sabato 3 gennaio 2009

Il mio ultimo viaggio

È un saluto in extremis, ma ironico, gioioso, nello stile di un grande reporter che racconta se stesso. Sono due risate, che esplodono dalla gran barba bianca, ad aprire e chiudere l'intervista. C'è la curiosità irriducibile del grande giornalista, che ci racconta come un reportage sette anni di battaglia contro il cancro. C'è la sua strepitosa faccia da pirata, la voce tonante, l'ironia, l'orgoglio del fiorentino che «la sa sempre lunga» ma infine supera la barriera del proprio scetticismo. E c'è tutta la forza di Tiziano Terzani, dell'uomo bello e vitale che sta per abbandonare in serenità il proprio corpo, del vecchio reporter di guerra che maledice ogni guerra, nell'intervista televisiva che Mario Zanot ha realizzato e che Rete 4 trasmetterà lunedì prossimo. È stata girata il 27 e 28 maggio scorsi, esattamente due mesi prima della morte di Terzani. Repubblica l'ha vista in anteprima. Si intitola "Anam, il senzanome": così Terzani aveva scelto di chiamarsi nei tre mesi passati in un ashram indiano, nel tentativo di tagliare i ponti col mondo dei sensi, dei desideri, di «ritirare gli anni e la testa nel guscio come fa la tartaruga e prepararsi a lasciare la vita». È questo intento che gli aveva fatto declinare, in un primo tempo, l'offerta di una intervista televisiva su di sé: «Alla fine della mia vita - scriveva a Zanot - non voglio ricadere nella orribile trappola dell'ego che, assieme a quella dei desideri, ho dedicato recentemente molto tempo a distruggere. Giustamente lei suggeriva come titolo del suo lavoro Anam, punto di arrivo di quel tentato azzeramento dell'Io. Fare oggi un documentario su di me, ex-Tiziano Terzani diventato Anam, significherebbe in fondo tradire il lavoro a cui ho dedicato gli ultimi anni». Il regista insiste, e riesce a strappargli una promessa: poter registrare con la telecamera almeno un suo sorriso, o una risata. Terzani acconsente («Una risata non la si nega a nessuno»), e infine quell'attimo si dilata in due giorni di racconto. E comincia con una risata. «Un tumore? Ne ho vari, un po' di qua, un po' di là. Ma la cosa divertente è che ci convivo da sette anni. Beh, non credo che durerà molto a lungo. Ma la cosa curiosa, la cosa interessante è che io e quelli siamo una cosa sola, e sarebbe stupido pensare: loro ammazzano me, io ammazzo loro. Ce ne andiamo insieme perché siamo cresciuti insieme. E con questo voglio dire che per me questo cancro è stata una grande benedizione. Perché ero ricaduto nella routine della vita e questo cancro mi ha salvato. Perché finalmente all'invito di un ambasciatore a cena, a una conferenza stampa, a un viaggio a cui non ero più interessato, io potevo sottrarmi. Io ho il cancro. Il cancro è diventato una sorta di scudo, di barriera, di divisione tra me e il mondo da cui volevo staccarmi». In seguito verrà il lungo viaggio attraverso medicine alternative, luoghi di meditazione orientale, santoni e lama tibetani. Ma, quando arriva la rivelazione del «malanno», Terzani sceglie la ragione e la scienza: «Io ero vissuto in Asia fino ad allora quasi trent'anni. Ma quando si è trattato di scegliere che cosa fare non è che mi sono affidato a uno con il pendolo, o all'altro con delle pozioni magiche raccolte nella foresta. Io sono andato nel più grande centro di cancro del mondo e mi sono affidato alla ragione e alla scienza, della quale conoscevo bene i limiti, e durante la terapia questi limiti sono saltati agli occhi. Però ho fatto questo». A New York dagli «aggiustatori»: «Però bravi, bravi, a loro modo bravi. Non devo assolutamente disprezzare il loro lavoro. Tutto sommato mi hanno tenuto a giro ancora per sette anni». Quella New York dove già una volta era fuggito, a imparare il cinese dopo cinque anni di lavoro all'Olivetti: «Allora già una volta New York mi aveva salvato e di nuovo torno in questa città, meravigliosa e orribile nella sua violenza, per cercare la salvezza. E questa contraddizione l'ho sentita molto forte, perché in fondo c'era qualcosa di ideologicamente sbagliato in quello che facevo. Cioè, disprezzavo questa macchina di guerra e di violenza che l’America è. Per cui, come una grande macchina di guerra, è anche una grande macchina di guerra contro il cancro. E