"Che faccia bello o cattivo tempo è mia abitudine andare a passeggiare ogni pomeriggio verso le 5 nei giardini del Palais-Royal. Intrattengo me stesso con la politica, l'amore, il gusto, la filosofia e abbandono la mente al suo libertinaggio lasciandola padrona di seguire ogni pensiero che le si presenti, saggio o folle che sia. E la mente si comporta come quei giovani dissoluti che corrono dietro alle ragazze con l'aria sventata, il volto sorridente, l'occhio vivace e il nasino all'insù, corteggiandole tutte senza attaccarsi a nessuna di loro. Ecco: i miei pensieri sono le mie puttane".
Così comincia uno dei più bei dialoghi filosofici di Denis Diderot, "Le neveu de Rameau" con un tocco di leggerezza elegante che rileva fin dalle prime battute lo stile del grande scrittore e contiene in poche righe apparentemente svagate il tema di fondo d'ogni filosofo e d'ogni filosofia: la natura del pensiero, anzi il pensiero che pensa se stesso.
La mente di Diderot è libertina, insegue un pensiero e presto l'abbandona per corteggiarne un altro come fanno i giovanotti a caccia di ragazze allegre sotto i portici del Palais-Royal. "I pensieri sono le mie puttane": è una battuta di quelle che non s'erano mai incontrate prima né mai si incontreranno più sulla bocca d'un filosofo e può ben essere considerata l'"incipit" della filosofia dei lumi.
Quelle quattro parole sono la sintesi di una folla di domande (e di risposte) e cioè: che cos'è la mente, che cos'è il pensiero, chi è l'io che dispone della mente e corteggia i pensieri man mano che essi appaiono, che cos'è la volontà che decide di abbandonare un pensiero per seguirne un altro, chi è che immagina una scena del genere pensando il proprio pensiero e la propria mente.
Quattro parole che definiscono un'intera e compiuta ontologia intrisa di scetticismo, sperimentalismo, irriverenza, rottura col passato, rifiuto dell'autorità e della sacralità, indicando gli ascendenti di quello che verrà chiamato l'Illuminismo: Montaigne, Spinoza, Descartes, Leibniz, Galileo, Newton; e i compagni di viaggio: Locke, Hume, Voltaire e una folla d'altri maggiori e minori.
Poco dopo ma quasi coevo toccherà a Kant ricevere il lascito illuminista e ritrasmetterlo sotto la forma del pensiero critico. Rousseau fa parte a sé: nel bel mezzo della civiltà dei lumi è lui che spalanca la porta al romanticismo e contemporaneamente alla dialettica tra la ragione e l'emozione ponendo le basi intellettuali dell'utopia rovesciata del giacobinismo robespierrista. Nell'azione politica e ideologica dei Robespierre e dei Saint-Just non c'è l'ispirazione di Diderot e di Voltaire, tanto meno quella di Montesquieu. Condorcet, l'ultimo degli illuministi, cadrà vittima del Tribunale rivoluzionario dopo il fosco processo contro i capi girondini. Ma si può attribuire a Rousseau la paternità ideologica del Terrore? E dei seguiti del giacobinismo nel Novecento europeo? Si possono tener responsabili i filosofi, i profeti, i religiosi, degli errori delle colpe dei delitti commessi dall'azione dei politici? Si può giudicare la Storia come un immenso e sempre reiterato reato d'opinione?
Chi si incammina su quella strada si impiglia in un'inestricabile rete che sarebbe stata infaticabilmente tessuta da centinaia di mandanti in assassinio a cominciare da Abramo passando per Platone fino ad arrivare a Lutero a Loyola e infine a Nietzsche. Ma questa non è la storia delle idee bensì quella del mattatoio che è altra cosa. [* * * ]
Aprendo questo dibattito sull'Illuminismo mi ero chiesto se esso fosse ancora un lievito attivo nella società contemporanea o un lascito ormai esaurito e pietrificato. In polemica con i suoi numerosi critici mi domandavo se oggi ci fosse un eccesso o non piuttosto un deficit di razionalità. Infine mi ponevo il problema di demistificare la caricatura tante volte disegnata che raffigura la filosofia dei lumi come una sorta di impero della ragione astratta contro la concretezza della vita, delle emozioni, dei sentimenti.
