio Gelli. Questi è infatti il punto di collegamento tra le forze ed i gruppi che nella piramide superiore identificano le finalità ultime, e quella inferiore, dove esse trovano pratica attuazione, ed attraverso le quali viene orientata, dando ad essa di volta in volta un segno determinato, la neutralità dello strumento. Che questa funzione di travaso tra le due strutture non sia eccessiva per un personaggio quale Licio Gelli ci sembra indubbio: non solo egli viene a trovare una logica e concretamente accettabile collocazione, ma il fenomeno stesso nel suo intero appare non improbabile nella sua struttura complessiva e nelle sue finalità ultime. Questa interpretazione del fenomeno può essere feconda di risultati in sede analitica qualora non venga intesa in modo meccanico, come delimitazione netta di zone o aree di collocazione di ambienti e personaggi, ma piuttosto come esemplificazione illustrativa del ruolo di punto di snodo che il personaggio Gelli ha rivestito ponendosi come elemento di raccordo tra forze di varia matrice e di diseguale rilievo, che tutte hanno concorso alla creazione come alla gestione della Loggia Propaganda. Funzione certo di non minor momento se, avuto riguardo, dall'eterogeneità delle forze e dei gruppi interessati a questo progetto, dei quali le liste rappresentano uno spaccato esemplificativo, non è, come ha osservato il Commissario Andò, l'identità dei fini ultimi a rendere efficiente l'organizzazione e forte il progetto, ma il sistema delle convenienze reciproche che costantemente interagisce. Quali forze si agitino nella struttura a noi ignota questo non ci è dato conoscere, sia pure in termini sommari, al di là dell'identificazione del rapporto che lega Licio Gelli ai Servizi segreti; ma, riportandoci a quanto detto in proposito, certo è che la Loggia P2 ci esorta ad una visione della, realtà nella sua variegata e spesso inafferrabile consistenza. Ne viene anche un invito ad interpretazioni non ristrette ad angusti orizzonti domestici, ma che sappiano realisticamente guardare ai problemi della nostra epoca, ed al ruolo che in essa il nostro Paese viene a ricoprire. In questa dimensione la Loggia P2 consegna alla nostra meditazione una operazione politica ispirata ad una concezione pre-ideologica del potere, ambìto nella sua più diretta e brutale effettività; un cinismo di progetti e di opere che riporta alla mente la massima gattopardesca secondo la quale "bisogna che tutto cambi perché tutto resti com'era" : così per Gelli, per gli uomini che lo ispirano da vicino e da lontano, per coloro che si muovono con lui in sintonia di intenti e di azioni, sembra che tutto debba muoversi perché tutto rimanga immobile. La prima imprescindibile difesa contro questo progetto politico, metastasi delle istituzioni, negatore di ogni civile progresso, sta appunto nel prenderne dolorosamente atto, nell'avvertire, senza ipocriti infingimenti, l'insidia che esso rappresenta per noi tutti - riconoscendola come tale al di là di pretestuose polemiche, che la gravità del fenomeno non consente - poiché esso colpisce con indiscriminata, perversa efficacia, non parti dei sistema, ma il sistema stesso nella sua più intima ragione di esistere: la sovranità dei cittadini, ultima e definitiva sede del potere che governa la Repubblica.

