giovedì 7 gennaio 2010

II popolo sovrano


La nuova destra ha una grande passione: il popolo sovrano. Da quando ha scoperto il 27 marzo 1994 che con il sistema elettorale maggioritario basta il 45 per cento dei voti per aggiudicarsi il potere, tutto il potere (povero Enrico Berlinguer che non si fidava neanche del 51) non conosce altro Dio che il suffra­gio universale, il ricorso al «popolo sovrano» il qua­le, sin dalle più remote età, com'è risaputo, può esse­re il fondamento insostituibile della democrazia quanto la sua mistificazione, la fonte di tutte le li­bertà quanto «la presa in giro di una scheda dentro la scatola-urna ogni cinque anni e poi per i cinque seguenti la voce dei padroni dalla scatola-televisione». O per dirla con uno dei padri della democrazia europea, Jean-Jacques Rousseau, il popolo «pensa di essere libero, ma si inganna gravemente; non lo è che durante le elezioni dei membri del parlamento: ap­pena questi sono eletti, esso è schiavo». Esaltare la democrazia del voto mantenendo la tirannia ammi­nistrativa equivale a trattare i cittadini come asini con il bastone e la carota. Liberi per un giorno e poi sotto tutela dei loro eletti, essi tendono a disinteres­sarsi della cosa pubblica, a non pensare, a non sce­gliere. E infatti alla destra piace dare il falso potere di decidere sui massimi sistemi con scelte referenda­rie o plebiscitarie, ma impedire di intervenire nell'amministrazione. Esempio: far approvare rifor­me generali del sistema fiscale lasciandolo però affi­dato ai burocrati e alle polizie legate ai potenti. Il po­polo sovrano va felice al gran giorno delle elezioni e dà mandato agli eletti di realizzare i suoi desideri: meno tasse, meno servizio militare, maggiori diritti, maggiori libertà, maggiori stipendi. Poi gli eletti che non possono essere competenti in tutte le materie si servono di esperti, cioè di persone non elette dal po­polo sovrano ma di solito vicine agli interessi e ai privilegi costituiti che di rado coincidono con i desi­deri del popolo. Chiamasi questo tipo di democrazia «dispotismo elettorale». In esso il voto popolare le­gittima per cinque anni le oligarchie che governano a loro criterio e comodo. Solzenicyn sarà un reazio­nario che vorrebbe tornare alla Russia degli zar ma non ha del tutto torto quando così riassume la sua esperienza politica: «Sono uscito da una società, la sovietica, in cui non si poteva dire nulla per andare in quella americana in cui si può dire tutto ma senza essere ascoltati». I nicodemiti o seguaci di Nicodemo dissentivano profondamente dai dogmi della chiesa, ma ne osservavano fedelmente le regole, la pseudo­democrazia è l'esatto contrario, reverente verso i dogmi ma irrispettosa delle regole.

Un consenso del 45 per cento dà a Silvio Berlusconi un'investitura sacra, da «unto del signore», lo au­torizza a violare quasi tutte le regole, a trasformare la democrazia in autoritarismo morbido, essendo or­mai intollerabile nel consesso europeo un autoritari­smo duro anche perché poco affine al mondo dei commerci e dei consumi. Silvio Berlusconi non ha un preciso disegno autoritario, lavorandoci assieme per anni mi pare di aver capito che è uno che vive inten­samente nel presente, senza il tempo per pensare al passato e neppure agli effetti che le sue scelte avran­no nel futuro, convinto comunque che le sue decisio­ni siano le migliori possibili nel presente come negli anni a venire. Con uomini così risulta perfettamente mutile l'uso della critica, del dubbio e di un salutare scetticismo: lui è nato ottimista non perché creda alla bontà del mondo, ma perché confida nelle sue capa­cità demiurgiche, perché è convinto che a un suo co­mando le onde procellose si calmeranno. Il rischio del suo ingresso nella politica sta in queste sue doti personali, caratteriali, nel suo eclettismo provviden­ziale che il saggista Magister così descrive: «In Ber­lusconi c'è tutto. C'è la ostentazione della ricchezza e c'è il nascosto slancio caritativo in soccorso dei pove­ri lazzari. C'è la spericolata frequentazione di pub­blicani e di peccatori e c'è il confidarsi con l'anziano salesiano che gli fa da padre spirituale, c'è la tradi­zione della famiglia cattolicissima con sette suore e preti fra i parenti stretti e c'è l'azzardo del venditore di immagini che con la tradizione rompono a tutto spiano. C'è la pasta ambrosiana dell'imprenditore tutto casa, fabbrica e un pochino chiesa, antistatale quanto basta e c'è la farina salesiana della operosità

