lunedì 15 giugno 2009

Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica

Giovanni Sartori, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli, 2000, 122 pp.
Un noto artificio della letteratura polemica consiste nel costruirsi l’immagine del nemico, descriverne gli argomenti, distruggerli, e naturalmente uscire vincitore dal duello. Non è difficile: specie se, come di solito accade, il nemico è più immaginario che reale. Di trovarci all’interno di una trappola retorica di questo genere è la sensazione che abbiamo avuto leggendo l’ultimo volume di Giovanni Sartori: che, a dispetto del titolo “accademico”, è più un pamphlet di polemica politica e di (auto)collocazione ideologica che un saggio scientifico. È probabilmente a causa di questo taglio che si spiega il salto tra una prima parte, dedicata alle definizioni del pluralismo, di taglio fondativo, e una seconda parte volta a ridicolizzare posizioni altrui, superficialmente analizzate e discusse con acrimonia. Peraltro, è proprio la seconda parte che è stata quella più apprezzata e valorizzata nel superficialissimo dibattito politico–culturale che si è aperto intorno ad alcune tesi del libro. Per Sartori il pluralismo “si sviluppa lungo la traiettoria che va dall’intolleranza alla tolleranza, dalla tolleranza al rispetto del dissenso e poi, tramite quel rispetto, al credere nel valore della diversità” (p.25). Inoltre, il pluralismo postula una società di associazioni multiple, purché siano volontarie e aperte ad affiliazioni multiple (ma ci sono affiliazioni ad “associazioni” perfettamente volontarie che non prevedono una facile “molteplicità”, dall’iscrizione ai partiti politici all’ingresso in un ordine religioso); ma, aggiunge Sartori, “una società multi–gruppo è pluralistica se, e soltanto se, i gruppi in questione non sono tradizionali” (p. 35), dove per “tradizionali” pare intendere “religiosi”. Ora, poiché le società pluralistiche sono piene di associazioni “tradizionali” e tuttavia non sono per questo meno pluralistiche, ma semmai lo sono di più, come la mettiamo? Date le premesse definitorie, non si spiega il salto logico che lo porta, come vedremo, a rifiutare gli “estranei”: in questo senso il pluralismo di Sartori è tanto condivisibile sul piano teorico quanto discutibile sul piano delle conseguenze che se ne traggono. Ci limitiamo ad alcuni nodi fondamentali, desumibili dalla polemica di Sartori contro il multiculturalismo, nei confronti del quale anche chi scrive ha molte e serie riserve. L’esame che ne fa l’autore rasenta tuttavia la caricatura. Innanzitutto, si occupa essenzialmente della sua versione nordamericana. In Europa (e di questa, e dell’Italia, il libro ha l’ambizione di parlare) ben pochi propongono pedissequamente quel multiculturalismo, per come viene qui descritto, con la sua zavorra tipicamente americana di promozione delle culture native e importate, linguaggio politically correct e autocensura. Né da noi si alzano voci per proporre “un multiculturalismo che rivendica la secessione culturale, e che si risolve in una tribalizzazione della cultura” (p. 31). Semmai chi rivendica la secessione culturale, talvolta, sono degli autoctoni, magari padani, e notoriamente assai poco multiculturalisti. Il problema più serio, tuttavia, sta nella definizione degli “estranei”: “persone che non sono “come noi”“ (p. 10). Una prima osservazione è d’obbligo: “noi” chi? Europei, occidentali, bianchi, liberali, cristiani, ricchi o cos’altro? Non è un’astrazione, quel “noi”, come è un assunto quello di “estranei”? La seconda, sul perché della loro estraneità, apparentemente radicale e insuperabile, è ancora più seria e stridente con i principi del buon pluralismo che Sartori descrive. Sartori dice che gli stati europei “si stanno imbattendo in contro–nazionalità, in immigrazioni sempre più massicce che ne negano l’identità nazionale” (p. 47). Fino a prova contraria gli immigrati hanno una loro nazionalità, possono talvolta ma non sempre desiderare la nostra, qualche volta – e in alcuni paesi, nella maggioranza dei casi – la ottengono magari per nascita, per matrimonio o per altri motivi (e