CONSIDERAZIONI FINALI E PROPOSTE

La ricostruzione della vicenda della Loggia Propaganda 2 che abbiamo condotto nel corso della presente relazione e lo studio di come tale organismo ha interferito nella vita nazionale, testimoniano della molteplicità dei campi di intervento nei quali sono rinvenibili tracce della presenza dì questa organizzazione con un rilievo spesso determinante, sempre comunque incisivo e qualificato. La Commissione parlamentare al termine dei propri lavori ha pertanto dedicato un dibattito apposito all'esame delle eventuali proposte da sottoporre al Parlamento, al fine di indicare mezzi e rimedi tali da evitare il ripetersi del fenomeno analizzato o di situazioni consimili. Tale dibattito, in considerazione della cruciale importanza dei temi in argomento, non ha potuto non registrare diverse prospettive e punti di dissenso, testimonianza ulteriore del non marginale rilievo di questo fenomeno la cui analisi conduce direttamente all'esame di questioni fondamentali inerenti al funzionamento ed allo sviluppo del sistema democratico. Comprendere e valutare la vicenda della Loggia P2 nel suo reale significato e nelle sue ultime implicazioni vuol dire infatti pervenire all'analisi di alcuni nodi centrali, politicamente decisivi in un regime di democrazia che voglia coniugare l'efficienza dell'apparato di governo con la più ampia estensione del consenso dei cittadini che in tale regime esprimono la loro volontà politica. Se logico appare, dunque, constatare che a tale discorso ogni parte politica è approdata, portando il patrimonio delle scelte ideologiche e politiche che le è proprio ed elaborando quindi diverse conseguenti prospettazioni risolutive, è dato peraltro al relatore registrare come unanime sia stata l'individuazione dei temi di intervento e l'analisi del loro rilievo nel contesto generale dell'analisi del fenomeno. Il primo argomento che viene in esame è quello relativo ai problemi connessi all'applicazione della norma costituzionale concernente l'istituto stesso dell'inchiesta parlamentare. La Commissione nel corso dei suoi lavori ha dovuto registrare come la norma che estende a tali organismi i poteri dell'autorità giudiziaria, con i limiti inerenti, può dar luogo, quando dalla astratta previsione si scenda nel concreto delle attuazioni, ad alcuni problemi di non secondario momento. La Commissione infatti, che dei poteri attribuiti ha fatto uso incisivo in più di una occasione, ha dovuto affrontare e risolvere situazioni di delicato rilievo giuridico, con particolare riferimento alla tutela dei diritti dei singoli a fronte di provvedimenti autoritativi emanati dalla Commissione in tema di perquisizioni e sequestri, ordinati al fine di soddisfare esigenze istruttorie di particolare significato. Non vi è dubbio infatti che l'attuale normativa non consenta l'interposizione di gravame contro tali provvedimenti quando provenienti da autorità diversa da quella giudiziaria, secondo quanto ha espressamente confermato la Suprema Corte di cassazione, ma non v'è parimenti dubbio che in tale quadro si viene a concretare per il cittadino una anomala situazione, tale che lo vede sprovvisto, nel caso indicato di ogni mezzo di ricorso di fronte a provvedimenti che incidano sulla sfera dei diritti soggettivi. La Commissione, facendosi carico di questa anomalia, ha provveduto a convocarsi appositamente in ulteriore istanza per deliberare in ordine a ricorsi presentati da cittadini, ma non è chi non veda come il problema sia di ordine più generale e meglio andrebbe prospettato con la elaborazione da parte del Parlamento di una legge-quadro che disciplini l'adeguamento delle norme del codice di procedura penale ai casi nei quali l'organo procedente sia costituito da una Commissione parlamentare di inchiesta. Tale normativa consentirebbe, ferme restando le prerogative del Parlamento e dei suoi membri in sede di inchiesta, di realizzare l'applicazione del dettato costituzionale senza peraltro dar luogo a situazioni di incerta tutela dei diritti dei singoli, risolvendo anche, come ha sottolineato il Commissario Ricci, ulteriori problemi quali quelli inerenti all'acquisizione di deposizioni di fronte alla Commissione d'inchiesta e l'assunzione da parte di essa di rogatorie. Ulteriore argomento di esame da parte della Commissione è stato quello della funzionalità dell'istituto dell'inchiesta, tema per il quale si è registrata una convergenza di opinioni sul danno all'efficienza dei lavori che deriva dalla pletoricità della sua composizione. A tal fine si ritiene, come ha proposto il Commissario Battaglia, che un più ristretto gruppo di commissari, selezionato garantendo sempre il criterio della proporzionalità fissato dalla Costituzione, meglio risponderebbe alle esigenze di riservatezza, di incisività e di sollecitudine dei lavori che, quanto più assicurate, tanto più contribuiscono alla credibilità politica di questo istituto. Il dibattito in Commissione ha logicamente assunto come premessa allo svolgimento dell'analisi propositiva le conclusioni alle quali si è giunti lungo il corso del lavoro nelle varie parti e sui diversi argomenti attraverso i quali si è sviluppato lo studio del fenomeno della Loggia P2. La ramificata attività di infiltrazione di questo organismo nei più svariati settori della vita nazionale ha di necessità condotto l'esame a considerare aspetti anche di dettaglio della legislazione in atto in diversi e disparati campi, per i quali è stata prospettata l'esigenza di soluzioni normative diversamente articolate. Quello che in sede conclusiva il relatore ritiene di poter sottolineare è che questa discussione è riconducibile ad alcuni temi fondamentali che si riportano alla sostanza delle conclusioni alle quali si è pervenuti e che la Commissione unanime ha individuato come di rilievo preminente. Primo fra tutti può essere individuato l'argomento della funzionalità degli apparati e del controllo del loro operato in sede politica. Si è potuto rilevare infatti, attraverso lo studio condotto, il ruolo centrale che gli apparati tecnici di supporto e di collaborazione hanno rispetto all'attività di governo e si è individuato nell'apprezzamento del loro ruolo mediatamente politico uno degli elementi di maggior interesse nel progetto politico della Loggia P2, che nella sua concreta attuazione è pervenuto a realizzare quello che il Commissario Rizzo ha stigmatizzato come un uso privato della funzione pubblica da parte di alcuni apparati dello Stato. Il problema si è così posto al centro del dibattito conclusivo ed ha evidenziato in primo luogo un sostanziale accordo sul rilievo che in tale materia assumono le procedure inerenti alle nomine dell'alta dirigenza. Si tratta di problema non da oggi oggetto di esame e di dibattito tra le forze politiche, al quale la Commissione può portare il contributo di alcune conoscenze che le sono proprie, relative all'esperienza del tutto peculiare che ha costituito oggetto della propria indagine. Riportandoci a quanto osservato nel precedente capitolo, il dibattito in Commissione ha evidenziato il convincimento, comune a molti Commissari, che l'esatta impostazione di questa tematica chieda di esaminare il problema delle nomine alla luce di criteri che realizzino il massimo della trasparenza delle procedure attraverso le quali si concreta la discrezionalità del potere politico in questa materia. Il dibattito ha peraltro sottolineato come sia avvertita l'esigenza di un sistema di controllo politico che non si limiti alla fase preventiva, ma si estenda all'operato dei massimi dirigenti anche successivamente alla cessazione delle loro funzioni, al fine di pervenire, come ha indicato il Commissario Ruffilli, ad una responsabilizzazione più compiuta della gestione degli incarichi loro affidati. In questa prospettiva il dibattito si è centrato sui problemi inerenti all'attività di uno degli apparati il cui operato riveste connotati di maggiore delicatezza, ovvero i Servizi segreti. E’ questo un tema nel quale le opposte esigenze dell'autonomia dell'apparato e del controllo politico, della trasparenza e della necessaria riservatezza richiedono un discorso prudente, che rifugga da astratte prese di posizione. Il Commissario Fallucchi ha sottolineato la peculiarità di questo apparato al quale devono essere riconosciute, per sua natura, condizioni di operatività affatto speciali alle quali mal si appongono vincoli di troppo puntuale articolazione. Non è chi non veda peraltro come quello dei Servizi segreti sia campo di attività di somma importanza, poiché viene in esso coinvolto il tema preminente della sicurezza nazionale e gli aspetti di politica interna ed estera che a questo momento fondamentale della vita del Paese si collegano. La Commissione ha esaminato il problema alla luce delle gravi emergenze risultanti dall'istruttoria e delle conclusioni alle quali si è pervenuti, prospettando due possibili direttrici di intervento. Vi è chi ha ipotizzato più puntuali procedure di controllo e di pubblicità, in ordine alle quali peraltro non si è mancato di sollevare l'obiezione già ricordata sulla. natura particolare dei servizi che a questi apparati vengono affidati. Una indicazione in senso diverso è venuta dal Commissario Ruffilli, il quale ha prospettato una possibile linea alternativa a quella meramente procedurale, in una diversa considerazione dell'istituto dei reati ministeriali. Questa osservazione ci conduce a rilevare in via generale come il vero problema di fondo in materia di controllo e di funzionalità degli apparati vada individuato in ultima analisi nella non eludibile esigenza di una compiuta responsabilizzazione del potere politico, che di essi ha la guida e quindi l'ultima responsabilità in sede di gestione e di affidabilità. L'esperienza storica della Loggia P2 ci rivela, secondo quanto già osservato, che comportamenti etorodossi delle strutture di supporto possono e debbono trovare freno adeguato nel controllo che di esse effettua il potere politico inteso nella sua globalità, sia come potere attivo di governo, sia come controllo democratico che l'opposizione esercita nei confronti dell'uso che di quel potere viene fatto. Partendo da una ferma assunzione delle responsabilità politiche nella gestione di queste situazioni si potrà allora pervenire allo studio di perfezionamenti tecnici, che comunque da soli non costituiscono rimedio risolutivo. L'ordine di considerazioni esposto ha condotto la Commissione ad una concorde conclusione sulla riaffermata centralità del ruolo del Parlamento come definitiva sede responsabile dei controlli preventivi e successivi, variamente modellati, ai quali riportarsi in ultima istanza per garantire la funzionalità e l'affidabilità del sistema nelle sue varie articolazioni, politiche non meno che amministrative. Ma perché questo discorso non rimanga nell'indistinto va rilevato che l'esperienza della Loggia P2 deve condurre ad una rimeditazione di questa tematica secondo una linea che porti ad individuare precise situazioni di controllo e di assunzione di responsabilità politica, piuttosto che ad una generica dilatazione di competenze. Una indistinta estensione, infatti, concretando sostanzialmente una duplicazione delle procedure, finirebbe per non influire sulla loro incisività in relazione a situazioni determinate, perché il problema, come individuato dal Commissario Ruffilli, è non solo e non tanto quello del controllo, ma quello dell'individuazione di responsabilità per le quali si risponda in modo non formale. Questo ordine di considerazioni conduce al secondo dei temi di maggior rilievo politico individuati dalla Commissione, poiché il tema del controllo in genere e di quello parlamentare in specie è strettamente legato al problema della pubblicità dell'ordinamento, secondo l'identificazione tra i due concetti proposta dal Commissario Ricci, per il quale la democraticità di un sistema politico è in relazione alla quantità di informazioni rilevanti che circolano all'intemo del sistema stesso. A questi fini lo studio della vicenda storica della Loggia P2, della sua genesi come del suo sviluppo, ci mostra in termini di esperienza concreta, prima ancora che come questione di principio, tutte le conseguenze alle quali conducono limitazioni non strettamente motivate del criterio di trasparenza generale dell'ordinamento. Estendendo ad un più generale contesto una osservazione del Commissario Andò, è dato affermare che la persistenza di inutili zone di opacità del sistema costituisce il presupposto fondamentale ed imprescindibile per dare vita ad attività che si pongono nell'illegalità o al margine della legalità, in quell'area di comportamenti che l'uso sapiente e smaliziato delle leggi consente di individuare a chi sappia e possa far leva sul tecnicismo e sulla estesa articolazione dell'intero complesso normativo. Non vi ha dubbio in proposito che il primo e fondamentale correttivo di fronte a tali situazioni vada cercato nella generale adozione di forme di pubblicità che rendano possibile il controllo che i vari soggetti dell'ordinamento, pubblici o privati che siano, reciprocamente esercitano sulla loro attività nel quadro dell'ordinamento democratico. A questo fine uno degli insegnamenti di maggior momento che da questa vicenda si può trarre, è l'aver dimostrato al di là dì ogni possibile contestazione che la trasparenza dell'ordinamento costituisce la garanzia prima contro il manifestarsi di forme di potere alternativo le quali, traendo origine ed alimento da una non compiuta estrinsecazione di questo principio, si pongono esse stesse come strutture che aspirano al controllo della società o di suoi settori. Tale in sostanza è stata la Loggia P2, e tali sono, in più limitato ambito, le forme associative di stampo mafioso richiamate, studiando la struttura associativa di questa organizzazione, da altri autorevoli organi giurisdizionali. Quando si pervenga alla comprensione piena del rapporto intrinseco e funzionale tra segretezza e forme di potere alternativo, del quale la presente relazione ha cercato di fornire illustrazione ampia e definitiva, non apparirà eccessivo il rilievo proposto dai Commissari Ricci e Bellocchio, secondo i quali il tasso di democraticità dell'ordinamento è direttamente proporzionale alla sua trasparenza. L'applicazione del principio di trasparenza è stata dalla Commissione esaminata con riferimento dettagliato al più svariati settori dell'ordinamento, in ordine ai quali non si è mancato di registrare, atteso il tecnicismo della materia, diversità di avvisi e di soluzioni, con l'identificazione comune peraltro di alcuni settori nei quali questa tematica si ritiene degna di particolare attenzione. Tali, ad avviso dei commissari, sono i comparti normativi della legislazione economica, con particolare riferimento a quella bancaria e valutaria, e delle procedure amministrative, in specie quelle concernenti le nomine dei massimi dirigenti. Un particolare esame è stato dalla Commissione rivolto all'applicazione del principio di trasparenza alla materia associativa, tema questo che non ha potuto registrare un accordo unanime, attesa del resto l'importanza anche ideologica dell'argomento. Sulla scorta del dibattito effettuato il relatore ritiene in proposito di sottolineare in primo luogo che il problema delle associazioni deve correttamente essere inquadrato, non tanto nella prospettiva di determinare quale estensione, maggiore o minore, dare al diritto dei singoli di associarsi, quanto piuttosto in quella di contemperare tale imprescindibile diritto individuale con il diritto della collettività, non meno degno di considerazione, di essere tutelata dal distorto uso che di esso possa essere operato da soggetti dell'ordinamento, del che è esperienza ampiamente documentata la vicenda della Loggia P2. In questo senso i Commissari Andò e Ruffilli hanno interpretato l'esigenza di democraticità, prevista dall'articolo 49 della Costituzione con riferimento ai partiti politici, come criterio-guida indicato dal Costituente nella materia, anche in considerazione del rilievo fondamentale che nella vita pubblica queste organizzazioni rivestono. Al fine di un corretto inquadramento del problema, che prescinda da polemiche strumentali, il relatore vuole infine osservare che questo fondamentale diritto dell'individuo viene a trovare applicazione in una società, quale quella contemporanea, informata a larghi criteri di tolleranza e di comprensione verso motivazioni morali ed ideologiche di qualsiasi orientamento. Partendo da tale constatazione, segno tangibile dei valore non formale della democrazia italiana, è auspicabile che il diritto di associazione venga a porsi come fondamentale momento per l'esplicazione ed il potenziamento delle attività umane nella società, secondo il ruolo che la Costituzione mostra di attribuirgli. L'ampiezza del dibattito svolto dalla Commissione è in relazione alla gravità del fenomeno oggetto dell'inchiesta, che si è posto come motivo di inquinamento della vita nazionale, mirando ad alterare in modo spesso determinante il corretto funzionamento delle istituzioni, secondo un progetto che, per usare l'espressione del commissario Formica, mirava allo snervamento della democrazia. Il suo sviluppo ha accompagnato momenti di centrale rilievo nella nostra storia recente, contrassegnandone le tormentate vicende con una presenza della cui estensione ed incisività questa relazione perviene a dare testimonianza sicura, ma non conoscenza completa ed esauriente. Il punto di approdo di questa vicenda è segnato dalla legge con la quale il Parlamento ha deciso, con tempestivo provvedimento, lo scioglimento dell'organizzazione e dalla successiva legge con la quale è stata creata questa Commissione d'inchiesta. La successione di questi provvedimenti ha chiarito oltre ogni verosimile dubbio, che compito di questa Commissione non era quello di emettere un giudizio, perché tale giudizio era già stato formulato dal Parlamento che nella sua sovrana responsabilità aveva decretato che per consimile organizzazione non vi era posto legittimo nel nostro ordinamento. A questo giudizio la Commissione si è riportata, intendendo come suo compito principale fosse quello di studiare e di analizzare il, fenomeno non al fine di suffragare a posteriori un giudizio già emesso, procedura questa, allora, invero aberrante, ma quello di portare la propria vigile attenzione sul passato affinché dalla sua conoscenza si traessero le ragioni onde fenomeni analoghi non abbiano a ripetersi nel futuro. In questo senso i lavori della Commissione e la sua stessa relazione conclusiva vanno letti come la ricerca di un ragionato patrimonio conoscitivo ed interpretativo che, muovendo da una esperienza concreta, consenta di meglio comprendere i problemi della nostra democrazia al fine di consentirne il libero sviluppo. Problemi, sia detto a fugare ogni inutile e a volte interessato pessimismo, di crescita e di maturazione, come ha affermato il Commissario Ruffilli, che sono testimonianza essi stessi della vitalità del sistema democratico e della qua intatta capacità di determinare il proprio futuro. Queste considerazioni ci inducono a rilevare, secondo lo spunto emerso in Commissione, come il dibattito politico nel Paese si sia da ultimo incentrato, con significativa contemporaneità all'esplodere di questa vicenda, su due temi che le forze politiche hanno individuato come di preminente rilievo in questo momento storico: la questione morale ed il problema della riforma delle istituzioni. Temi questi di eminente rilievo politico, il primo non meno che il secondo, perché essi vertono sul ruolo che l'ortodossia dei comportamenti individuali e la compiuta capacità delle istituzioni a dare risposta ai problemi della realtà sociale rivestono ai finì di un ordinato procedere della vita democratica. In questo ordine di argomentazioni e di proposte il lavoro della Commissione e le sue conclusioni possono utilmente trovare il modo di inserirsi. L'esperienza delle deviazioni nel corretto uso degli istituti, spesso secondo forme inusitate, e nei comportamenti di soggetti investiti di alte responsabilità - basti qui ricordare il triste quadro che emerge dal fascicolo M.FO.BIALI - mostra sul terreno concreto della realtà storica la stretta interrelazione esistente tra una compiuta deontologia dei comportamenti individuali e il funzionamento ordinato degli istituti. Chi voglia dunque affrontare questi temi evitando di cadere in considerazioni di retorico moralismo o di astratta ingegneria costituzionale, potrà trovare nel lavoro della Commissione ampi spunti di meditazione e l'invito a ricordare che le istituzioni si identificano, prima ancora che nei princìpi scritti e nelle perfettibili costruzioni normative, negli uomini che in esse vivono ed operano e che ad esse danno concreto valore ed efficacia. Soccorre a questo proposito e nel quadro delle considerazioni sviluppate l'argomento della compiuta responsabilizzazione dei comportamenti individuali emerso dal dibattito in Commissione, riportato ai massimi vertici della dirigenza degli apparati e del potere politico che ad essi è preposto, come elemento imprescindibile di garanzia politica al fine di un corretto funzionamento del sistema. Le conclusioni alle quali la Commissione parlamentare di inchiesta è pervenuta al termine dei propri lavori muovendo dalla legge di scioglimento della Loggia massonica Propaganda 2, mostrano, in relazione ai quesiti posti dal Parlamento nell'articolo I della legge istitutiva della Commissione, che tale organizzazione, per le connivenze stabilite in ogni direzione e. ad ogni livello e per le attività poste in essere, ha costituito motivo di pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico. La presente relazione è in grado di fornire una documentata ricostruzione del fenomeno ed una attendibile spiegazione delle sue origini, della sua struttura e delle sue finalità,, tale da consentire al Parlamento una ragionata meditazione in ordine ai problemi dell'ordinamento democratico e delle misure da adottare a difesa della sua conservazione e del suo progresso. Accanto a queste conclusioni la Commissione non ha mancato di sottolineare gli interrogativi di non lieve momento che rimangono tuttora aperti: nodi insoluti il cui scioglimento potrà semmai arricchire i risultati ai quali si è pervenuti, nelle loro linee fondamentali, ma difficilmente pervenire a ribaltarne in modo determinante il profilo politico essenziale. Per tali motivi la Commissione, assolvendo il mandato affidatole, consegna la sua relazione conclusiva, nel sereno convincimento che questo documento, così come il libero esame e l'aperta discussione che su di esso il Parlamento e i cittadini intenderanno svolgere, non potranno che porsi al servizio dell'interesse primario della democrazia e della Nazione.