benefattrice, con la sua morale molto alla buona. Cattolici sono anche i suoi due più stretti collabora­tori Fedele Confalonieri e Marcello Dell'Utri. E catto­lici i suoi autori preferiti, i rinascimentali san Tommaso Moro ed Erasmo da Rotterdam. Insomma non ha tutti i torti Rossetti a equiparare Berlusconi a un principe mediceo. Specchio provocatorio del cattoli­cesimo selvatico cresciuto fuori della vigna dei catto­lici timorati, scudocrociati, domestici».

Il popolo di Forza Italia che ha fatto di Berlusconi il capo della crociata anticomunista e antistatalista è la borghesia italiana d'ordine, il suo di ordine ovvia­mente, ma accoglie anche rottami del radicalismo come Marco Pannella, protagonista un tempo di grandi lotte libertarie, poi navigatore inafferrabile in acque indefinibili come le siciliane in cui fece il pre­dicatore di garantismo, quanto a dire ciò che la ma­fia da sempre ha usato per paralizzare la giustizia e ottenerne amnesie e omissioni. Pannella semina refe­rendum come fossero chicchi di grano a raffiche di dodici, diciotto. Con il criterio dell'one man one vote si affidano alla gente decisioni complesse come quelle sul nucleare, sulle televisioni, sul finanziamento dei sindacati, problemi di cui il cittadino comune ha scarsissime e spesso errate idee. Ci ha colto un brivi­do referendario il giorno in cui abbiamo letto la sto­ria dei mille cittadini romani arrivati fino ad Aosta prima di accorgersi che l'offerta di una finta agenzia di viaggi per sette giorni a Parigi, albergo e trasporti compresi, per duecentotrentamila lire non era una cosa seria. Anche quei mille interpellati sulle massi­me questioni? La democrazia, si sa, non conosce le speditezze e le semplificazioni delle dittature. Il suo procedere è lento, macchinoso, frenato dalle inter­pellanze, dai sabotaggi e dai trucchi parlamentari. Berlusconi era appena arrivato al governo e già si la­mentava che non lo lasciavano lavorare, che gli re­mavano contro. Diceva e dice che il rapporto tra go­verno e Parlamento è una perdita di tempo, che la politica è un «teatrino», per imbroglioni ed esibizio­nisti non per persone serie. Gli elettori di destra la pensano come lui e, come tutti coloro che scambiano un mix di paure, di pregiudizi, di attese miracolistiche per un disegno politico, sono convinti di essere i migliori democratici possibili, non sospettano nep­pure di essere per una democrazia autoritaria che non è fascismo ma che potrebbe aprirgli la strada.

«Se un potere dispotico si insediasse nei paesi de­mocratici avrebbe certo caratteristiche diverse che nel passato» scriveva profetico Alexis de Tocqueville «sarebbe più esteso ma più sopportabile e degra­derebbe gli uomini senza tormentarli. Quando pro­vo a immaginare in quale sembiante il dispotismo apparirà nel mondo vedo una folla immensa di uo­mini tutti simili ed eguali che girano senza posa su se stessi per procurarsi piaceri minuti e volgari di cui nutrono la loro anima. Ognuno di essi conside­rato a sé è come estraneo al destino di tutti gli altri. I figli e gli amici più vicini esauriscono per lui l'intera razza umana e quanto al resto dei suoi concittadini egli è loro accanto, ma non li vede, li tocca ma non li sente. Il potere dispotico potrà sembrare paterno ma al contrario cercherà di fissarli irrevocabilmente all'infanzia, preferendo che godano purché non pensino. Non tiranneggerà ma comprimerà, snerverà, inebetirà.»

