sabato 25 aprile 2009

Il ritratto di Dorian Gray (finale)

Pensando a Hatty Merton, si domandò se il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più essere così orribile. Forse, se fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di eliminare dal viso le tracce di ignobili passioni. Forse le tracce del male erano già scomparse. Sarebbe andato a vedere. Prese la lampada sulla tavola e salì cautamente le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il viso stranamente giovane e indugiò un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa nascosta non lo avrebbe più terrorizzato. Gli parve che il peso gli fosse già stato tolto di dosso. Entrò tranquillamente, chiuse la porta alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il panno cremisi dal ritratto. Un grido di dolore e di indignazione gli sfuggì dalle labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non negli occhi che avevano assunto un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe dell'ipocrisia. La cosa era sempre disgustosa - più ripugnante di prima, se possibile - e la rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava più brillante, più simile a sangue appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la sua unica buona azione? Oppure per desiderio di una nuova sensazione, come aveva suggerito Lord Henry con la sua risata beffarda? O per quel desiderio di recitare una parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse per tutte queste cose insieme? E come mai la macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come un'orribile malattia sulle dita rugose. C'era del sangue sui piedi come se fosse colato, sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il coltello. Confessare? Voleva dire che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli sembrava mostruosa. D'altra parte, se anche avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Della vittima non rimanevano tracce. Tutto quello che gli apparteneva era stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano rimaste dabbasso. La gente avrebbe detto semplicemente che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero chiuso in manicomio... Tuttavia era suo dovere confessare per soffrire pubblicamente la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a tutti. C'era un Dio che imponeva agli uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua azione non lo avrebbe mondato finché non avesse confessato la sua colpa. La sua colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil Hallward gli sembrava una cosa di minima importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua anima che stava fissando. Vanità? Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi della sua rinuncia? No, c'era stato qualche cosa di più. Almeno così pensava. Ma chi poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva risparmiata per vanità, per ipocrisia aveva indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla rinuncia. Ora se ne rendeva conto. Ma questo delitto... lo avrebbe perseguitato per tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il peso del suo passato? Doveva proprio confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui. Il ritratto: ecco la prova. Lo avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo cambiare e invecchiare. Negli ultimi tempi questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano lo terrorizzava l'idea che altri potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle sue passioni, il suo ricordo gli aveva rovinato diversi momenti di gioia. Per lui aveva rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza. L'avrebbe distrutto. Si guardò in giro e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte e non vi era rimasta nessuna macchia: era liscio e lucente. Come aveva ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e tutto ciò che essa significava. Avrebbe ucciso il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso la mostruosa vita della sua anima e, senza i suoi infami avvertimenti, si sarebbe sentito in pace. Afferrò il coltello e colpì la tela. Si udì un grido poi un tonfo. Un grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e uscirono intimoriti dalle loro stanze. Due signori che passavano nella piazza si fermarono e guardarono in alto, verso la grande casa. Proseguirono finché incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il campanello ma non ottenne risposta. Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano, la casa era immersa nell'oscurità. Dopo un poco si allontanò, si fermò sotto un portico vicino e rimase a osservare. «Di chi è questa casa, agente?» domandò il più giovane dei due. «Del signor Dorian Gray, signore,» rispose il poliziotto. I due uomini si guardarono e si allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era lo zio di Sir Henry Ashton. All'interno, nei quartieri della servitù, i domestici semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia signora Leaf piangeva e si torceva le mani. Francis era pallido come un morto. Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero risposta. Chiamarono. Tutto era silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. La finestra cedette facilmente: la serratura era vecchia. Quando furono entrati, videro appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l'ultima volta, in tutto lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era un uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito, rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i suoi anelli lo riconobbero.

Oscar Wilde (Il ritratto di Dorian Gray)

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