Entro quarant’anni un terzo delle coste del mondo sarà sommerso dalle acque. Non lo dicono i catastrofisti, lo dice la maggioranza degli scienziati mondiali. Il protocollo di Kyoto ha già anni di ritardo, e c’è da credere che non verrà rispettato. Qualcuno dice che ci adatteremo. In fondo, che differenza c’è tra andare al mare a Cattolica o sulla spiaggia di San Marino? E finalmente verrà attuata la soluzione finale nella nostra bella Padania, dove solo i padani Doc potranno abitare sulle palafitte, e gli altri, che nuotino. Ma il disastro climatico non è importante, appare e scompare come il trailer di un kolossal catastrofico. Perché lo scempio dell’informazione moderna si basa su tre censure. La prima è quella evidente e brutale delle liste nere che percorre giornali, televisioni e istituti di cultura, il forbicione vecchio stile del Minculpop, in mano a mediocri impauriti da ogni talento. La seconda è la censura indotta, nel senso che ormai nelle televisioni, nei giornali e persino nel cinema e nei libri quasi tutti si rimpiccoliscono o si censurano da soli. La terza, la più importante è la censura gerarchica, e cioè il diverso peso e visibilità che si dà alle notizie. Sappiamo che nel nostro paese non possono mancare, nelle trasmissioni di cosiddetta informazione, almeno diecimila ore mensili di dichiarazioni di leader, dibattiti tra ospiti graditi all’azienda e amorazzi di Vip. Tolti gli spot, le sigle e la pubblicità a Vespa e alla Fallaci, non resta molto. Potremmo fare un lungo elenco delle notizie recenti o antiche, sepolte o offuscate da questo tipo di censura. Lo tsunami è quasi scomparso. Lo smog sopra una determinata soglia è un fastidio, sotto la soglia è un piacevole aerosol. Le nostre autostrade sono trappole mortali, ma finito l’ingorgo e il concerto dei clacson, torna il silenzio. Il fatto che la mafia viva il suo trionfo e tutta la Sicilia paghi il pizzo, è argomento quotidiano dei telegiornali (svedesi e inglesi). Ma sono sparite o poco importanti anche le guerre in Africa o Cecenia, i massacri latinoamericani e altre cose più fantasiose come la Sars, la mucca pazza, la Pidue, fate voi l’eccetera. In compenso restano notizie importantissime la crisi degli arbitri di calcio, il Mibtel, il Nasdaq, le liti sul Pil e i dubbi dell’Udeur. In questi giorni, ovviamente, la prima notizia è il rifinanziamento della spedizione in Iraq. Una decisione importante. Peccato che non sia mai stato altrettanto importante dire che la maggioranza degli italiani era ed è contraria alla guerra. Perché si impone come importante solo quello che accade in questo parlamento illegale (perché ha slealmente rotto le regole in base alle quali è stato eletto, regole che prevedevano il rispetto dell’opposizione, dell’equilibrio dei poteri e dell’opinione pubblica, quindi illegale perché ha scelto l’illegalità). Perciò è importante assistere al continuo comizio del Ceausescu col toupè, col suo ultimo trapianto pilifero di ascella d’orango, e ascoltare ore e ore questo ometto che si lamenta perché lo odiano, quando è lui il primo vero seminatore d’odio in questo paese. Queste sono le cose importanti per l’informazione di regime. Ma talvolta succede qualcosa di inatteso. Il video di Giuliana Sgrena è una di queste cose. Difficile da cancellare, anche se qualcuno ci proverà. E’ certamente una notizia importante, in quanto ogni politico deve occuparsene e ogni italiano deve vedere quelle immagini. Ma questa importanza è fragile. Dei politici che se ne occupano infatti, pochi possono o vogliono davvero salvarla, e molti del pubblico sono pronti a distogliere lo sguardo, una volta convinti con adeguato bombardamento di cospironi, che non si può fare nulla per lei. E’ vero, per Giuliana c’è stato molto: il papa, l’unanimismo televisivo e parole bilateral, spesso sincere. Ma chi conosce l’informazione sa che tutto questo può svanire e arretrare, di fronte a una vera scelta che scavi nel dubbio, nell’orrore, nelle bugie di questa guerra. Una grande mobilitazione può aiutarla, la trattativa può procedere, ma resta un nodo: Giuliana testimonia la possibilità vera della pace e dell’autodeterminazione dell’Iraq. Questo è importante in modo pericoloso. Sono già pronti scarichi di responsabilità, retoriche, e operazioni di dimenticanza, come per Baldoni e tanti altri. Cosa c’è di pericolosamente importante nel video di Giuliana e in video simili? Il calcolo elettorale dei nostri governanti, che peserà in ogni istante di questa vicenda. Il calcolo freddo della banda dei rapitori, dipinta come improvvisata, e che invece non sembra sprovveduta per niente, anzi misteriosamente inafferrabile e attenta a ogni sfumatura politica. Ma la cosa davvero importante, quella che pesa come un macigno, è la frase che recentemente Condoleeza Rice e poi Rumsfeld, hanno lanciato con fredda nonchalance nei confronti della Siria: «Valuteremo tutte le opzioni in nostro possesso». Fetente ipocrisia per dire: stiamo decidendo nuove possibili guerre. Altre frasi simili sono state lanciate nei confronti dell’Iran, o della Corea del Nord, e la risposta è stata terribile, ma prevedibile: ci difenderemo con le armi nucleari. Forse non c’è contro Giuliana un’opinione pubblica divisa o becera, siamo convinti che anche Calderoli e i suoi sceriffi sarebbero contenti che lei tornasse, ma contro di lei è in moto una macchina da guerra che non ha mai rallentato i motori. Non ha il tasto trattativa, ma neanche il tasto troppi morti o basta così sulla plancia di comando. E non sono il solo a pensare che la guerra stia per riprendere in nuovi scenari e che gli Usa non se ne andranno dal Medio Oriente, né tra un anno né tra vent’anni. Lì, in quel futuro immediato, forse si gioca la vita di Giuliana e di altri ostaggi. Certo è difficile scrivere sapendo che da un momento all’altra gli eventi possono portarci via Giuliana, o ridarcela. Cerchiamo di essere ottimisti: a volte la crudeltà della storia cambia per un volto, per un gesto di umanità, per qualcosa che si inceppa o stride, per un attimo di verità che riesce a travolgere le ipocrisie. E rimaniamo serenamente pessimisti. Sì, abbiamo un’alternativa al morire per il collasso climatico. Morire per una guerra convenzionale o atomica. E questo avendolo scelto freddamente, consapevolmente giorno per giorno. E non sarà responsabilità solo di piccoli Stati Canaglia o di grandi Stati Canaglia che chiamano canaglia gli altri. Sarà colpa della nostra rassegnazione, della resa ai crimini della propaganda. E quel giorno, apparirà evidente cosa è stato importante in questi anni. Quando, come succede agli uomini, la morte rende la vita una biografia, con un senso e una finalità. Così la morte della terra potrebbe diventare una grande biografia per pochi superstiti o la tesi di laurea di qualche perplesso studente venusiano. Ma apocalittici o fiduciosi, tutto questo è un motivo in più per avere fretta, frettissima nel fare il poco o il molto che ci resta per fermare l’orrore. Domani saremo tanti a sfilare per una persona sola che rappresenta le sofferenze dell’Iraq, ma rappresenta anche coraggiosamente e drammaticamente tutti noi. In questo sogno debole, ma irrinunciabile, per noi il più importante.
Stefano Benni (Il Manifesto, 18 febbraio 2005)
Stefano Benni (Il Manifesto, 18 febbraio 2005)
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