(Legge 23 settembre 1981, n. 527)


venerdì 19 dicembre 2008

Vedere senza esser visti. Una superbia divina

Platone dice che “se uno, con la parte migliore del suo occhio (la pupilla) guarda la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso”. Questo riconoscimento, reso possibile dal reciproco incontro degli sguardi, oggi è in qualche modo impedito dall’uso sempre più diffuso degli occhiali da sole, grazie ai quali, chi li porta può vedere senza essere visto. Una prerogativa questa che gli uomini hanno sempre temuto, e come tutte le cose temute e scongiurate, hanno espulso dalle pratiche della loro vita comunitaria e attribuito alla divinità che, col suo occhio, vede senza essere vista. Nel primo libro della Bibbia leggiamo che Adamo ed Eva si aggiravano nel Paradiso terrestre in ingenua nudità, ma non appena gustarono il pomo dell’albero proibito “s’accorsero di essere nudi e ne provarono vergogna” (Genesi 3,7). È una vergogna che non nasce dalla nudità del loro corpo, ma dallo sguardo di Dio che li “mette a nudo”. Erano nudi, ma solo dopo quello sguardo “divennero” nudi e perciò si nascosero e fuggirono. Ma che succede quando un occhio vede senza essere visto? Succede che chi è visto viene spogliato della sua soggettività e ridotto a “oggetto” dello spettacolo altrui, viene negato come persona e ridotto a cosa. Ne è un esempio l’episodio di Jole, narrato da Erodoto e ripreso da Hegel nelle pagine della sua Estetica dedicate al pudore. Candaule, re dei Lidi, offre la sua sposa nuda alla vista di Gige, suo alabardiere, per mostrargli che è la più bella donna del mondo. Ma Jole, la sposa, vedendo Gige sgusciare dalla porta, ne prova vergogna. L’indomani lo convoca e, per riparare l’onta, gli offre un’alternativa: o uccide il re e si impossessa di lei e del regno, oppure muore. Con la morte dell’alabardiere, la regina ritiene di poter spegnere lo sguardo che l’ha guardata senza essere visto, privandola della soggettività e riducendola a oggetto del suo spettacolo. In alternativa, facendo accedere l’alabardiere al suo talamo, la regina ritiene di poter recuperare la soggettività consentendo al proprio corpo di rivestirsi della reciprocità degli sguardi. Nella reciprocità, infatti, non c’è più il pericolo dell’oggettivazione della persona, del suo decadimento a cosa, della sua alienazione laggiù, in quello sguardo nascosto che segretamente la deruba, esponendola senza difesa. Se queste sono le dinamiche sottese allo sguardo di chi vede senza essere visto, portare gli occhiali da sole, anche quando il sole non c’è, non è un atto innocente. Sotto, inosservato, lavora un esercizio di potenza che degrada le persone a oggetti nel mondo, a cose tra le cose, perché il non poter vedere chi mi guarda disintegra la reciprocità della relazione. Coperti dagli occhiali da sole, gli occhi dell’altro sono su di me senza distanza, e insieme mi tengono a distanza. La presenza su di me dello sguardo nascosto stabilisce infatti una distanza che mi separa da lui e insieme la sensazione di essere vulnerabile, in uno spazio da cui non posso evadere, in cui sono senza difesa, in breve “sono visto”. La posizione di “guardato”, genera la vergogna. Questa parola che deriva da “vereor gognam”, temo la gogna, è quanto vuol ottenere chi guarda senza essere visto, e cioè la mia riduzione a oggetto in un mondo da cui lo sguardo dell’altro mi ha espropriato, come capita agli innamorati quando sono visti. Il mondo delle loro effusioni non è più il loro mondo, perché è diventato lo spettacolo dello sguardo altrui. Nel guardare senza essere visti non c’è solo un esercizio di potenza ma una vera e propria violenza che, oltre a oggettivarmi, mi espropria del mio mondo. Il mondo che poc’anzi era mio defluisce infatti verso l’altro e, in questa fuga senza fine, io mi perdo nella mia esteriorità. In questa esteriorità, scrive Sartre, è la mia alienazione, perché chi mi guarda senza poter essere guardato nega le mie relazioni col mondo e dispiega le sue. Gli occhiali da sole sottendono anche il desiderio di mascherare il proprio aspetto, di non offrirlo nella naturalezza dei suoi tratti. La maschera infatti dissimula il volto, e, quando degrada a trucco, di cui gli occhiali da sole sono una componente, lo altera per ingannare e fuorviare lo sguardo dell’altro. In tutto ciò c’è una spaventosa fuga da sé che fa dire ad ogni donna e a ogni uomo mascherato dai suoi occhiali neri o fumé: “Io sono un altro”. Che tradotto significa: io non sono più me stesso, ma il mio simulacro. Tentare di comunicare con chi nega il suo sguardo rischia di arrestarsi di fronte all’incomunicabilità di quella donna o di quell’uomo con se stessi, e chi prova a decifrarne il messaggio coglie solo una negazione, un nascondersi, non solo all’altro ma anche a sé. Se però dovessimo cogliere nello sguardo che si nega dietro gli occhiali da sole l’invocazione a una decifrazione, andiamogli incontro, e, con tutto il garbo necessario a chi sa di mettere in crisi un’identità, chiediamogli per prima di cosa di togliersi gli occhiali da sole.