Sulla moltiplicazione dei referendum Giuseppe Dossetti, il maestro della sinistra cattolica, ha osserva­to: «Da una parte la pratica referendaria, plebiscitaria esalta la sovranità popolare, dall'altra ne delegittima le rappresentanze elettive, insulta il Parlamento, la Corte costituzionale, la stampa, la presidenza della re­pubblica, la Corte dei conti, il Consiglio superiore del­la magistratura e va verso una democrazia populista inevitabilmente influenzata dalle grandi campagne mediatiche e appellantesi soprattutto a mozioni istin­tive, a impulsi emotivi che trasformeranno i referen­dum in plebisciti e praticamente ridurranno il consen­so del popolo sovrano a un mero applauso al sovrano del popolo». I referendum dell'11 giugno '95 erano per di più una trappola, poiché chiedevano ai cittadi­ni di proibire a un uomo politico di avere tre reti tele­visive ma al tempo stesso gli impedivano di vendere a un prezzo equo; di porre fine a un oligopolio ma al tempo stesso mettevano in crisi una grande azienda con conseguente disoccupazione; di fare una scelta politica ma al tempo stesso di sacrificare il consumo televisivo.

Una democrazia che antepone rigorosamente la li­bertà agli interessi costituiti non è mai esistita e pro­babilmente non esisterà mai. Le costituzioni demo-cratiche contengono utopie manifeste come quella degli Stati Uniti per cui «gli uomini hanno il diritto inalienabile alla vita e alla libertà» il che è compren­sibile, ma anche «alla ricerca della felicità» che fran­camente sembra un po' troppo. Però si dice che que­ste utopie, questi sogni servono a dar animo e spin­ta. Molte delle utopie e dei sogni dell'autoritarismo morbido, invece, altro non sono che inganni, false promesse demagogiche. Dicono che si stia formando un popolo di destra simile a quello che diede al nazi­smo e al fascismo grandi consensi. Di certo non vi è più un rapporto diretto fra classe e voto, si è votato a destra anche nei quartieri operai di Torino e di Mila­no e, quel che è peggio, a volte il voto è stato ondeg­giante come di gente che non sa più cosa scegliere. Il crollo del comunismo ha tolto ai ceti più umili la speranza messianica in una società di eguali dove a ciascuno viene dato secondo il suo bisogno. Speran­za più autorità, l'utopia più le divisioni corazzate dell'Unione Sovietica, equivalente all'accoppiata cat­tolica fra la vita ultraterrena e l'Inquisizione. Ma quando questa combinazione di promessa e autorità viene a mancare le chiese cadono e i fedeli se ne van­no, mostrando la loro debolezza, a volte la loro mise­ria. Da noi a mostrarla per primi sono stati i cosid­detti «intellettuali organici», cioè gli intellettuali che per obbedienza a un partito rinunciano a essere tali, a ragionare con la loro testa, passati in breve da conformismi ferrei a scetticismo e a defezioni. La gente è anche uscita dall'età di ferro delle grandi e sanguinose rivoluzioni e delle grandi e sanguinose guerre: c'è in giro stanchezza per gli impegni titanici sproporzionati alle nostre forze, noia per le ideologie ingannevoli, delusione per le passioni politiche mal ripagate e una crescente convinzione che in fondo i tentativi di cambiare questo mondo sono inutili e spesso volgono al peggio, che bisogna badare al sodo e al «particulare». È il «tutti a casa» della sinistra, la resa. Il nuovo grido è: A destra! A destra! Siamo tornati al «calpestami ma lasciami vivere», vincimi ma dammi un posto. L'intera redazione di un setti­manale comunista di Torino passa a Forza Italia, Giuliano Ferrara che era segretario cittadino del Par­tito comunista a Torino è diventato il consigliori di Berlusconi, come il filosofo Colletti, intere redazioni progressiste della rai si sono scoperte moderate. I se­cessionisti della Lega, comperati da Forza Italia, hanno innalzato al loro congresso con umorismo in­volontario uno striscione su cui hanno scritto: «I fe­deralisti leali del Polo», quanto a dire i federalisti leali con i nemici del federalismo. Al momento giu­sto socialisti e federalisti italiani si trovano sempre sulla sponda opposta, uno degli ultimi congressi so­cialisti fu definito dal ministro Formica «dei nani e delle ballerine», e quelli della nuova destra potreb­bero esser chiamati «degli opportunisti e delle ma­schere». C'è un ritorno alla tradizione controriformi­sta che contrapponeva le immagini e i sacri spettacoli alle nuove e pericolose idee. Inevitabile il ritorno delle maschere cui la Controriforma affidò il compito di consolare con qualche lazzo il popolo rassegnato e impaurito. Maschere comiche-tragiche che paiono trascinate dall'improvvisazione scherzo­sa ma con il terrore del padrone, maestre nel dissen­tire sulle piccole cose ma osservanti su quelle grandi, neanche ipocrite essendo la recita scoperta e risapu­ta, abituate a mentire come cosa normale, parte or­mai integrante della nostra cultura, presenti da Goldoni ai Cento anni di Rovani, alle pièce del Demetrio Pianelli di De Marchi. La prudenza e la scaltrezza delle maschere torna regolarmente nella posta dei lettori che mettono sempre le mani avanti, predi­spongono sempre delle vie di fuga, «la leggo anche se non sempre sono d'accordo con lei». È piena di maschere la televisione, maschere che spudorata­mente mentono mentre si appellano all'obiettività.

