giovedì 9 settembre 2010

La frase choc di Andreotti in tv sul legale ucciso nel centro di Milano nel '79: "Ambrosoli? Se l'andava cercando"

Giulio Andreotti ha il colletto un po' aperto e il nodo della cravatta è allentato. Ma come sempre il senatore a vita non tradisce emozioni particolari. Le labbra sottili sembrano muoversi impercettibilmente e gli occhi non cambiano espressione quando, alla domanda su perché Giorgio Ambrosoli è stato ucciso, risponde così: «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando». Una frase che sembra buttata lì senza pensarci troppo, ma quelle parole che colpiscono al cuore rappresentano forse il momento più importante e doloroso della puntata de «La storia siamo noi» che Giovanni Minoli ha dedicato ad Ambrosoli, il liquidatore dell'impero di Michele Sindona, e che andrà in onda stasera alle 23,50 su RaiDue. Più importante perché appare l'ennesima e più chiara manifestazione del fatto che Andreotti nello scontro fra Ambrosoli e il bancarottiere Sindona, da lui salutato come il «salvatore della lira», ha saputo per chi schierarsi fin dal primo momento. E più dolorosa perché tutti, compreso lui, sa poi cosa alla fine Ambrosoli abbia trovato nella notte dell'11 luglio 1979. Dopo una cena in trattoria e durante l'ultima ripresa dell'incontro di box che Ambrosoli segue in compagnia, arriva una telefonata: dall'altra parte c'è il silenzio. Poco dopo lui scende ad accompagnare gli amici, e mentre sta rincasando il killer Joseph Arico gli dice: «Mi scusi, avvocato Ambrosoli». E spara 4 colpi, portando a termine la missione che gli ha affidato Sindona per 50 mila dollari. Minoli racconta tutto, anche riprendendo dai suoi archivi una intervista a Sindona, in carcere in America per bancarotta. Ne illustra soprattutto l'ascesa dal nulla e ne spiega il «contesto». Gli anni ruggenti nei quali sorprende la provinciale piazza finanziaria milanese con operazioni «all'americana»: Opa, conglomerate, perfino il private equity. «Importa» tutto da Wall Street e sembra che nessuno possa fermare la sua irresistibile ascesa. Nonostante i suoi rapporti quasi esibiti con il clan Gambino e con altre famiglie mafiosi. Ma gli anni ruggenti durano poco. L'Opa sulla finanziaria Bastogi nel '71 segna il suo tramonto. L'opposizione di Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca, fa fallire l'operazione. E dopo il crollo in America la crisi dilaga nel suo fragile impero in Italia, finché la sera di martedì 24 settembre 1974 alle 23 un funzionario di Banca d'Italia telefona a casa Ambrosoli. Alle 17 del giorno dopo il Governatore Guido Carli conferisce a Giorgio Ambrosoli l'incarico di «unico commissario liquidatore», come dirà lui stesso alla moglie Annalori, della Banca Privata Italiana di Sindona. Ambrosoli fa il suo dovere fino in fondo, con l'aiuto di Silvio Novembre, ufficiale della Guardia di Finanza. Ma come testimoniano i suoi diari e quelli del Governatore Paolo Baffi «mezza Italia» si muove per salvare Sindona. Ambrosoli, Baffi e il vicedirettore generale Mario Sarcinelli fanno muro. Baffi e Sarcinelli, che respingono improbabili piani di salvataggio presentati loro anche da Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti, e svelano con ispezioni e rapporti le trame di Roberto Calvi, pagheranno carissima onestà e determinazione: Sarcinelli viene arrestato e a Baffi è risparmiato il carcere solo per l'età. Saranno poi prosciolti ma Baffi lascerà Via Nazionale. Le minacce e la violenza di Sindona e dell'Italia piduista non fermano Ambrosoli. Perciò il sicario venuto dall'America lo uccide. Nella lettera-testamento alla moglie scrive il 25 febbraio 1975: «In ogni caso pagherò a caro prezzo l'incarico». E pensare che, come ha detto il figlio Umberto: «Sarebbe bastato un piccolo sì, qualche piccola omissione, non prendere posizione. Avrebbe avuta salva la vita». Ma Andreotti non ha dubbi: l'avvocato liquidatore se l'è proprio andata a cercare.

Sergio Bocconi (Corriere della Sera - 09 settembre 2010)

LA REPLICA - Più tardi, lo stesso Andreotti torna sulle sue parole. «Sono molto dispiaciuto che una mia espressione di gergo romanesco - dichiara - abbia causato un grave fraintendimento sulle mie valutazioni delle tragiche circostanze della morte del dottor Ambrosoli». «Intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto - aggiunge in una nota - con il difficile incarico assunto».

Corriere della Sera del 9 settembre 2010



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