Queste domande e altre ancora che vi erano connesse portavano a discutere che cosa fosse stato l'Illuminismo come sistema di pensiero e come movimento culturale e politico storicamente determinato. Il dibattito ha avuto un'ampiezza e una partecipazione che francamente non mi aspettavo, con interventi di grande spessore che meriterebbero d'esser raccolti e conservati.
Non pretendo certo di concludere un confronto su un tema che anche in questa occasione ha dimostrato la sua attualità e vitalità né mi propongono di rispondere ai vari interlocutori, che ringrazio per i contributi dati alla migliore conoscenza di una corrente di pensiero che segna l'ingresso della cultura europea nella modernità. Mi proverò invece ad esporre alcuni punti che mi paiono acquisiti e alcune questioni che restano invece aperte e meritevoli di riflessioni ulteriori. E comincio dal nucleo centrale della filosofia dei lumi che riguarda la relativizzazione dell'Assoluto in tutte le sue forme filosofiche, religiose, politiche.
Ho accennato agli antenati dell'Illuminismo facendo per primo il nome di Montaigne, ma in realtà si potrebbe risalire molto più indietro, al IV secolo avanti Cristo, allo scetticismo di Pirrone e di Timone. C'è infatti un fondo scettico nel pensiero dei "philosophes" che preserva i più consapevoli tra loro perfino dall'asserire come indiscutibile verità il relativismo che impregna la loro filosofia la quale era vista da loro stessi come un procedere in mezzo alle tenebre con una piccola lucerna che rischiarava il cammino, sempre a rischio di spegnersi non soltanto a causa dell'intolleranza degli avversari e dell'arbitrio del potere religioso e politico, ma anche dell'oscurantismo dell'opinione pubblica, dei tabù consolidati nel tempo e infine dallo stesso loro metodo di conoscenza sperimentale affidato ai sensi e alla ragione che i più consapevoli tra di loro ritenevano essere una sorta di sesto senso, un'efflorescenza cerebrale che subiva i mutamenti dell'organo che la emanava ed era quindi ben lontana dall'essere quello strumento perfetto capace di scoprire a colpo sicuro le regole auree che governano l'universo, la natura e l'azione dei viventi.
Chi dipinge i "philosophes" come i portatori di un'arrogante miscredenza che appiattisce il mondo su un naturalismo materialista e meccanico ed una nuova religione guidata dalla dea Ragione che tutto spiega cancellando ogni ombra e ogni mistero, ha capito ben poco di questa corrente di pensiero che non a caso non dette mai vita ad un sistema filosofico ma molto più suggestivamente ad un viaggio conoscitivo dove l'aspetto più importante era quello di viaggiare alla ricerca del nuovo più che il nuovo in se stesso. Con le sole eccezioni, in realtà piuttosto rozze e secondarie, di La Mettrie e d'Holbach, i rappresentanti maggiori dei lumi redassero con l'Enciclopedia e con i loro scritti filosofici, artistici, politici, non già un sistema chiuso ma un'opera volutamente rimasta aperta a successivi contributi ed evoluzioni. E non parlarono mai con voce univoca, anzi ciascuno di loro fece parte a sé, spesso contraddicendo i compagni di viaggio e talvolta contraddicendo anche se stessi nel dubbioso procedere dell'opera loro. [* * * ]
Mi dispiace osservare che su questo punto perfino un pensatore della levatura di Ralf Dahrendorf, nel suo intervento di ieri, indulga alla versione semplicistica che fa degli illuministi francesi gli adoratori della dea Ragione in contrapposizione con la cultura empirica dei liberali anglosassoni e americani. Questa contrapposizione scolastica fa parte di una "vulgata" che non ha nessuna base storica; il pensiero di Locke si mosse vorrei dire in tandem con quello di Voltaire, Hume fu un punto di riferimento costante per i collaboratori dell'Enciclopedia, i padri fondatori della democrazia americana si formarono sul pensiero dei "philosophes". Un mese prima che Voltaire morisse, Benjamin Franklin arriva a Parigi per incontrarlo ed ecco la cronaca fatta dallo stesso Voltaire: "Franklin aveva portato con sé un suo nipotino che chiese la mia benedizione. Gliel'ho data ponendogli le mani sul capo e pronunciando le parole "God and Liberty". Poi le ripetei in francese "Dieu e Liberté". C'erano con noi una ventina di persone e piangevano tutte". Il giorno dopo tutta Parigi sa di quell'incontro straordinario e l'entusiasmo raddoppia. Ricordo questi fatti per riconfermare anche su base documentale che una contrapposizione tra illuministi francesi e anglosassoni è inesistente e che la società aperta è stata l'obiettivo degli uni e degli altri. Del resto per chi batté in breccia l'assolutismo in tutte le sue forme non avrebbe potuto essere diversamente.