io, disprezzando un aspetto, andavo lì e mi facevo curare da questi qua. Infatti mi è piaciuto molto alla fine, quando sono andato dopo tutti questi anni per l’ultima visita, e mi hanno detto che non c’era più niente da fare… E ho trovato che la migliore cosa che potevo fare era tornare a vivere in pace nella mia baita, senza più medicine, senza più contraddizioni, senza più questo senso che andavo a chiedere aiuto a qualcuno che poi disprezzavo per altri versi». Al centro c'è la malattia, combattuta con ogni mezzo, tra medici e guaritori, chemio e stravaganze. Mesi a New York, da solo, il racconto della «Ragna», la macchina della radioterapia: «Questa macchina, la Ragna l'ho chiamata, era buffissima. Era in questa stanza, piena di luci, stranissima, con questa testa e questo busto, tonda con tutte le luci... ». Le mutazioni del corpo: «Entravo nel bagno, guardavo lo specchio e c'era uno che mi sorrideva, ma non ero io. Glabro, senza capelli, gonfio di chemioterapia. E mi continuava a sorridere». Poi, «la grande avventura», il viaggio per il mondo alla ricerca di una salvezza alternativa: «Strada facendo — e io adoro viaggiare, è il mio modo di reagire a tutto, anche a questo ho reagito viaggiando, mettendomi sulla strada, vivendo delle avventure — mi sono reso conto che in verità io non volevo una medicina per il mio cancro, volevo una medicina per quella malattia che è di tutti, che non è il cancro: la mortalità». Un viaggio che il gran curioso Terzani racconta con ironia, con stupore: «Cose curiose ne ho fatte di tutti i colori. Lavaggio del colon, dieci giorni in un'isoletta della Thailandia con digiuni completi e clisteri di 18 litri al giorno due volte. Poi sono stato dai guaritori filippini, quelli che tolgono sangue, budellina di pollo dalle tue interiora». L’India fantastica: «Un'altra grande esperienza che ho fatto è in questo famoso ospedale ayurvedico, dove sono arrivato e la cosa che più mi ha colpito era l'elefante. C'era un elefante! Nel cortile! E ogni giorno c'era una cosa stupenda, calava il sole e iniziava un teatro meraviglioso, fino all'alba. Con suoni di cimbali, barriti di elefanti, balli, strane danze, che erano parte della cura perché i malati assistevano a questo spettacolo degli dèi scesi sulla terra, come a parte della loro terapia». E alla fine del viaggio, dopo i lama tibetani, le pozioni diluite con piscio di vacca («Ma io, fiorentino, piglio una pozione col piscio di vacca?»), le palline d'orzo, l'ashram («Ero Anam, senzanome, è stato buttare alle ortiche una cosa, come un vestito che ti sta stretto»), la conclusione: «I miracoli esistono, ma tu devi essere l’artefice del tuo». E il miracolo è l’accettazione della sofferenza, l’equilibrio ritrovato: «A un certo momento, paf, basta, chiuso. Non voglio più sentire niente di tutta questa roba, perché la cura ho capito che è un’altra. Non è la cura, è la guarigione che cerco. E la guarigione è la ricostruzione dell’equilibrio. In mezzo, l’11 settembre, l’orrore, il pensiero «che potesse essere il momento di un grande ripensamento», le Lettere contro la guerra, «dopo aver fatto per tutta la vita il corrispondente di guerra mi pareva arrivato il momento per dire che mi sentivo ormai in verità uomo di pace». Infine il ritorno all’Orsigna, alla casetta di legno che s’era costruito dove stare solo: «Per me era importante aver capito questo, che il fine della mia vita era di ristabilire un’armonia, con quel che mi circonda, con la gente a cui tengo, e con questo prepararmi all’ultimo passo della vita, che è la morte, senz’angoscia, senza la pretesa che troverò una cura». Godere di ogni giorno «come fosse un altro giro di giostra». «Io sono in pace. Sono in una condizione stupenda, sto benissimo. E il mio corpo, me ne staccherò, lo lascerò lì e andrò via». Un solo cruccio: «Mi incuriosisce morire, mi dispiace solo che non potrò scriverne». E un consiglio finale: «Ridere, io trovo che ridere è una cura, è parte della guarigione. Infatti un’altra delle terapie che ho scoperto in India è la terapia del sorriso, del ridere. Per cui il consiglio che do a tutti è cominciare con una gran risata e finire con una gran risata».

(Fabrizio Revelli - "La Repubblica" - 24 settembre 2004)

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