giovedì 3 settembre 2009

«E va bene ingegnè, ma mò non ci pensate più. A voi poi che ve ne importa, pensate ‘a salute!» XI - Epicuro


«Gennà,» chiede il dottor Palluotto al professor Bellavista «ma tu come la vedi questa situazione economica italiana?»

«Siamo in pieno boom economico.»

«Ebbè tu certe volte mi fai veramente toccare i nervi!» scatta il dottor Palluotto. «Ma come? Siamo in pieno boom economico? Uno con te non riesce mai a fare un discorso serio che tu subito lo devi buttare in barzelletta. Il guaio è che oramai non puoi più resistere alla tentazione di salire sul palcoscenico e di dire sempre qualcosa di sensazionale.»

«E va bene dottò» interviene Saverio «e non vi arrabbiate! Quello il professore poi che ha detto? Ha detto che in Italia c’è ancora qualcuno che si sta facendo un poco di boom economico.»

«Nossignore, Savè, il dottor Palluotto ha capito benissimo» precisa il professor Bellavista. «Io ho detto che siamo in pieno boom economico e lo confermo. In altre parole l’Italia e gl’italiani non hanno mai avuto un così alto tenore di vita. Da quanto ho avuto modo di vedere durante queste estate i miliardari in Italia sono all’incirca cinquanta milioni.»

«E va bene,» dice il dottor Palluotto sedendosi «sentiamo questa nuova teoria economica del professor Bellavista.»

«Caro Vittorio, tu sei troppo giovane e quindi non ti puoi ricordare di come si viveva prima della guerra, ma se ci fosse ancora la buonanima di tuo padre qui con noi, io non avrei bisogno di dare tante spiegazioni. Dunque vi stavo dicendo che prima della guerra tutti gli italiani, dico tutti, vivevano con estrema misura. Eravamo un paese povero e sapendolo mantenevamo un tenore di vita adeguato. Faccio qualche esempio: i ricchi mangiavano la carne una o al massimo due volte la settimana, durante gli altri giorni ognuno s’arrangiava con le uova, le verdure e la caciotta. I ristoranti praticamente non esistevano, i pranzi venivano cucinati dalle madri di famiglia o da una razza, oggi completamente estinta, che era quella delle domestiche fisse: vecchie domestiche che rimanevano in una famiglia tutta una vita.»

«Gli ultimi esempi di schiavitù dell’evo moderno!»

«Non bestemmiare Vittò! Le vecchie domestiche fisse della Napoli dei miei tempi rappresentavano i pilastri delle famiglie napoletane. Erano le vestali della casa! Non avevano marche assicurative ma in compenso avevano tanti figli, tutti quelli che si erano cresciuti dividendone l’amore con le madri effettive.»

«A casa mia quando ero ragazzo» dice Luigino «tenevamo una cameriera che si chiamava Concettina. Quando sono nato io Concettina doveva avere qualcosa come quarant’anni e di questi quarant’anni credo che più della metà li aveva già passati in casa nostra. Concettina mi aveva visto nascere e mi aveva pure cresciuto, e quando mi venne il tifo da bambino dice che per quattro giorni e quattro notti non si mosse da vicino al mio letto, quattro giorni e quattro notti senza dormire! Concettina quando a me servivano i soldi per andare, che so io, al cinema oppure a comprarmi il castagnaccio, me li dava sempre lei. In pratica io credo che tra me ed i miei fratelli, tutti i soldi di Concettina finivano di nuovo nelle tasche nostre. E già perché quella Concettina parenti al paese non ne aveva e quando morì, salute a noi, nella sua stanzetta non trovarono nemmeno una lira. Aveva un cassetto dove fu trovata una fotografia sua di quando aveva vent’anni e stava sotto al braccio di un marinaio. Sulla fotografia c’era una dedica che diceva: “Al mio grande amore napoletano, Gustavo”. E poi tante piccole cose: i disegni che io facevo a scuola, le fotografie delle prime comunioni mia e dei miei fratelli, e tante immaginette di San Giorgio. E già perché Concettina era molto devota a San Giorgio, quello che uccise il drago, e ogni tanto faceva un voto: per esempio quando papà mio partì per la guerra, lei fece il voto a San Giorgio che se papà fosse tornato sano e salvo non avrebbe mangiato più frutta per tutta la vita.»