Umberto Galimberti (“la Repubblica”, 30 aprile 2006)

Il viaggio del Papa, le paure dell' India LE RAGIONI DEGLI ALTRI

Il viaggio del Papa, le paure dell' India LE RAGIONI DEGLI ALTRI Una delle principali ragioni dei conflitti e, al limite, delle guerre e' che chi si trova da una parte non capisce le ragioni di quelli che sono dall'altra. La situazione si aggrava quando chi, trovandosi a raccontare quei conflitti o quelle guerre, si schiera con gli uni o con gli altri, ne rinforza così i pregiudizi e con ciò contribuisce a rendere ancor più irriconciliabili le due posizioni. La visita del Papa in India, col seguito di giornalisti che parlano solo con i suoi portavoce o con alcuni rappresentanti dei cristiani di qui, è un caso tipico di rappresentazione parziale della situazione: da un lato ci sarebbero le vittime, le suore, i sacerdoti e i missionari, dall'altro i boia, le masse urlanti dei “fondamentalisti indù", per l' occasione stranamente messi nello stesso fascio dei loro più acerrimi nemici, i fondamentalisti islamici. Le ragioni percui i cristiani qui si sentono ora minacciati e perseguitati sono ben descritte. Ma le ragioni degli altri? Nessuno sembra troppo preoccuparsene. Forse è perchè da cinque anni vivo in India e faccio un punto di stabilire dei rapporti con “gli altri", che mi e' stata recapitata una lettera originariamente indirizzata al Papa, ma molto probabilmente persasi per strada e non fatta arrivare nelle mani del destinatario. La lettera è scritta da Swami Dayananda Saraswati, un noto monaco indiano, rifondatore dell' insegnamento vedantico ed uno degli ideologi - il più moderato - del movimento di rinascita induista. La lettera in due paginette rispettose e concilianti spiega appunto le “ragioni" degli altri e cerca di attirare l'attenzione del Pontefice sul nocciolo del conflitto così come esso è visto dagli induisti. I punti della lettera sono questi: - l'India è un Paese di antica civiltà e con una cultura religiosa che non ha difficoltà ad accettare le varie tradizioni religiose arrivate qui attraverso i secoli; - la Chiesa con il Vaticano Secondo ha sì riconosciuto il valore delle varie religioni, ma solo come mezzi per preparare al Cristo, e questo preoccupa milioni di indù perchè implica una teologia di conversione; - le religioni si distinguono fra quelle che convertono, come il Cristianesimo e l' Islam, e quelle che non convertono, come l'Induismo, l'Ebraismo e lo Zoroastrismo. Le prime sono necessariamente “aggressive", le seconde no; - le conversioni sono una intrusione nel profondo di una persona e tendono a distruggere comunità e culture vecchie di secoli. Le conversioni sono una forma di violenza e come tali generano violenza; la libertà di praticare la propria religione è un diritto naturale di tutti, ma libertà di religione non può significare aver un programma di conversioni, perchè un tale programma è un' aggressione nei confronti della libertà religiosa altrui; - ogni religione ha una sua bellezza ed il mosaico delle diverse religioni non fa che arricchire l' insieme dell' umanità . La lettera al Papa conclude: “Durante gli anni del Suo pontificato, Lei ha notevolmente contribuito a cambiare certi atteggiamenti della Chiesa. In nome delle religioni non aggressive del mondo e delle religioni locali dei vari Paesi, io Le chiedo di bloccare le conversioni e di creare le condizioni in cui tutte le culture religiose possano vivere e lasciar vivere". L' appello, già formulato due anni fa in occasione di una conferenza interreligiosa organizzata dalle Nazioni Unite, alle quali si chiedeva ugualmente di intervenire in questo senso per evitare l'acuirsi dei conflitti religiosi nel mondo, è chiaro e deve essere capito nel contesto di una cultura, come quella indiana, che, pur non volendo isolarsi dal resto del mondo, cerca a suo modo di mantenere, ed oggi - con il Bjp (Partito nazionalista indiano) al governo - di rafforzare, la sua identità. La religione ne è una parte fondamentale e la parola “conversione" è un anatema perchè suscita ricordi di umiliazioni e sconfitte subite dagli indiani secoli fa quando gran parte del Paese venne sopraffatto dagli invasori musulmani. Centinaia di migliaia di indù vennero allora convertiti a fil di spada all' Islam e centinaia di templi indù vennero abbattuti per essere rimpiazzati da moschee. Furono quelle conversioni a creare le condizioni percui al momento dell'indipendenza dall'Inghilterra il Paese venne arbitrariamente spaccato in due tronconi: il Pakistan, a maggioranza musulmana, e l'India, a maggioranza indù. Sono state quelle conversioni di quasi 500 anni fa e quella spaccatura del 1947 a dare origine al più grande conflitto interno che ancor oggi indebolisce e di tanto in tanto insanguina il Paese. Il Cristianesimo non è mai stato in questo senso una minaccia paragonabile a quella musulmana: non solo perchè la percentuale di cristiani sull' intera popolazione è insignificante, ma perchè il Cristianesimo, con la sua presenza qui di quasi duemila anni, è diventato a suo modo una delle tante religioni indiane ed una in cui gli indiani riconoscono vari aspetti della loro. Il fatto che quella religione sia poi stata complice del colonialismo non la rende particolarmente invisa in un Paese in cui le tracce di quel tempo sono ancora dovunque e dove i “colonizzatori" sono generosamente ricordati come “parte della nostra storia". La preoccupazione nei confronti delle conversioni cristiane ha a che fare con la progressiva introduzione nel Paese di tutto ciò che la modernizzazione, vista soprattutto come occidentalizzazione, comporta. Nuovi prodotti, nuove idee, nuovi valori stanno lentamente mutando il modo di vivere e di pensare degli indiani, specie quelli urbanizzati. Da qui la reazione di quelli - e sono ancora tantissimi - che cercano di impedire all'India di diventare un Paese “globalizzato", un Paese come tutti gli altri. Per questo i politici di qui simbolicamente non si vestono, come ormai fanno i dirigenti cinesi, con giacca e cravatta. Per questo qualcuno si chiede giustamente perchè si debba presto celebrare anche qui la fine di un secondo millennio, calcolato secondo un calendario fondato sulla nascita di Cristo, il cui nome non sarebbe che una variazione del dio Krishna nato in India molto prima e la cui capitale, ora sotto il mare, è appunto oggetto di grandi scavi archeologici per essere riportata alla luce.

Terzani Tiziano - lunedi , 08 novembre 1999

Bettino Caxi - Discorso alla Camera dei Deputati del 3 luglio 1992

Il 3 luglio 1992 Bettino Craxi tiene un importante discorso alla Camera. Nel suo intervento, il leader socialista chiede a tutto il Parlamento, governo e opposizione, di assumersi la responsabilità di dare una soluzione politica alla crisi della Prima Repubblica.