allora perché dovrebbero essere contro?), oppure può andare loro benissimo di mantenere la propria nazionalità d’origine e risiedere da noi, il che non significa essere “contro” di noi. Ma il discorso potrebbe essere affrontato su un piano più generale, facendo riferimento ai cambiamenti fattuali in corso: diffusione di doppie nazionalità; nascite al di fuori del paese d’origine dei genitori; processi di unificazione transnazionale come quello europeo, che cambiano il concetto di cittadinanza, se non quello di nazionalità; accresciuta mobilità anche da parte delle élite, di cui l’autore stesso è un esempio. Su questo tema si è sviluppato un ampio dibattito teorico – cui Sartori non fa alcun riferimento – intorno a concetti come “cittadinanza transnazionale” e altre forme di partecipazione multipla o differenziata: concetti certo discutibili, ma che sarebbe opportuno almeno analizzare. Ma Sartori specifica anche meglio cosa intende per “estranei”. Oggi in Europa la xenofobia si concentra “sugli africani e sugli arabi soprattutto se e quando sono islamici” (p.48). Un primo riferimento alla genericità delle definizioni si impone, come quella secondo cui la cultura asiatica sarebbe “laica” e “non è caratterizzata da nessun fanatismo o comunque militanza religiosa. Invece la cultura islamica lo è”. Che cosa è, se esiste, un universale chiamato “cultura asiatica”? E se anche esistesse, dove metterebbe Sartori, che so, il fondamentalismo indù? Peraltro, ricordiamo che la maggioranza dei musulmani del mondo vive in Asia, e che l’Indonesia da sola ne ha quanti tutti i paesi arabi messi insieme. È proprio sicuro, infine, che “la cultura islamica lo è”, come dire, in sé? Il fatto che ce lo raccontiamo e ripetiamo fa di questo assunto una verità? Sartori sostiene che “la visione del mondo islamica è teocratica e che non accoglie la separazione tra Stato e Chiesa, tra politica e religione” (p. 49). L’argomentazione sembra avvitarsi in un serio problema teorico: è inaccettabile infatti per un pluralista che ci sia qualcuno che, per rimanere all’esempio di Sartori, la separazione tra stato e chiesa non la ritiene auspicabile? Il pluralismo non può arrivare fino a lì? Di quanti cattolici italiani, od ortodossi slavi, o anglicani, o luterani scandinavi dovrebbe liberarsi l’Europa per rispondere ai canoni qui descritti? Ci pare una definizione concettualmente problematica del pluralismo: limitata, per l’appunto, a chi la pensa come noi (o come Sartori); poco democratica, anche; poco “aperta”, nonostante i rituali richiami a Karl Popper. “L’occidentale non vede l’islamico come un “infedele”. Ma per l’islamico l’occidentale lo è” (p.49). Pur avendo qualche dubbio anche sul primo postulato (molti occidentali vedono gli islamici precisamente come degli infedeli), limitiamoci al secondo. Come accettare questi “aperti e aggressivi “nemici culturali”“? In base a questa estraneità ontologica dell’islam, postulata anch’essa a priori, Sartori ritiene che “il contro–cittadino è inaccettabile” (p. 50). Ci limitiamo a porre un immediato problema giuridico, tutt’altro che teorico. E i cittadini europei che sono diventati musulmani? Gliela togliamo, a loro, la cittadinanza? Tra convertiti (pochi) e naturalizzati (molti, e alcuni anche da due o tre generazioni) sono stimabili tra i 4 e i 6 milioni i cittadini europei di fede musulmana: che facciamo, li rimandiamo a casa loro? Il problema è che sono a casa loro... E sarebbe interessante andare a vedere se hanno davvero creato qualche problema di incompatibilità con gli stati in cui risiedono, e se davvero si comportano come “aggressivi nemici culturali”: un conto è immaginarlo, un altro verificarlo. Così impostato il dibattito non fa buon gioco nemmeno ad altre critiche al multiculturalismo (nella sua versione anglosassone), pure invece fondate, che Sartori avanza e che ci sarebbe piaciuto vedere approfondite, sia nel distinguere diversità etnica e diversità culturale, sia nelle critiche all’enfasi che il multiculturalismo spesso propone sul valore della differenza in quanto tale. Molto del ragionare di Sartori sulle culture altre si fonda su