«E voi» chiede il dottor Vittorio «l’avete ricompensata non pagandole le marche assicurative.»

«Non lo so dottò, ma noi a Concetta le volevamo bene e se le avessimo pagate le marchette io penso che Concetta si sarebbe dispiaciuta.»

«Questa è retorica Luigì! Il fatto è che, a prescindere dall’episodio di Concettina che probabilmente era diventata una persona della famiglia, spesso certi episodi di amore, per usare un’espressione cara al nostro esimio professore qua presente, non sono altro che comodi sistemi per sfruttare l’ignoranza del popolo.»

«Vittò, come stiamo lontani!» dice addolorato il professore.

«Ma io non ho capito,» interviene Salvatore «che c’entra Concettina con il boom economico italiano?»

«Ha ragione Salvatore» dice Bellavista. «Le vecchie domestiche napoletane ci avevano portato fuori strada. Dunque io stavo dicendo che prima dell’ultima guerra, in Italia, anche i ricchi vivevano con estrema misura ed acquistavano solo le cose assolutamente indispensabili. Io per esempio, da ragazzo, una volta sola, siccome ero malato, ebbi in regalo un giocattolo, un cavalluccio a dondolo che avevo sempre desiderato, ma mio padre, prima di decidersi all’acquisto, volle assicurarsi con il medico di famiglia che veramente mi trovavo in pericolo di vita Nelle ricorrenze tradizionali invece, befane ed onomastici, sì e no si riusciva ad avere qualche fesseria. Il compleanno era del tutto ignorato e Babbo Natale non si sapeva nemmeno chi fosse.»

«Sì, però c’era» dice Luigino «un tipo di regalo che oggi non si usa più.»

«E quale sarebbe?»

«‘A bella cosa! Uno andava, ad esempio, a fare una visita ad una nonna, ad una zia e si sentiva sempre dire: “Nennì, mo’ a zia sai che te dà! te dà na bella cosa!”. E così uno aveva, che so io, un biscotto, una caramella... Io credo che se oggi una zia volesse dare una caramella ad un nipote, facilmente si sentirebbe rispondere “no grazie” e buonasera.»

«Insomma» continua Bellavista «la vita era più semplice. Certi consumi non esistevano: per esempio la villeggiatura era un fatto d’élite e nessuno, dico nessuno, faceva il week-end. Non esisteva nemmeno la parola! Mio padre e mia madre andarono una sola volta a Capri nella loro vita e fu in occasione delle nozze d’argento. Ci mandarono una cartolina su cui avevano scritto: “Saluti da Capri, mammà e papà”.»

«E questo che c’entra con il boom economico?» chiede il dottor Vittorio.

«C’entra c’entra, perché malgrado la crisi nazionale ed internazionale, il grosso del paese non ha voluto ridimensionare i propri sprechi: i cinema, i teatri, gli stadi, i posti di villeggiatura ecc. ecc. hanno continuato a registrare il tutto esaurito come se gli arabi non avessero detto niente.»

«Tu t’illudi Gennà, ma io ti garantisco che quest’anno la nazione, che non ti dimenticare è fatta soprattutto di operai e di contadini, ha drasticamente ridotto il suo tenore di vita e che Capri e Saint Moritz non fanno testo, perché proprio gli abituè di Capri e Saint Moritz sono quelli che non hanno risentito della crisi economica.»

«Non sono d’accordo, perlomeno non lo sono sulla misura del fenomeno che tu mi citi. Il contadino e l’operaio non hanno rinunciato ancora a certe conquiste come la 500 e come la carne per secondo.»

«E perché ci dovrebbero rinunciare?»

«Questo è un altro discorso, io volevo solo dire che la crisi è ancora solo sui giornali e non lo è, come presa di coscienza, nell’animo dei cittadini.»