Nella vita democratica di una Nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno ed amico che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, io ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone. In questo senso ho sempre pensato e penso che un minuto prima che una situazione degeneri, bisogna saper prendere una decisione, assumere una responsabilità, correre un rischio. Non credo, Onorevole Amato, d’essere stato il solo ad aver tirato un sospiro di sollievo il giorno in cui Lei ed i suoi ministri avete giurato nelle mani del Capo dello Stato. Sono proprio convinto che il medesimo sentimento ha provato la grande maggioranza del Paese. Lo hanno di certo provato tutti coloro che avvertivano il rischio di una crisi troppo aspra e confusa, troppo prolungata, e valutavano il peso delle conseguenze ch’essa aveva già provocato e le più gravi che ancora avrebbe finito con il determinare. La concretezza, la serietà e la sobrietà dei primi passi ch’Ella ha già compiuto ottenendo la fiducia del Senato, confermano la buona scelta del Capo dello Stato e rendono ancor più convinta la fiducia che ci apprestiamo a dare in questa Assemblea al Suo governo ed al Suo programma di governo. Nell’insieme, molto variegato, delle voci che La stringono d’assedio con i loro no, non sono fortunatamente mancati anche i buoni consigli, i propositi costruttivi, qualche apprezzamento, qualche disponibilità ad una collaborazione parlamentare. Ed è questa certamente una buona cosa se così effettivamente sarà. Chi invece ha definito il suo governo un governo “piccolo piccolo”, ha solo dato prova di uno stile “piccolo piccolo” usando, per la verità, argomenti così piccoli che al loro confronto il Suo Governo appare un gigante. Onorevole Presidente del Consiglio, so bene che a Lei non manca né l’esperienza, né la competenza necessaria per distinguere i buoni argomenti critici, che possono avere un loro fondamento ed una loro logica, dagli argomenti pretestuosi e rumorosi che, come i sassi gettati nell’acqua, fanno solo cerchi sempre più larghi che poi scompaiono. Se crede, si conforti pensando a quanto capitò a me, quando ebbi la ventura di divenire il primo presidente socialista della storia del nostro paese. Fui salutato allora come «pericoloso per la democrazia» dall’Onorevole Berlinguer, per poi sentire in quegli anni l’Onorevole Occhetto proclamare la necessità, cito testualmente, di «spezzare l’infernale spirale della rincorsa a destra» e di combattere «i sogni decisionisti ed impotenti», sino a farneticare della presenza di «interventi autoritari» e di «elementi di regime e di gollismo strisciante». Già allora, di rincalzo, tuonava da par suo il direttore di “Repubblica”, che nell’83 definiva quel governo: «Il ministero più partitocratrico che mai si fosse visto…». Mentre l’inserimento dell’Onorevole Scalfaro nella compagine governativa come Ministro degli Interni veniva considerato un «episodio squallido». Il Suo Governo si presenta oggi con una base parlamentare ristretta e tuttavia può contare in partenza sulla maggioranza dei voti parlamentari. Vi sono diversi studi nei quali si può leggere come in un ampio raggio delle democrazie parlamentari di tutto il mondo, i gabinetti di minoranza hanno costituito circa un terzo di tutti i governi del dopoguerra. In Italia, una maggioranza limitata viene invece considerata e trattata come una minoranza anche se l’esperienza italiana di tante legislature sta a dimostrare che l’ampiezza delle maggioranze non corrisponde affatto ai risultati legislativi. Sta di fatto che dopo il risultato elettorale del 5 aprile che aveva ridotto, principalmente a causa di una sensibile perdita della DC, la rappresentanza parlamentare della formula di coalizione e di governo dell’ultimo anno della legislatura, sarebbe stato di certo più utile e più ragionevole realizzare una coalizione più ampia. Questa possibilità non si è concretata perché non si sono mai viste insieme tante disponibilità da un lato e tante indisponibilità dall’altro. Mai la dialettica politica aveva registrato insieme tante aperture e tante chiusure, tante offerte e tanti rifiuti. Difficile indagarne tutte le cause. Esse sono certamente varie, diverse e differenti tra loro. Di certo, questa rigidità non è apparsa affatto derivare da insanabili divergenze di ordine programmatico tra le forze che avrebbero potuto ricercare e trovare un terreno comune di intesa ed una collaborazione anche graduata. Un programma è sempre frutto di una trattativa. Lo si accetta o lo si respinge dopo aver condotto e sperimentato un negoziato. Non c’è stata invece nessuna base di trattativa e nessun negoziato, ci sono stati prevalentemente dei veti e delle pregiudiziali, con l’illustrazione di argomenti e di condizioni, varie e variabili, tutt’altro che convincenti. Viene fatto di ripetere con il grande inglese: «Una causa debole e ingiusta non ammette trattative (Enrico IV – Parte II) ». In particolare, dall’area delle forze che costituivano la precedente formula di governo sono stati rivolti tanto al PDS che al PRI insistenti inviti. Ciò è stato fatto anche in forma tale da collocare questi partiti, insieme o separatamente, in una notevole posizione arbitrale di forza ed influenza. Il tutto come si sa ha finito solo con il girare su se stesso. Debbo supporre che tutto ciò è avvenuto ed avviene poiché le cose che avvengono non possono non avere un qualche senso politico, in attesa di un giorno che verrà e di un messia che non è ancora arrivato. Ed è così che, mentre da un lato si protesta per il ritorno ad un vecchio equilibrio e ad una formula considerata prematuramente morta e sepolta, dall’altro tutti hanno potuto costatare che non si sono fatte avanti né ipotesi di coalizione diverse, né alternative concrete realistiche, praticabili, salvo, per la verità, il delinearsi sullo sfondo delle sagome di ipotesi tecniche e istituzionali, buone forse a governare solo fasi di transizione e di brevissimo periodo. Si è così alla fine rinsaldato un legame di solidarietà, che per la verità non si era mai interrotto tra i quattro partiti della precedente maggioranza ed ha ripreso corpo la formula precedente con il concorso della SVP e dell’Union Valdotain e di altri illustri parlamentari. Essa si presenta, allo stato delle cose, come la sola concretamente possibile, la sola disponibile a prendere su di sé le difficili responsabilità del momento per porre fine ad un vuoto politico, per dare un governo al Paese, per evitare un avvio inconcludente e disastroso della legislatura. E’ stata un’assunzione di responsabilità inevitabile, necessaria, doverosa. E’ una soluzione destinata ad andare incontro a molte difficoltà che si potranno superare se la solidarietà tra le forze politiche si mostrerà reale e non apparente ed anche e meglio ancora se i dialoghi possibili si riveleranno effettivamente tali. Una soluzione che avrà al contrario vita tormentata, corto respiro, e raggio d’azione limitato se la coalizione a quattro risulterà in concreto essere o costretta ad essere a cinque, a sei, a sette, a causa delle divisioni che si potrebbero manifestare all’interno dei partiti della coalizione. Certo è che sarà proprio in tutta questa complessa e difficile fase di avvio che si decideranno le sorti della legislatura. Una legislatura che ha un grande dovere cui assolvere e che ha di fronte a sé compiti di eccezionale portata. Sono doveri e compiti che derivano in primo luogo da una crisi che non è una semplice crisi politica di forze e di rapporti e relazioni tra le forze. Essa è in realtà la profonda crisi di un intero sistema. Del sistema istituzionale, della sua organizzazione, della sua funzionalità, della sua credibilità, della sua capacità di rappresentare, di interpretare e di guidare una società profondamente cambiata che deve poter vivere in simbiosi con le sue istituzioni e non costretta ad un distacco sempre più marcato. Del sistema dei partiti, che hanno costituito l’impianto e l’architrave della nostra struttura democratica, e che ora mostrano tutti i loro limiti, le loro contraddizioni e degenerazioni al punto tale che essi vengono ormai sistematicamente screditati ed indicati come il male di tutti i mali, soprattutto da chi immagina o progetta di poterli sostituire con simboli e poteri taumaturgici che di tutto sarebbero dotati salvo che di legittimità e natura democratica. Sono immagini e progetti che contengono il germe demagogico e violento di inconfondibile natura antidemocratica. E’ vero che nel tempo si sono accumulati molti ritardi per tanti fattori negativi, per miopia, velleitarismo, conservatorismo. Tutto ciò è avvenuto in modo tale che il logoramento del sistema ha finito con il progredire inesorabilmente come non era difficile prevedere. Ora non c’è più molto tempo a disposizione, ci sono dei processi di necrosi che sono giunti ormai ad uno stadio avanzato. Il Parlamento deve reagire alto e lontano dando innanzitutto l’avvio ad una fase costituente per decidere rapidamente riforme essenziali di ammodernamento, di decentramento, di razionalizzazione. Serviranno a ridare efficienza e prestigio alle Camere, a rompere un centralismo dello Stato, per parte sua duro a morire, rafforzando i poteri e l’autonomia delle Regioni, come suggeriamo nel nostro programma, sino ai limiti del federalismo, a garantire autorevolezza e stabilità all’Esecutivo. Bisognerebbe porre mano subito alla riforma delle leggi elettorali con uno sguardo rivolto ai modelli ed alle esperienze delle democrazie europee ed uno rivolto alle tradizioni della democrazia italiana. Nella vita e nella organizzazione dello Stato si sente non solo un grande bisogno di un più ampio decentramento ma anche una necessità urgente di accelerare i processi di modernizzazione, di semplificazione, di flessibilità, nei rapporti con i cittadini, con le attività produttive, con la vita sociale. C’è un problema di moralizzazione nella vita pubblica che deve essere affrontato con serietà e con rigore, senza infingimenti, ipocrisie, ingiustizie, processi sommari e grida spagnolesche. E’ tornato alla ribalta, in modo devastante, il problema del finanziamento dei partiti, meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile. In quest’Aula e di fronte alla Nazione, io penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità. Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette, sia per la impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia, talvolta, per l’esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti, e ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall’estero, sarebbe solo il caso di ripetere l’arcinoto “tutti sapevano e nessuno parlava”. Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica, per creare un clima nel quale di certo non possono nascere né le correzioni che si impongono né un’opera di risanamento efficace, ma solo la disgregazione e l’avventura. Del resto, nel campo delle illegalità, non ci sono solo quelle che possono riguardare i finanziamenti politici. Il campo è vasto, e vi si sono avventurati in molti, come i fatti spero si incaricheranno di dimostrare aiutando tanto la verità che la giustizia. A questa situazione va ora posto un rimedio, anzi più di un rimedio. E’ innanzitutto necessaria una nuova legge che regoli il finanziamento dei partiti e che faccia tesoro dell’esperienza estremamente negativa di quella che l’ha preceduta. Altre proposte ed altri rimedi sono già sul tavolo. Vi aggiungeremo le nostre, sollecitando un dibattito parlamentare chiarificatore, serio e responsabile, su tutti gli aspetti di questa questione. Se la legislatura imbocca la sua strada maestra, allora non troverà il tempo per fermarsi. Nel lavoro costituente, nelle decisioni di riforma, l’allentamento delle rigidità, delle contrapposizioni e delle incomunicabilità, daranno ossigeno all’intero sistema e daranno forza alle ragioni di tutti. Ne trarranno giovamento i partiti che vogliono percorrere una stagione di rinnovamento interno, di revisione degli statuti, di riforma alle regole, di ricambio degli uomini, di promozione di nuove associazioni tra loro e di più strette alleanze. Anche il Governo sarà aiutato ad avanzare lungo i binari del buon programma che si è dato dovendo affrontare le emergenze che ci stringono d’assedio: in primo luogo quella economica e quella criminale. Se così non sarà, e certo non me lo auguro, la sorte della legislatura scivolerà su di un piano inclinato e sarà allora rapidamente segnata. Non me lo auguro innanzitutto per il Paese. Per la sua economia che ha bisogno di un clima di operosità, di fiducia e di collaborazione sociale. Un’economia che deve essere aiutata a ritrovare iniziativa e competitività, per i livelli occupazionali, a cominciare dall’occupazione nell’industria che ha già ricevuto duri colpi ed altri può purtroppo riceverne ancora. Per il riequilibrio della finanza pubblica che è urgente, necessario, non rinviabile. Un record mondiale negativo che in questi anni dobbiamo riuscire a toglierci di dosso nell’interesse di tutti, levando dal nostro futuro una grave incognita ed una tagliente spada di Damocle. Ridefinire e riselezionare la spesa sociale e le protezioni dello Stato sociale senza smantellarlo secondo le invocazioni dei peggiori conservatori. Anche questo è necessario, urgente, non rinviabile nell’interesse soprattutto dei più deboli, di coloro che più sono bisognosi di sostegno e di protezione. Sono questi gli anni del passaggio verso un’Europa più unita, più integrata e, augurabilmente, più coesa. E tuttavia, quando si sentono magnificare i nuovi traguardi europei come se si trattasse di una sorta di Paradiso terrestre che ci attende, c’è solo da rimanere sconcertati. E’ naturalmente fondamentale che l’Italia riesca a raggiungere il passo dei suoi grandi partners europei e che per far questo si mostri capace di compiere tutti gli sforzi che debbono essere compiuti. Diversamente si produrrebbe una frattura di portata storica nelle linee di fondo del nostro progresso. E tuttavia, dobbiamo insistere a chiederci quale Europa vogliamo e verso quale Europa vogliamo indirizzarci. Non verso un’Europa sottratta ad ogni controllo dei poteri democratici. Non verso politiche determinate solo sulla base di criteri macroeconomici, indifferenti di fronte alla valutazione dei costi sociali. Un’Europa fondata su di un mercato unico, aperto e libero ma il cui sviluppo non contraddica il principio che gli anglosassoni definiscono come “il mercato più la democrazia”. Non un’Europa in cui la modernizzazione diventi brutalmente sinonimo di disoccupazione. Un’Europa dove le rappresentanze sindacali abbiano un loro spazio, una loro dignità ed una loro influenza. Un’Europa che guardi al proprio riequilibrio interno ma anche all’altra Europa che si è liberata dal comunismo ma che rischia di restare ancora separata e divisa non più, come è stato detto, «dalla cortina di ferro ma dal muro del danaro». Un’Europa capace di una vera politica estera e di una più larga apertura verso il mondo più povero che preme alle porte dell’Europa e che ha assolutamente bisogno di un acceleratore che gli consenta di uscire dalla depressione, dalla stagnazione e dal sottosviluppo, senza di che le ondate migratorie diventeranno sempre più incontrollabili. Sono gli interrogativi che ci poniamo, partendo dalla nostra fede nelle democrazie europee, dalle nostre convinzioni europeistiche, dal contributo che abbiamo direttamente dato per aprire la strada ad un nuovo capitolo della costruzione europea. Onorevole Presidente del Consiglio, nella vita delle Nazioni e nella storia, gli eroi e i martiri sono sempre stati un grande esempio ed una formidabile leva morale. Nel loro nome si sono potute realizzare grandi imprese. Il giudice Falcone è ora un eroe ed un martire del nostro tempo. Spero che il Governo, le forze dell’ordine, la magistratura, tutti gli apparati dello Stato, uomini liberi e coraggiosi, cittadini di buona volontà, riescano a realizzare nel suo nome una grande e vittoriosa impresa contro le grandi organizzazioni criminali. Essi avranno in questa lotta tutto il nostro sostegno, la nostra collaborazione, la nostra solidarietà. Onorevole Presidente, non è solo il Suo Governo a trovarsi su di un crinale difficile e lungo un sentiero stretto. E’ il sistema della democrazia italiana nel suo insieme che è giunto ad un punto particolarmente critico. Pensando a questo mi è tornata alla mente una famosa frase che il Generale De Gaulle pronunciò di fronte ad una grave crisi politica in cui era precipitata l’Italia: «L’Italie est en l’heure de la Quatrième». E si riferiva al passaggio traumatico tra la Quarta Repubblica in disfacimento e la Quinta. Voleva essere una frase profetica ma non lo fu. La democrazia italiana ha sempre superato le sue crisi, ha percorso vicende alterne di involuzione e di progresso ma le sue istituzioni non sono mai state travolte da un evento traumatico. Non so cosa si propongano oggi tutti coloro che mirano al peggio, che alimentano ogni forma di qualunquismo, che utilizzano la politica, l’informazione, lo spettacolo, come mezzi puramente distruttivi. Penso che in un momento così teso e così difficile siano più che mai necessarie una grande consapevolezza ed una grande responsabilità democratica. Sono necessarie per voltare le pagine che debbono essere voltate e per guidare ed accompagnare il sistema, con fermezza e con serenità, verso un nuovo capitolo della nostra storia democratica. Sono certo che il Suo Governo possiede questa consapevolezza e che si adopererà per svolgere con impegno la parte e il compito che gli spetta. Anche questa è una delle buone e fondamentali ragioni per le quali, Signor Presidente, Le assicuriamo ad un tempo la nostra fiducia e la nostra attiva collaborazione.