una concezione essenzialista delle medesime, che parte da un’immagine astorica di individui che sono invece storicamente situati. Dire, per esempio, che i musulmani sono fatti a una certa maniera perché così sostiene una certa interpretazione (spesso occidentale; e l’autoreferenzialità dell’operazione passa solitamente inosservata) del Corano o della tradizione, e dedurne i musulmani di oggi, sarebbe come dedurre dalla lettura di San Tommaso o del catechismo universale i cattolici di oggi, ovunque si trovino (e a prescindere dal livello di istruzione, dalla classe sociale, dal sesso, dalle opinioni politiche... insomma da tutte quelle variabili che costituiscono l’abc dello strumentario sociologico e che purtroppo ci complicano la vita e non ci consentono, per onestà scientifica, troppo facili “deduzioni”). Nella parte finale del libro, dopo aver paventato le sciagure del diritto di voto agli immigrati, Sartori dice: “Quel voto servirà, con ogni probabilità, per renderli intoccabili sui marciapiedi, per imporre le loro feste religiose (il venerdì), e magari (sono i problemi in ebollizione in Francia) il chador alle donne, la poligamia e la clitoridectomia” (p. 103). Se così fosse, in Francia e Gran Bretagna, dove la maggior parte degli ex–immigrati è cittadina e vota, o in Olanda, dove gli immigrati, senza esser cittadini, votano a livello locale, tutto ciò sarebbe già successo o starebbe per succedere, cosa che qualsiasi analisi dei comportamenti di voto e dei risultati elettorali, o anche solo un giretto nei paesi suddetti, invece smentisce categoricamente. Ricordiamo che i problemi in ebollizione in Francia, a proposito dell’islam, sono tutt’altri: non di questo, e non con questo linguaggio, si occupa il tavolo di lavoro aperto dal ministro Chevènement, con l’obiettivo esplicito di arrivare a un qualche riconoscimento dell’islam nel paese europeo che ospita il maggior numero di musulmani. Né di questo, e a questo modo, si parla in Belgio, che ha riconosciuto l’islam nel 1974 e sta arrivando oggi alle sue conseguenze applicative. E non sono questi i problemi reali in Germania, che pure non vuole riconoscere nemmeno di avere degli immigrati. Queste, ovunque, sono le cose che si evocano in certo linguaggio giornalistico e politico, anche perché alcuni problemi veri non sono nemmeno particolarmente seri, o lo sono solo in alcune loro percezioni particolarmente “nervose”, ad esempio in Francia, come il chador, e altri non sono imputabili in specifico all’islam, ma ad alcune barbare tradizioni, giustamente inaccettabili in Europa, di alcune popolazioni, neanche tutte e solo musulmane, e giustamente stigmatizzate. Sartori sbaglia anche sul piano politico. In Gran Bretagna ci sono oltre 150 consiglieri comunali musulmani, alcuni sindaci, un parlamentare, nonché un tale che si chiama Lord Ahmed, che in quella camera legittimamente siede insieme ad altri due lord e una baronessa musulmani; e nessuno ha mai chiesto nulla che fosse incompatibile con la civiltà giuridica di quel paese. “Una popolazione allogena del dieci per cento può costituire una quantità accoglibile; del venti per cento probabilmente no; e se fosse del trenta per cento è pressoché sicuro che verrebbe fortemente resistita. Resisterle sarebbe “razzismo”? Ammesso (ma non concesso) che lo sia, allora la colpa di questo razzismo è di chi lo ha creato” (p. 106). Magari Sartori ha ragione, ma palesemente confonde gli Stati Uniti, dove vive, con l’Italia, su cui dice di riflettere. Qui infatti siamo al 2–3% (per due terzi non musulmani): non è un po’ presto per manifestare questo genere di preoccupazioni? Il capitolo si chiude con questa affermazione, che lasciamo alla riflessione dei lettori: “Il razzismo nasce in Italia con il fascismo, e muore con lui. Se rinascesse non sarebbe perché gli italiani sono razzisti, ma perché un razzismo altrui genera sempre, a un certo punto, reazioni di contro–razzismo. Stiamo attenti: il vero razzismo è di chi provoca il razzismo”. Ovvero, la colpa delle botte è di chi le prende.

STEFANO ALLIEVI Università di Padova

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