«Ma perché professò» dice Salvatore «io non ho capito, ma noi che dovremmo fare?»

«Epicuro un giorno disse: “Se vuoi arricchire Pitocle, invece di aumentarne le rendite sfrondane i desideri!”»

«E che voleva dire professò?»

«Voleva dire che se fossimo tutti un poco più modesti nelle nostre pretese non avremmo nessuna crisi economica.»

«Quello il professore» spiega Saverio «è sempre stato devoto a Sant’Epicuro.»

«Savè, Epicuro non è stato mai santo, anche se a parere mio se lo sarebbe veramente meritato.»

«E perché non lo hanno voluto santificare professò?»

«Innanzitutto perché è nato nel IV secolo avanti Cristo e poi perché quasi tutti ne hanno sempre parlato male.»

«Infatti,» precisa il dottor Vittorio «epicureo si dice di una persona che pensa solo a mangiare, bere e a godersi la vita.»

«E chiamalo fesso!» esclama ammiccando Saverio. «Ovviamente dottore quando voi dite godersi la vita volete alludere alla soddisfazione completa dei sensi?»

«Ecco qua,» protesta il professore «stiamo facendo finire Epicuro nella monnezza

«Ma quello è stato il dottore che ha detto che il cavaliere Epicuro era uomo di mondo.»

«E invece non avete capito niente. E adesso se permettete vi illustro io in cinque minuti l’etica di Epicuro, a cui noi napoletani dobbiamo bene o male il nostro carattere.»

«Veramente? e perché?»

«Perché uno dei principali seguaci di Epicuro fu un certo Filodemo di Gadara, vissuto nel I secolo avanti Cristo. Filodemo si trasferì a Napoli, ad Ercolano per essere precisi, e qui fondò un’importantissima scuola epicurea sul modello del “Giardino di Atene”. In questa scuola Filodemo insegnava al popolo napoletano la classificazione dei piaceri ed il disprezzo del potere.»

«Infatti professò, il napoletano è sempre stato un poco, come dire, filosofico» dice Saverio.

«Dunque,» continua Bellavista «Epicuro diceva che esistono tre tipi di piaceri: i piaceri primari che sono naturali e necessari, i piaceri secondari che sono naturali ma non necessari ed i piaceri vani che non sono né naturali né necessari.»

«Non ho capito professò, ma di quali piaceri parlate?»

«Un poco di attenzione e mi spiego meglio. Dunque i piaceri primari, quelli cioè naturali e necessari, sono il mangiare, il bere, il dormire e l’amicizia.»

«Mangiare, bere, dormire, l’amicizia e basta?» chiede Saverio. «Professò, ma siete sicuro che non vi siete dimenticato qualcosa di veramente importante?»

«No Savè, per Epicuro il sesso era un piacere secondario, ovvero naturale ma non necessario.»

«Veramente io non sono d’accordo con questo amico vostro» dice contrariato Saverio.

«E a noi non ce ne importa! Allora, stavo spiegando che Epicuro, quando diceva che il mangiare ed il bere erano importanti, non intendeva dire che uno si deve abboffare appena possibile, ma al contrario sosteneva che bisognava accontentarsi dello stretto necessario e quindi per piacere primario lui intendeva: il pane come mangiare, l’acqua come bere, ed un pagliericcio come dormire.»

«E che schifezza di vita che faceva questo Epicuro!»

«Sissignore, però in compenso questi piaceri erano importantissimi perché erano tutti vitali e una volta che essi fossero stati esauditi l’uomo poteva valutare con maggiore serenità l’opportunità di tentare qualche piacere secondario.»

«Per esempio?»

«Per esempio, il formaggio. È ovvio che il pane e formaggio è più buono del pane solamente, però è altrettanto vero che il formaggio non è un bene indispensabile. Quindi un uomo che fa? Chiede quanto costa questo formaggio: se costa poco, se lo compra, se invece costa molto dice: grazie lo stesso ma veramente io ho già mangiato.»

«Questo lo diceva sempre Epicuro?» chiede Saverio.