Prima del successo del Polo nel marzo '94 sembra­va incauto e quasi provocatorio dichiararsi borghese o insistere a interrogarsi in modo critico sulla borghe­sia, che era la classe innominabile, oggi ci si dichiara di destra con il gusto di chi è uscito dalla persecuzio­ne, dall'illegalità e finalmente può presentarsi per quello che è. Dalla Democrazia cristiana «solidarista», «popolare» è uscito baldanzoso l'eterno integra­lismo, la presidente della Camera Irene Pivetti assu­mendo la sua carica laica dichiara di affidarsi «a Dio che governa i destini dei popoli». Buttiglione il segre­tario del Partito popolare uscito dal corpaccione della dc indica «l'etica religiosa come il supremo riferi­mento della democrazia», si scaglia contro i laici che «rifiutano di riconoscere il peccato originale, la con­sapevolezza che gli uomini sono tutti peccatori e che quindi il sistema politico funziona bilanciando i vizi degli uni con i vizi degli altri». È l'integralismo per tanti anni dissimulato per cui i dorotei potevano im­padronirsi dello stato e Andreotti accettare e pagare i voti della mafia. Ma viene fuori con la marea della de­stra anche il cattolicesimo tradizionalista, il professor Gianfranco Morrà ci ricorda che «la tradizione non è una possibilità di vita, essa è la stessa esistenza in un presente gravido di pericoli perché trae dalle conquiste e dagli orrori del passato uno stimolo per guarda­re avanti e consegnare ai posteri una qualche eredità. Il cattolico è di destra in quanto tradizionalista». Qualcuno, per trarsi d'impaccio, ha detto «che la mi­glior democrazia è quella che assomiglia di più alla monarchia e che la miglior monarchia è quella che si avvicina maggiormente alla democrazia». Per l'italia­no medio la migliore delle democrazie è quella che più si avvicina alla mescolanza dei «vizi privati» e delle «pubbliche virtù», alla richiesta che tutti fanno agli amministratori di avere le virtù che i privati siste­maticamente disattendono. La democrazia piace agli italiani per i suoi comodi, per i suoi benefici, molto meno per i suoi doveri e la sua morale. L'idea che un popolo libero è tanto più civile quanto più sa limitare le sue libertà gli sfugge, preferiscono la democrazia che gli lascia fare quel che vogliono. Suppergiù l'idea che ne aveva il boss mafioso Bellavista quando scri­veva dal carcere ai parenti: «Libertà, democrazia, voi avete sempre quelle parole in bocca, ma democrazia non è parlare, è fare quel cazzo che ti pare, andare do­ve vuoi, oggi a Roma domani a Parigi e avere i soldi per farlo». Il fatto che la democrazia ti consenta di avere libertà di opinione e di associazione, di non es­sere imprigionato e torturato per abuso dei potenti, di professare la religione che vuoi, di leggere i libri e al­zare le bandiere che vuoi è moltissimo rispetto alle servitù dei sistemi autoritari, rispetto al fatto che la maggior parte degli uomini non gode di questi diritti, ma non è ancora la democrazia dei reciproci controlli, non è il regno della legge.


Giorgio Bocca (Il Filo Nero - 1995 - Arnoldo Mondadori Editore)


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