mercoledì 17 dicembre 2008

Una destra gotica e guelfa

L'ultimo libro di Tremonti descrive la crisi come farebbero Ruffolo o Reichlin. Ma quando indica la terapia va incontro a De Maistre.

L'ultimo libro di Giulio Tremonti ('La paura e la speranza' editore Garzanti) è nelle librerie da pochi giorni ma è già diventato oggetto di pubbliche presentazioni e di private discussioni. L'autore stesso è molto attivo nel promuoverlo, al punto che i suoi detrattori non hanno mancato di far circolare la battuta di un ex ministro del Tesoro che tenta di riciclarsi come intellettuale in attesa di riprendere la carica perduta due anni fa se le urne elettorali saranno benevole con lui e con i suoi amici politici. Mi astengo dal far mia quella battuta. Tremonti ha dimestichezza con le idee, spesso le maneggia come un giocoliere. Soprattutto è molto attento all'importanza del 'senso comune', allo 'spirito dei tempi' cui attribuisce un peso oggettivo assai forte. Secondo me un intellettuale dovrebbe contrastare il senso comune e non assumerlo come canone cui ispirare i propri pensieri. E qui vedo una prima contraddizione che emerge da queste pagine: l'autore usa a piene mani il senso comune per diagnosticare il male che secondo lui corrode l'Europa e la cultura occidentale, ma la sua ricetta terapeutica per vincere quel male contrasta il senso comune in modo radicale. Disegna infatti una civiltà gotica, obbediente al dio medievale, alla 'Kultur' della legge e dell'ordine, della terra e del sangue, della famiglia e della comunità, in contrasto con la modernità secolarizzata, con il pluralismo e il relativismo delle verità. C'è da aggiungere che il Tremonti uomo politico torna invece ad ispirarsi al senso comune: gli chiedevano meno tasse e lui se la cavò con i condoni, con l'aumento della spesa pubblica, con l'aumento del debito (palese e occulto). Ma questo è un altro discorso e non c'entra con le pagine del libro. Il quale è nettamente diviso nelle due parti preannunciate dal titolo, la paura (diagnosi della crisi) e la speranza (terapia per uscirne). La prima parte stupisce per chi credeva di conoscere Tremonti giudicandolo dalla sua biografia professionale e politica. Un esperto nella conoscenza del fisco e dei modi per difendersene, un uomo politico di destra con marcate simpatie leghiste. Sedotto da Berlusconi e dalla sua capacità di sciamano e di venditore. Sicuro come pochi di possedere la verità in esclusiva. Quest'ultimo tratto del suo carattere emerge riconfermato e ampliato nelle pagine del libro, soprattutto nello stile, quanto mai apodittico, assertivo, dilemmatico, icastico. Bisognerebbe stare attenti a non esagerare con quel tipo di stile; usato con parsimonia ha una sua efficacia, ma usato a piene mani diventa stucchevole e ripetitivo. Nella prima pagina del libro per esempio l'autore dice che "siamo passati da Marx al marketing". È vero ed è ben detto con una battuta che descrive in tre parole una trasformazione epocale. Ma di battute, di dilemmi, di assiomi ce ne sono almeno una decina per pagina (non esagero). Non lascia spazio al lettore di riflettere, lo inchioda, lo stringe con le spalle al muro, lo obbliga a rincorse che tolgono il fiato. Insomma lo manipola per averlo alla fine esanime e domato nelle sue mani. Questo non va bene, l'eccesso di bravura va a detrimento della credibilità e dello spessore dei pensieri. Ma dove nasce lo stupore del lettore? Dal fatto di scoprire, nella prima parte del libro, un Tremonti di sinistra. Contro il 'mercatismo'. Contro la globalizzazione. Contro le multinazionali. Contro il consumismo. Contro l'asservimento della pubblica opinione alle manipolazioni tecnologiche. Contro le disuguaglianze. Contro i veleni che deturpano l'ambiente e devastano il paesaggio. Contro il mito del Pil. Beninteso, l'autore imputa alla sinistra la mostruosità del regime staliniano e conduce una serrata arringa contro gli intellettuali che imbonirono le masse con ilmito del paradiso comunista in terra. Ma per tutto il resto - in questa parte del suo scritto - la sua diagnosi non è lontana da quella che potrebbero fare un Giorgio Ruffolo o un Alfredo Reichlin e, con loro, anche molti liberali di sinistra tra i quali mi ascrivo. Non a caso l'autore esprime ammirazione per il Partito d'azione che commise però un errore di 'intellettualismo' e non tenne conto del senso comune. E quindi finì rapidamente in mille pezzi. Tra le tante battute che gremiscono le pagine ne cito una che riassume il pensiero tremontiano: "Abbiamo creato un tipo umano che non solo consuma per esistere ma esiste per consumare". Sembra Pasolini se non addirittura Enrico Berlinguer. E allora sorge la domanda: quest'uomo è lo stesso che da tredici anni lavora spalla a spalla con Berlusconi ed è il fedele esecutore delle sue intuizioni e dei suoi umori? Il padrone delle televisioni incarna, proprio lui, quell'arcicapitalismo contro il quale l'intellettuale Tremonti bandisce la sua crociata? La risposta arriva nella seconda parte del libro ed è, debbo dire, agghiacciante. L'ho definita una risposta gotica, medievalistica e l'autore del resto non ne fa mistero. In un mondo dove la globalizzazione ha risvegliato le masse addormentate e le ha trasformate in 'campi di forza' che hanno lanciato una sfida senza precedenti all'Europa, all'Occidente, alla razza bianca, bisogna rispondere inalberando le nostre radici cattoliche, bisogna dotare l'Europa d'una visione politica e di un'autorità che la imponga, bisogna che quell'Europa divenga una fortezza capace di opporsi alle potenze emergenti, bisogna accogliere il flusso di emigranti soltanto se siano disponibili all'integrazione immediata fin dal primo giorno d'ingresso nel nostro territorio. Bisogna instaurare un sistema di doveri e vagliare attentamente i diritti col metro della morale cristiana. Bisogna canalizzare la pubblica opinione. La sinistra non è in grado di attuare questa svolta, anzi questa rivoluzione. Può aiutarla se vuole, dare una mano. Ma si tratta d'un compito enorme, quello che la nuova destra gotica e guelfa di Giulio Tremonti deve assumersi; l'icona - pare a me - è quella di Sisifo che spinge il masso verso la cima. Una cima tuttavia dove incontreremo De Maistre. Prospettiva che può piacere a papa Ratzinger, al cardinale Ruini e a Roberto Formigoni, ma certo non è esaltante, almeno per me.