«Sissignore. In altre parole tutti i piaceri secondari, come il mangiare meglio, il bere meglio, il dormire meglio o come l’arte, l’amore sessuale, la musica, eccetera eccetera, debbono essere valutati caso per caso, momento per momento, in modo da poter fare un bilancio dei vantaggi e degli svantaggi che ci procurano. Avete capito?»

«Sì professò ma è meglio se ci fate ancora qualche esempio.»

«E va bene, e allora supponiamo che Saverio oggi conosce una bellissima donna e che questa donna dice a Saverio che vuole fare l’amore con lui...»

«Fosse ‘o cielo professò!» esclama Saverio. «Però sia chiaro che io soldi non ne caccio!»

«Ecco qua, come vedete Saverio già ha posto una condizione: la donna può essere bella quanto vuole lei, ma se ad esempio volesse una centomila lire, a Saverio la cosa non interesserebbe più.»

«Centomila lire! E per chi mi avete pigliato! Se si trattasse di una cinquemila lire e se la signora ci mettesse molto sentimento, si potrebbe pure vedere.»

«Supponiamo inoltre che questa donna sia anche l’amante di un guappo, e che Saverio sa che se questo guappo lo scopre sul fatto è finita per lui, io vi domando: Saverio che fa?»

«Si caca sotto professò,» dice Salvatore «e dice alla signora in questione che a lui veramente non ci piacciono le donne.»

«Non offendiamo Salvatò, che qua il sottoscritto non si è messo mai paura di nessuno. Però dico io, con tante donne che ci sono sulla faccia della terra io poi non capisco perché mi dovrei mettere proprio con questa amante del guappo, dico bene o no?»

«Insomma Saverio che ha fatto? Ha valutato i pro ed i contro di questo piacere secondario ed ha deciso che tutto sommato la cosa non è di suo interesse. E questa è, né più né meno, che la filosofia di Epicuro.»

«Ma sinceramente professò, non mi sembra una filosofia molto originale» commenta Saverio.

«Piano piano. Approfondiamo meglio l’argomento. Noi prima abbiamo detto che ogni qual volta io mi trovo a desiderare un piacere secondario debbo sempre valutarne la convenienza, ed allora proviamo ad applicare questo concetto alla vita aziendale dell’ingegnere qua presente.»

«A me?» dico io. «A me come ingegnere?»

«Precisamente, a lei come lavoratore. Dunque lei oggi percepisce uno stipendio per cui tutto sommato diciamo che non le manca niente. Ad un certo momento però le viene in testa di volersi fittare una villetta al mare. È naturale che le piaccia il mare e quindi ci troviamo sicuramente di fronte ad un piacere secondario: naturale ma non necessario. Si rende conto però che, per riuscire a fare i soldi del fitto deve anche fare carriera e fare carriera comporta tutta una serie di sacrifici: lavorare fino a tardi la sera, dare ragione al proprio superiore anche quando ha torto, andare a lavorare a Milano invece di rimanere a Napoli, e così via. Ora Epicuro in questo caso come si comporterebbe? Direbbe: volete sapere una cosa? Io mi accontento di come sto e tutto sommato di questa villetta al mare me ne fotto.»

«Caro Gennaro, questo Epicuro descritto da te è ancora peggio dell’Epicuro che conoscevo io» dice il dottor Palluotto. «Questa non è filosofia, questa è superficialità e te lo dimostro. Punto primo: se l’ingegnere avesse sempre ragionato così come dice Epicuro, non sarebbe diventato mai ingegnere e non avrebbe raggiunto l’attuale stato di benessere. Punto secondo: se oggi l’ingegnere lavora e vuole fare carriera, non lo fa solamente per comprarsi la villetta o il motoscafo, ma perché nella vita ci sono anche degli altri valori, che tu forse ignori, ma che si chiamano soddisfazioni morali. Terzo ed ultimo punto: chi ti dice a te che il lavoro per l’ingegnere sia un sacrificio? Supponi invece che l’ingegnere si diverta a lavorare, ora dimmi tu perché dovrebbe rinunciare a questo piacere.»

