È un saluto in extremis, ma ironico, gioioso, nello stile di un grande reporter che racconta se stesso. Sono due risate, che esplodono dalla gran barba bianca, ad aprire e chiudere l'intervista. C'è la curiosità irriducibile del grande giornalista, che ci racconta come un reportage sette anni di battaglia contro il cancro. C'è la sua strepitosa faccia da pirata, la voce tonante, l'ironia, l'orgoglio del fiorentino che «la sa sempre lunga» ma infine supera la barriera del proprio scetticismo. E c'è tutta la forza di Tiziano Terzani, dell'uomo bello e vitale che sta per abbandonare in serenità il proprio corpo, del vecchio reporter di guerra che maledice ogni guerra, nell'intervista televisiva che Mario Zanot ha realizzato e che Rete 4 trasmetterà lunedì prossimo. È stata girata il 27 e 28 maggio scorsi, esattamente due mesi prima della morte di Terzani. Repubblica l'ha vista in anteprima. Si intitola "Anam, il senzanome": così Terzani aveva scelto di chiamarsi nei tre mesi passati in un ashram indiano, nel tentativo di tagliare i ponti col mondo dei sensi, dei desideri, di «ritirare gli anni e la testa nel guscio come fa la tartaruga e prepararsi a lasciare la vita». È questo intento che gli aveva fatto declinare, in un primo tempo, l'offerta di una intervista televisiva su di sé: «Alla fine della mia vita - scriveva a Zanot - non voglio ricadere nella orribile trappola dell'ego che, assieme a quella dei desideri, ho dedicato recentemente molto tempo a distruggere. Giustamente lei suggeriva come titolo del suo lavoro Anam, punto di arrivo di quel tentato azzeramento dell'Io. Fare oggi un documentario su di me, ex-Tiziano Terzani diventato Anam, significherebbe in fondo tradire il lavoro a cui ho dedicato gli ultimi anni». Il regista insiste, e riesce a strappargli una promessa: poter registrare con la telecamera almeno un suo sorriso, o una risata. Terzani acconsente («Una risata non la si nega a nessuno»), e infine quell'attimo si dilata in due giorni di racconto. E comincia con una risata. «Un tumore? Ne ho vari, un po' di qua, un po' di là. Ma la cosa divertente è che ci convivo da sette anni. Beh, non credo che durerà molto a lungo. Ma la cosa curiosa, la cosa interessante è che io e quelli siamo una cosa sola, e sarebbe stupido pensare: loro ammazzano me, io ammazzo loro. Ce ne andiamo insieme perché siamo cresciuti insieme. E con questo voglio dire che per me questo cancro è stata una grande benedizione. Perché ero ricaduto nella routine della vita e questo cancro mi ha salvato. Perché finalmente all'invito di un ambasciatore a cena, a una conferenza stampa, a un viaggio a cui non ero più interessato, io potevo sottrarmi. Io ho il cancro. Il cancro è diventato una sorta di scudo, di barriera, di divisione tra me e il mondo da cui volevo staccarmi». In seguito verrà il lungo viaggio attraverso medicine alternative, luoghi di meditazione orientale, santoni e lama tibetani. Ma, quando arriva la rivelazione del «malanno», Terzani sceglie la ragione e la scienza: «Io ero vissuto in Asia fino ad allora quasi trent'anni. Ma quando si è trattato di scegliere che cosa fare non è che mi sono affidato a uno con il pendolo, o all'altro con delle pozioni magiche raccolte nella foresta. Io sono andato nel più grande centro di cancro del mondo e mi sono affidato alla ragione e alla scienza, della quale conoscevo bene i limiti, e durante la terapia questi limiti sono saltati agli occhi. Però ho fatto questo». A New York dagli «aggiustatori»: «Però bravi, bravi, a loro modo bravi. Non devo assolutamente disprezzare il loro lavoro. Tutto sommato mi hanno tenuto a giro ancora per sette anni». Quella New York dove già una volta era fuggito, a imparare il cinese dopo cinque anni di lavoro all'Olivetti: «Allora già una volta New York mi aveva salvato e di nuovo torno in questa città, meravigliosa e orribile nella sua violenza, per cercare la salvezza. E questa contraddizione l'ho sentita molto forte, perché in fondo c'era qualcosa di ideologicamente sbagliato in quello che facevo. Cioè, disprezzavo questa macchina di guerra e di violenza che l’America è. Per cui, come una grande macchina di guerra, è anche una grande macchina di guerra contro il cancro. E io, disprezzando un aspetto, andavo lì e mi facevo curare da questi qua. Infatti mi è piaciuto molto alla fine, quando sono andato dopo tutti questi anni per l’ultima visita, e mi hanno detto che non c’era più niente da fare… E ho trovato che la migliore cosa che potevo fare era tornare a vivere in pace nella mia baita, senza più medicine, senza più contraddizioni, senza più questo senso che andavo a chiedere aiuto a qualcuno che poi disprezzavo per altri versi». Al centro c'è la malattia, combattuta con ogni mezzo, tra medici e guaritori, chemio e stravaganze. Mesi a New York, da solo, il racconto della «Ragna», la macchina della radioterapia: «Questa macchina,
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