Eugenio Scalfari (28 marzo 2008)

Sull'Aristocrazia e sulla mediocrità quotidiana.

Vorrei essere un talebano, avere valori fortissimi che santificano il sacrificio della vita, propria e altrui. Vorrei essere, per lo stesso motivo, un kamikaze islamico. Vorrei essere un afgano, un iracheno, un ceceno che si batte per la libertà del proprio Paese dall’occupante, arrogante e stupido. Avrei voluto essere un bolscevico, un fascista, un nazista che credeva in quello che faceva. O un ebreo che, nel lager, lottava con tutte le sue forze interiori per rimanere un uomo. Vorrei far parte dei “boat people” che vengono ad approdare e spesso a morire sulle nostre coste. Perché sono spinti almeno da una speranza. Vorrei essere e vorrei essere stato tutto, tranne quello che sono e sono stato per 60 anni e passa: un uomo che ha vissuto nella democrazia italiana. Senza la possibilità di emozioni collettive, di valori forti. Di un vero atto di coraggio, trascinando l’esistenza in mezzo alle viltà, agli opportunismi, ai trasformismi, alle meschinerie, ai cinismi, ai sofismi, in una società che ha perso ogni dignità, ogni codice di lealtà e onore, spietata e feroce senza essere virile, con gli occhi sempre pronti a riempirsi di lacrime ma che ha dimenticato la misericordia. Si parla molto, di questi tempi, di «crisi della politica». Ma non è questo. Non è questo. È la disperazione di vivere in una società senza grandezza, dove gli obiettivi sono cambiare l’automobile, comprare l’ultimo cellulare, tenere lucida la casa, trovare la «propria regolarità» con “Activia” e dove le donne hanno perso il loro fiore più falso e più bello che un tempo si chiamava pudore. Una mediocrità quotidiana fatta di pin, di cin, di carte di credito, di bancomat, in cui domina la figura dell’imprenditore, cioè del mercante, che in tutte le culture e in tutti in tempi, prima dell’avvento della Modernità e della Democrazia, era posto all’ultimo gradino della scala sociale, sotto quello degli schiavi, perché gli uomini, finché son rimasti tali, hanno sempre considerato il massimo del disonore scambiare per guadagno. Il tutto scandito dal rumore di fondo, incessante, inesorabile, della tv e delle sue voci: dei Bongiorno, dei Baudo, dei Bonolis, delle Ventura, dei Chiambretti, dei Costanzo, dei Vespa, dei Santoro, dei Ferrara, dei Mentana, dei Gabibbo, dei buffoni, dei paraculi e delle troie. Una società del fracasso che non conosce più i valori del silenzio e del controllo di sé e applaude anche ai suoi morti. Quando avverto in me e fuori di me, in un mondo ormai più virtuale che reale, questi vuoti abissali, sono colto da vertigine. E vorrei essere un talebano, un kamikaze, un afgano, un “boat people”, un affamato del Darfur, un ebreo torturato dai suoi aguzzini, un bolscevico, un fascista, un nazista. Perché più dell’orrore mi fa orrore il nulla.

Massimo Fini ("Libero" 31/05/2007)