«Superficiale non è la filosofia di Epicuro, superficiale sei tu, carissimo Vittorio, quando non capisci quello che ti dico. Ma procediamo con ordine e rispondiamo innanzitutto alla terza obiezione, ovvero all’ipotesi che l’ingegnere si diverta a lavorare. Ipotesi strana ma possibile. Ebbene in questo caso l’inconveniente citato come “lavorare tutto il giorno” viene cancellato dalla lista dei “contro” e viene inserito nella lista dei “pro”, senza per questo invalidare il metodo epicureo per il quale, prima di decidere se perseguire o no un dato piacere, è necessario procedere ad una valutazione globale del problema. Lavorare tutto il giorno però significa anche trascurare altri aspetti della vita; l’affetto di una moglie, il vivere di più accanto ai figli, il leggere, il passeggiare e tante altre cose possibili. Comunque sia chiaro che l’individuo è sempre padrone, secondo le proprie inclinazioni, di preferire un piacere secondario ad un altro piacere secondario. Quello che invece non gli è consentito è il trascurare un piacere primario a favore di un piacere vano.»

«E sarebbe?»

«Parlo dell’amicizia, ovvero del nutrimento dello spirito. E per amicizia qui dobbiamo intendere l’amore che possiamo provare per il nostro prossimo. Ora purtroppo il lavoro, quando oltrepassa certi limiti, non lascia più il tempo necessario per coltivare gli affetti e quindi non consente più il godimento di un piacere primario.»

«Nessuno dice che l’ingegnere per fare carriera debba per forza abbandonare la famiglia o non avere più amici!»

«E allora devi ammettere che si tratta di una semplice questione di misura. E qui ti volevo: tu dici che l’ingegnere se avesse ragionato sempre come Epicuro, non avrebbe raggiunto il suo attuale stato di benessere, non avrebbe studiato non si sarebbe laureato e non avrebbe occupato quella posizione che oggi occupa. Ed io ti rispondo che non è detto E già perché Epicuro non dice che tu devi vivere stando pancia all’aria senza fare niente, in quanto questa scelta potrebbe essere pericolosa ai fini della tua sopravvivenza e non garantirebbe i tuoi bisogni primari. E allora Epicuro che fa? Dice all’ingegnere: tu, se hai tempo a disposizione, studia, lavora, ma cerca di distribuire questo tempo fra tutte le cose importanti che la vita ti offre. E cosi, finalmente, siamo arrivati alla sostanza della tua critica: le soddisfazioni morali connesse al lavoro! Ora io posso capire il ciabattino che con una mano si accarezza la suola delle scarpe che ha appena terminato di fare. Io posso capire il falegname che convince il legno a diventare mobile o l’artista che socchiude gli occhi per meglio guardare la sua opera, ma non riesco a capire la soddisfazione dell’impiegato, che sogna di diventare dirigente. Non capisco il deputato che vuole diventare ministro, il vicedirettore che vuole diventare direttore Non capisco l’uomo che desidera il potere non per quello che il potere può dare ma per quello che il potere rappresenta. Il disprezzo del potere è alla base di tutta la filosofia epicurea. Il potere è il piacere vano per eccellenza. Ricordatevi che sono “vani” tutti i piaceri non naturali e non necessari e che quindi essere assessore, essere dirigente, portare un pezzo di pietra al dito che costa un patrimonio solo perché si chiama diamante, sono tutti beni che un individuo sano anche se gli venissero offerti gratuitamente, dovrebbe sempre evitare per rispetto alla sua stessa persona.»

«Io però non ho capito una cosa» dice il dottor Palluotto «ma se a un povero dio piace diventare assessore, a te che te ne importa? Che male ti fa?»

«A me niente, a lui stesso moltissimo. E già perché, avendo desiderato un piacere vano, il poveretto viene subito coinvolto in un’attività competitiva. Tutti i piaceri vani, in quanto convenzionali, sono anche competitivi. Infatti questi piaceri, non essendo naturali, sopravvivono solo grazie al condizionamento cui viene sottoposta la società, e allora che succede: che se in un certo ambiente viene messo in palio per più persone un solo titolo di capoufficio, tutti gli aspiranti a questo titolo, in quanto rivali, non riescono più a raggiungere un rapporto di amicizia. Io, per esempio, la sera, dopo mezzanotte, mi vado a fare due passi a Mergellina e capita spesso che incontro qualche amico. Anzi spesso incontro proprio Luigino. È vero Luigino?»

