Uno degli uomini politici che ho più stimato per l’ingegno, la passione e la moralità dei suoi comportamenti, parlo gi Ugo La Malfa, mi spiegò un giorno la regola principe del comportamento politico. Era la sera di un capodanno e la passavamo insieme in un casale d’un comune amico nella Maremma di Orbetello. Avevamo giocato alle carte, chiacchierato di varia umanità, brindato all’anno nuovo. Lui aveva voglia di passeggiare prima d’andare a dormire e mi invitò ad accompagnarlo. Faceva freddo e c’erano banchi di nebbia dalla parte del mare. Lui aveva una sciarpa avvolta intorno al collo, io m’ero rialzato il bavero della giacca. Arrivammo ad un bar dove si vendevano anche tabacchi e giornali. Ancora aperto. In una saletta sul retro c’era un biliardo ed era in corso una partita. “Sai giocare a biliardo?” chiese lui mentre bevevo un caffè. Sì, sapevo giocare. “Allora conosci le sponde”. Debbo averlo guardato un po’ perplesso perché aggiunse: “Voglio dire, sai giocare di sponda?”. “Me la cavo”, risposi. “Ecco, non si può far politica se non si sa giocare a biliardo e se non si conosce il gioco di sponda”. “Che c’entra la politica”, dissi io. “C’entra e come. Se giochi all’italiana, lo sai, devi far punti mandando la palla dell’avversario sui birilli. E devi tirare in modo da impallare l’avversario mettendo il castello dei birilli tra la sua palla e la tua. Lui, se è bravo, farà lo stesso con te. Sia te sia lui dovrete dunque arrivare sulla biglia avversaria usando le sponde, disegnando sulle sponde un angolo che porti la tua biglia sulla sua in modo da spingerla sui birilli, fare punti e lasciarlo impallato”. Sì, il gioco è questo, ma non vedo ancora che c’entri la politica. “L’uomo politico deve fare punti, deve conquistare il successo, vincere la partita. Perciò il gioco di sponda, gli effetti da imprimere alla biglia perché allarghi o restringa l’angolo, la forza del colpo di stecca, sono gli strumenti del mestiere. Non arrivi mai al successo in modo diretto. Ci arrivi di sponda. La tua biglia deve fare un percorso complicato. Mi fanno ridere quei catoni che ci fanno la predica: “Dovete parlar chiaro, esser coerenti, andare dritti allo scopo”. Che ne sanno della politica? Dritti allo scopo! Non era semplice passare dalla monarchia alla repubblica. Non era semplice governare con la DC e coinvolgere i sindacati operai nel disegno di ricostruire il paese. Non esa semplice essere amici leali della democrazia americana e dialogare con il Partito comunista cercando di mantenerlo nell’ambito della Costituzione. Niente è semplice in politica. Bisogna saper giocare a biliardo”. Uscimmo da quel bar un po’ più riscaldati. Io gli dissi: “Però tu non riesci ad andare sopra il 5 per cento dei voti. Spesso neppure lo raggiungi”. “Appunto, - rispose, - io guido il più piccolo partito italiano. Però influisco. Conto assai di più della dimensione numerica del mio partito. Sbaglio?”. “No, hai ragione, tu conti molto più di quanto pesi il Partito repubblicano”. “Perché so giocare di sponda”. “Va bene, ho capito. Ma quale è l’obiettivo? Arrivare al 7, al 10, al 12 per cento? Ci metterai trent’anni e saremo tutti morti”. Lui si fermò, mi strinse il braccio. Mi disse: “Non mi importa nulla di fare aumentare i voti del mio partito. Anzi non m’importa del mio partito. Io voglio che i comunisti diventino democratici, la destra italiana diventi democratica, il capitalismo italiano diventi democratico, la borghesia diventi democratica. Noi viviamo in un paese diviso tra due chiese, entrambe con vocazione teocratica, entrambe con due diversi paradisi. Io voglio che cambi sia la sinistra sia la destra. Voglio una democrazia compiuta e matura. A quel punto potrò morire in pace”. Passarono molti anni da quella notte e accaddero molte cose in Italia e nel mondo. Ma ricordo ancora la mattina in cui le agenzie diffusero il testo del discorso di Enrico Berlinguer quando disse che la Rivoluzione d’ottobre aveva perduto la sua spinta propulsiva e bisognava cercare vie nuove per il comunismo. Era l’autunno del ’78, Aldo Moro era stato rapito e ucciso dalle Brigate Rosse, un’atmosfera cupa e tesa gravava sul paese. Squillò il telefono, dall’altro capo del filo riconobbi la sua inconfondibile voce e l’accento siciliano che ancora conservava. “Hai sentito?” mi disse. “Ho sentito, sì”. “Sono arrivati all’appuntamento. Capisci? Sono arrivati!”. “Avremo ancora molta strada da fare”, dissi io. “Certo, molta strada, ma si è messo in moto un processo irreversibile. Irreversibile”, ripetè scandendo quella parola. “Adesso tocca a noi, perché tutti gli altri tenteranno di non farli uscire dal ghetto. Tocca a noi aprirgli la strada. Gli hanno buttato quel cadavere di traverso per tenerli dietro ai cancelli del ghetto, ma non sarà così. Tocca a noi aiutarli e pungolarli”. Era una voce appassionata e missionaria. Quella telefonata io la pubblicai sul giornale che dirigevo. E poi cercai come potevo di tener fede all’impegno di pungolarli e aiutarli ad uscire dal ghetto e ad approdare alla democrazia compiuta. Lui morì poche settimane dopo. Un colpo improvviso. La politica fu per lui, non a parole, la visione del bene comune. Cioè una visione morale. Però fu una rara eccezione.
Eugenio Scalfari (da “L’uomo che non credeva in Dio” – Einaudi - 2008)
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