PERCHÈ NON RIESCO A CREDERE

Io non sono un uomo di fede, sono un uomo di ragione e diffido di tutte le fedi, però distinguo la religione dalla religiosità. Religiosità significa per me, semplicemente, avere il senso dei propri limiti, sapere che la ragione dell'uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all'immensità dell'universo. L'unica cosa di cui sono sicuro, sempre stando nei limiti della mia ragione - perché non lo ripeterò mai abbastanza: non sono un uomo di fede, avere la fede è qualcosa che appartiene a un mondo che non è il mio - è semmai che io vivo il senso del mistero, che evidentemente è comune tanto all'uomo di ragione che all'uomo di fede. Con la differenza che l'uomo di fede riempie questo mistero con rivelazioni e verità che vengono dall'alto, e di cui non riesco a convincermi. Resta però fondamenale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità. La mia è una religiosità del dubbio, anziché delle risposte certe. Io accetto solo ciò che è nei limiti della stretta ragione, e sono limiti davvero angusti: la mia ragione si ferma dopo pochi passi mentre, volendo percorrere la strada che penetra nel mistero, la strada non ha fine. Più noi sappiamo, più sappiamo di non sapere. Qualsiasi scienziato ti dirà che più sa e più scopre di non sapere. Credevano di sapere di più gli antichi, che non sapevano niente al confronto di quello che sappiamo noi. Abbiamo allargato enormemente lo spazio della nostra conoscenza, ma più lo allarghiamo più ci rendiamo conto che questo spazio è grande. Cos'è il cosmo? Cosa sappiamo del cosmo? Come e perché il passaggio dal nulla all'essere? È una domanda tradizionale, ma io non ho la risposta: perché l'essere e non piuttosto il nulla? Io non mi sono mai nascosto di non avere una risposta, e non so chi sappia darla a questa domanda ultima, se non per fede. Secondo Severino l'essere è infinito, l' essere c'è. Ma non è che così siamo in grado di capire cosa c'era prima. È impossibile. E di fronte alle domande cui è impossibile dare una risposta - perché di questo sono certo: non posso dare una riposta, benché appartenga ad una umanità che ha realizzato progressi enormi - mi sento un piccolo granello di sabbia in questo universo. E negare che la domanda abbia senso, come potrebbe fare una certa filosofia analitica, mi pare un gioco di parole. Probabilmente dipende dalla mia incapacità di andare al di là. Ma quando sento di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una risposta alle domande ultime, la mia intelligenza è umiliata. Umiliata. E io accetto questa umiliazione. La accetto. E non cerco di sfuggire a questa umiliazione con la fede, attraverso strade che non riesco a percorrere. Resto uomo della mia ragione limitata - e umiliata. So di non sapere. Questo io chiamo "la mia religiosità". Non so se è giusto, ma in fondo coincide con quello che pensano le persone religiose di fronte al mistero. Certo, probabilmente non si riesce a resistere a questo dubitare continuo, a questo continuo non sapere, e allora ci si affida alle credenze, come quella nella immortalità dell'anima. Io però, il fondo religioso della mia persona continuo a intenderlo come questo non sapere. Ed è un fondo religioso che mi assilla, mi agita, mi tormenta. Un giorno al cardinal Martini ho detto: per me la differenza non è tra il credente e il non credente (cosa vuol dire poi credere? In che cosa?), ma tra chi prende sul serio questi problemi e chi non li prende sul serio: c'è il credente che si accontenta di risposte facili (e anche il non credente, sia chiaro, che delle risposte facili si accontenta!). Qualcuno dice: "sono ateo", ma io non sono sicuro di sapere cosa significa. Penso che la vera differenza sia tra chi, per dare un senso alla propria vita, si pone con serietà e impegno queste domande, e cerca la risposta, anche se non la trova, e colui cui non importa nulla, a cui basta ripetere ciò che gli è stato detto fin da bambino. La risposta della fede è consolatoria. Ma le religioni non hanno solo una funzione consolatoria. Hanno anche la funzione di "rivelare" verità su problemi cui il comune sapere non arriva: la creazione, l'immortalità dell'anima. Risposte consolatorie, ma non solo: risposte a domande che ciascuno si pone sulla soglia della morte. Io la mia risposta l'ho data, con le poche "convinzioni" che ho. Perché le mie sono le "convinzioni" di un uomo che costantemente passa dal dubbio alla verità e di nuovo al dubbio. Io non credo. Arrivato ad un' età in cui si sente che la fine è vicina, se devo ascoltare me stesso, e dare una risposta personale, l'unico desiderio che ho, l'unico bisogno, non è certo quello dell'immortalità, è quello di morire in santa pace: il riposo eterno è ciò in cui spero. Non voglio risvegliarmi. Ma anche questo, in fondo, coincide profondamente con la religione: "requiem aeternam dona eis Domine!", sta scritto sul fronte di ogni cimitero. Anch'io sono cresciuto, come quasi tutti in questo paese, in una famiglia cattolica, e ho avuto una formazione cattolica. Preghiere, preghiere, preghiere... Le ho talmente ripetute (sia in latino, come si usava una volta, sia in italiano) che le ho quasi dimenticate. Ho fatto la prima comunione, e anche un matrimonio religioso (anche mia moglie però non è credente). E alla domanda su quando e perché ho perduto la fede non è facile rispondere. Forse verso i vent'anni. Certo, lo studio della filosofia, anche. Tutte queste domande sui problemi di metafisica, diciamo così, e il rendersi conto che le risposte della fede implicavano credenze difficili da accettare. La credenza nei miracoli, ad esempio, per un razionalista è la cosa più assurda. Altrettanto è il dover credere in ciò che a ogni essere di ragione appare come mito, cominciando dal peccato originale. Sul peccato originale condivido quello che in vari articoli ha scritto un mio amico cattolico, il professor Luigi Lombardi Vallauri (che anche per questa ragione è stato cacciato dall' Università cattolica dove insegnava), che pone domande molto semplici, terra-terra se vuoi, ma a cui non c'è risposta: una colpa originaria collettiva non è accettabile, la colpa è personale, non può essere trasmessa da una generazione all'altra, non c'è niente di più primitivo. La colpa collettiva è addirittura una concezione tribale. Credere all'Antico Testamento è difficile. Credere al Dio di Abramo che si rivela chiedendo un sacrificio così crudele. E qui mi fermo. Ma resta il mistero dell'universo. Del resto, forse hanno contato di più nella mia formazione fattori più banali. Con e dopo l'adolescenza, si entra nel mondo, con tutti i desideri che assalgono un ragazzo, tanto forti da far accantonare a poco a poco le pratiche religiose. Per tanti anni sei andato a confessarti e a un certo punto non ti confessi più. Entri in conflitto con la morale del confessionale. Magari con l'idea che poi ci tornerai... Tra i problemi metafisici mi sono posto presto quello dell'immortalità dell'anima: possibile che siamo eterni? Cosa significa? La vita e la morte sono indissolubilmente connessi, la vita riceve un senso dalla morte e la morte dalla vita. La morte, se ci fosse davvero un'altra vita, non sarebbe la morte. Pensiamoci bene: perché la morte è la morte? Perché è la morte! Bisogna prendere sul serio la morte. Ho cominciato a prendere sul serio la morte vedendo morire dei giovani amici, senza illudermi delle promesse della religione che fossero ancora vivi. Qualche volta, pensando alla morte di una persona particolarmente cara - mio padre, ad esempio - so che quella persona che ho amato ora non c'è più. E che ci sia qualche cosa di lui in un altro luogo - che non so dove sia - a me non importa assolutamente nulla. La persona che ho amato era quel particolare modo di sorridere, di farci giocare, di raggiungerci in campagna alla fine della settimana quando eravamo in vacanza, la nostra attesa sul cancello della casa per aspettarlo e poi salutarlo festosamente: questo so per certo che non c'è più. Ho continuato a riflettere sui grandi temi dell'esistenza e nessuna delle risposte della religione mi ha mai convinto. Però, nello stesso tempo, neppure io sono riuscito a dare delle risposte. E dunque, di nuovo, dico che ho un senso religioso della vita proprio per questa consapevolezza di un mistero che è impenetrabile. Impenetrabile!

Norberto Bobbio (da "La Repubblica" 30 aprile 2000)


IN ATTESA DI PROSSIMI FUNERALI IMMANI (ELOGIO ALLA COMMEMORAZIONE DA VIVI)

Basta commemorare i morti! Commemoriamo i vivi! Crogioliamoci nelle loro doti e nelle loro grandezze (se le hanno), prima che diventino grandezze e doti obbligatorie (perchè soprattutto morti e magari mai le hanno avute). Mi riferisco al comune uomo della strada (anche nel senso di investito), ma anche e specialmente, all’uomo pubblico, all’artista e compagnia. Appena morti si specializzano, si lavano, si innalzano, migliorano a vista di corteo o di omelia, e il ricordo fa’ il resto. La cara e bella e sconosciuta memoria comincia il suo lavoro, ma con la morte che gli punta l’arma alla tempia: lavora coatta, coartata, impura, impaurita. I ricordi privati o meglio privi, cominciano a diventare pubblici, comuni, e sbocciano cosi’ gli arrotondamenti per eccesso, le virtù indotte, le inesistenti curiosità se si e’ vivi, che diventano inestimabili bellezze se si e’ morti….Il rosa e’ rosso, ma il nero e’ grigio, o addirittura non esiste nemmeno più come colore (diventa dolore?): ci si raccoglie intorno a una idea di morto e di morte, più che a quel morto; si piange il pianto, si cerca di cercare, si fa le manicure all’anima, che forse in certi casi non ha nemmeno unghie o dita, si parla della vita, più che di “quella” vita, chissà morta da quando (nel migliore dei casi). I preti, si sa, preticano standard, il più delle volte, avvolti nella giusta scusa calda, se non altro giustificati dal fatto che più o meno, un morto vale l’altro, perchè tutti uguali davanti al divino; ma gli uomini non preti? Come si fa a non accorgersi dell’omologazione (non piace neanche a me questa parola), del tepore sdolcinato, rispettosamente sussieguioso un pò debole o, spesso vile e povero, travestito da pietà o compassione (pietà e compassione che se fosse vera pietas e vero patire con allora sì meriterebbero d’essere!). Certo che devo e voglio lasciare a chi era legato da legami di sangue, ogni tipo di parole pensieri e azioni; mi spiego meglio: certo che lascio ai cosi’ detti parenti, agli amati amanti, ai figli veri, e cosi’ sia, certo che lascio dicevo tutta la ricreazione possibile per far tornare in mente il defunto, ma gli altri, i passanti, i conosciuti sconosciuti, gli apparenti, i dovuti e i risarcenti, gli eravamo identici, gli eccoci qui raccolti, tutti gli altri noi? Che c'entrano e cosa vogliono centrare? Perché non lo fanno in vita, con il “morirà” invece che con “l’appena morto”? Cosa sono tutte quelle esternazioni salvifiche, sdoganate anche dal fatto che il morto non può più sbagliare? E se ha sbagliato e molto, possibile che per contratto di contrizione ci sia totale sparizione, a cui subentra spesso ma volentieri sproloquiante esaltazione? (Che persona, che classe, che sensibilità, che unicità, che onesta’, che irreprensibilità che simpatico anonimo, che dolce cattivo, che superbo generoso, che insensibile birichino, che bel brutto, ecc ecc). Non voglio mettere in discussione le varie sincerità dei sentimenti (comunque un giorno mi piacerebbe farlo), sto solo pensando come sarebbe bello fare tutto questo rito incensatorio quantomeno prima, se la persona e’ qualcosa di talmente ricordabile, da piangergli davanti mentre ti dice grazie di quello che pensi, o addirittura mentre gli dici che ti manca anche quando c’è? E allora dai, piangiamo nostro padre dalla gioia dell’esserci, del fare, e del dire mentre può accadere ancora o mentre sta avvenendo: allocco chi aspetta di perderlo, per averlo perso; spettatori, pubblico, gente, tutti, scendiamo nelle piazze di chi conta e raccontiamogli il piacere di viverlo prima del dispiacere di averlo perso! Facciamo assembramenti per gli imperdibili e speciali parenti viventi, per i buoni orafi, benzinai esercenti, poliziotti, operai, dame, e demoni, per gli emergenti, industriali abbaglianti, scrittori scriventi, personalità illuminanti; facciamo contento lui prima che muoia che tristi e soli noi dopo la loro morte……Cerchiamo di non ipotecare come sarebbe aumentata la sua grandezza se non fosse morto, ma di stare adesso a parlare di quello che rappresenta di alto o di basso, di unico o di irripetibile….. Tutto questo prima di diventare “parenti che gli si stringono attorno come si sente dire orrendamente con dignità compostezza e signorilità” (come se poi chi davanti alla morte invece si scompone e urla strazio, perdesse signorilità! Quale? E chi può parlare di stile? Un giornalista che deve pur terminare un articolo? Lo stilista del dolore? Il famoso di turno che non vuole perdere l’ennesimo turno per essere sempre più famoso? Perché si deve parlare di educazione e galateo del ceto dei parenti?). Al diavolo l’angelico morto se era già angelo da vivo e noi non glielo abbiamo mai saputo cantare in nessun “funerale da vivo”. Cominciamo a commemorare i vivi, viva i cortei preventivi, le omelie per i non ancora andati! Piangiamoli di bene se vale la pena davvero che siano vivi! Se dobbiamo “morire” facciamolo da vivi!

ALESSANDRO BERGONZONI