«E come no!» risponde Luigino. «Noi chiacchierando chiacchierando certe volte facciamo le due, le tre di notte. Il professore per esempio mi dice: “Luigì ti accompagno a casa” ed arriviamo fino a sotto il portone di casa mia, e allora io poi, siccome mi dispiace di lasciarlo solo, gli dico: «professò mò vi accompagno io” e così andiamo fino a casa sua. E questo facciamo: io accompagno a lui e lui accompagna a me, e parliamo parliamo...»

«La strada è fatta per parlare e camminare» commenta Bellavista.

«Ma questo che c’entra?» chiede il dottor Palluotto.

«C’entra, c’entra! È addirittura illuminante! Io con questo discorso sulle passeggiate notturne volevo evidenziare che nessun potente, nessun Kissinger, nessun Breznev, Carli o Cefis, possono permettersi il lusso di passeggiare la notte con un amico, e questo per ben due motivi: primo perché non ne avrebbero il tempo e secondo perché forse non hanno nemmeno un amico con cui parlare.»

«Ma scusami Gennà, ma che esempio del salsiccio mi stai facendo!» protesta il dottor Palluotto. «Tu mi citi due persone che praticamente non fanno niente dalla mattina alla sera. Tu e Luigino, per quello che producete sulla terra, vi potete fare pure tutta la nottata a passeggiare, tanto quello che è certo è che la mattina dopo non avete niente da fare. Ma io, e mi dispiace per il tuo Epicuro, mi rifiuto nella maniera più categorica di concepire la vita come un fatto puramente edonistico.»

«E adesso non bestemmiare Vittò!» grida il professore Bellavista. «Tu mi confondi la temperanza epicurea con l’edonismo dei cirenaici!»

«Dottò, mi meraviglio di voi» dice Saverio guardando con disapprovazione il dottor Palluotto.

«Vivere il momento, acchiappare il piacere non appena sia possibile e dovunque esso si trovi, non è stato mai il credo di Epicuro! Era Aristippo di Cirene che predicava la ricerca del piacere.»

«D’accordo» dice Palluotto «ma anche una vita basata sul disimpegno totale non può essere accettata. L’hippy, vestito di stracci, che si trascina di paese in paese, vivendo come un parassita alle spalle di quella stessa società che lui condanna, a me sinceramente fa schifo.»

«E gli hippies non sono epicurei, sono cinici! Dicendo questo mi confondi Epicuro con Diogene!»

«Dottò» dice sempre Saverio «oggi non è giornata vostra: non ve ne va bene una.»

«Epicuro, il grande Epicuro, l’apostolo del giusto impegno diceva che la prima virtù era la temperanza, la misura! E Napoli è la terra delle cose fatte fino ad un certo punto. La produttività può essere fatale come l’ignavia!»

«Se non sbaglio,» dico io «giorni fa lei ci diceva che anche nella filosofia cinese si professava questa teoria del giusto mezzo.»

«Non solo nella filosofia cinese, ma anche in quella indiana e nella stessa filosofia greca da altri grandi pensatori. Il primo tra i cinesi a parlare della “dottrina della via di mezzo” fu un nipote di Confucio che si chiamava Tse-ssu o qualcosa del genere, ma per leggere una vera apologia sulla temperanza bisognerà aspettare altri due secoli e finalmente con Ciuang-tse, il grande filosofo taoista, avremo la teoria del “cammino mediano” ed il concetto di “felicità relativa”.

«E chi ne capisce niente!» commenta Saverio. «Con tutti questi Ciuang e Sik Sik che conosce il professore.»

«Non posso però farvi andare via senza citare il più illustre assertore di questa teoria: Aristotele» continua imperterrito il professore Bellavista. «Il principio aristotelico del mezzo si rifà ad una precedente dottrina di Platone e afferma che la virtù è il punto equidistante fra due estremi.»

«Buonanotte professò» protesta Saverio «a questo punto vi state capendo voi solamente!»

«Ed infine ricordiamoci del padre moderno della filosofia del buon senso: Giovanni Locke» riprende il professore, ormai inarrestabile. «Locke fu quel filosofo che disse: “Il controllo delle nostre passioni rappresenta il giusto accrescimento della nostra libertà”. Purtroppo i filosofi del piacere sono sempre stati boicottati dagli utopici che nella storia della filosofia, hanno finito per prevalere. E questo, a mio parere, non perché le loro idee fossero migliori ma solo perché erano superiori di numero. Basta pensare che, verso la fine, del diciottesimo secolo, la Germania non faceva altro che fabbricare filosofi idealisti: Kant, Fichte, Hegel, tutta gente tedesca di nascita e tedesca di idee. Parlavano molto e scrivevano ancora di più, per cui i poveri filosofi del piacer moderato, i Bentham, i Mill, in tutto questo casino non riuscirono nemmeno a farsi sentire...»

«Professore, professò, noi non stiamo capendo niente.»

«E come botta finale, piglia e chi ti arriva? Carlo Marx e Federico Nietzsche. Alla faccia del caciocavallo! Sì sì, mettiti a parlare con Federico Nietzsche di prudenza e quello il minimo che fa ti sputa in faccia!»

«Professò, noi non stiamo capendo niente» dice Salvatore «E chi è questo Federico non-so-come che sputa in faccia alla gente?»

«Federico Nietzsche. Quello che disse: “Non sono i vostri peccati che gridano vendetta al cielo, ma la vostra moderazione, l’avarizia che conservate nei vostri stessi peccati!”»

«Professore!... Professò, noi non stiamo capendo il resto di niente» dice Saverio.

«Hai ragione Savè. E allora io adesso per farmi perdonare ti racconto una storiella facile facile di Ciuang-tse. Dunque Ciuang racconta che un giorno, dovendo andare a trovare un suo zio...»

«Zi’ Confucio?»

«No Savè, il nipote di Confucio era un altro filosofo. Questo invece è Ciuang-tse, il filosofo taoista. Dunque ti stavo dicendo che Ciuang per andare da questo suo zio doveva attraversare un grande bosco. Ad un certo punto però, siccome si era stancato, si mise a riposare sotto ad una grande quercia secolare. Non erano passati nemmeno dieci minuti che arrivarono dei taglialegna e si misero a tagliare certi alberi di pioppo che stavano davanti alla quercia. Ora sembra che, mentre i taglialegna facevano il loro lavoro, la quercia disse a Ciuang...»

«La quercia? La quercia parlava?» chiede Saverio. A Professò secondo me questa dev’essere un’altra puttanata cinese!»

«Statte zitto Savè!» dice Salvatore. «Questo è un racconto allegorico. Professò non lo date retta e diteci che cosa disse la quercia a quell’amico vostro.»

«Dunque la quercia disse: “Ciuang, come vedi, sono venuti a tagliare gli alberi più utili e tu da questo puoi capire perché io ho impiegato cinquecento anni ad imparare a far diventare inutile il mio legno”. Ciuang riprese il viaggio e pensò che appena tornato a casa sua avrebbe dovuto scrivere un libro sull’utilità dell’inutile. Nel frattempo però era giunto dallo zio e questo fu così contento di vederlo che ordinò al suo servo di ammazzare un’oca per festeggiare l’arrivo del nipote. Il servo, prima di andare nel cortile dove stavano le oche, chiese allo zio di Ciuang se doveva ammazzare l’oca che stava covando le uova, oppure quella che di uova non ne faceva nemmeno. Ovviamente lo zio disse di ammazzare l’oca più inutile e fu così che Ciuang-tse, per tornarsene a casa, prese il sentiero di mezzo.»


Luciano De Crescenzo (Così parlò Bellavista - 1977 - Mondadori)


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