Ma torniamo all'essenza filosofica di quel pensiero. La derivazione metodologica da Descartes è palese ma la correzione che Diderot opera sul pensiero cartesiano ha un'importanza fondamentale. Descartes aveva fondato l'intera sua ontologia dell'esistente sulla distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" o per dirla in modo più piano tra l'anima pensante e il corpo; aveva dato alla "res cogitans" un'esistenza indipendente dai corpi e in quel dualismo aveva recuperato quella metafisica che il "cogito, ergo sum" sembrava aver superato per sempre. Ma Diderot contesta alla radice il dualismo cartesiano e trasforma la "res cogitans" in una funzione della "res extensa". Da un lato si rifà allo Spinoza della "natura naturans", la natura che genera se stessa all'infinito e in forme sempre diverse; dall'altro precorre Nietzsche e la rivalutazione del corpo fatta dal cantore di Zarathustra. Il rapporto Diderot-Nietzsche è stato assai poco esplorato fin qui ed è una lacuna non secondaria negli studi nietzschiani; lo stesso filo che corre tra Spinoza e Nietzsche non mi pare approfondito a sufficienza forse perché si è impigliato nell'ostacolo del panteismo che viceversa è estraneo tanto all'uno quanto all'alto.
Non è questa la sede per affrontare problemi di tale dimensione; mi premeva segnalare quale sia stata e tuttora sia l'attualità filosofica del movimento dei lumi e in particolare del suo principale rappresentante. Da questo punto di vista mi permetto di suggerire, non certo agli specialisti ma al pubblico colto, la lettura del dialogo diderottiano Le rêve de d'Alembert che contiene forse la versione più compiuta del pensiero filosofico dell'autore e che, per una serie di circostanze editoriali, è invece uno dei testi meno conosciuti non solo in Italia ma nella stessa Francia. [* * *]
Ma c'è un altro aspetto dell'Illuminismo che costituisce elemento fondante della modernità ed è il tema della rappresentazione, della verità e della volontà nelle loro reciproche inferenze. La modernità si può definire in molti modi e con molteplici attribuzioni ma chi volesse arrivare al nocciolo di questa definizione credo che l'identificherebbe in quel rapporto circolare che coinvolge al tempo stesso l'attività conoscitiva, quella estetica, la prassi e la morale.
Dopo i "philosophes" quella ricerca diventa centrale in Kant, in Schelling, in Feuerbach, in Schopenhauer e in Giacomo Leopardi. E naturalmente in Nietzsche.
Sia detto qui di passata: la grandezza filosofica di Leopardi, come ha ben visto Severino, continua ad essere ignorata e subordinata alla sublimità della sua poetica. È un errore. Leopardi è stato grandissimo pensatore oltreché e forse prima che poeta. I passi dello Zibaldone dove si parla del rapporto tra la verità, l'illusione, l'azione, la morte, il nulla, configurano un pensiero di altissima profondità. Non so se Schopenhauer lo conoscesse quando scrisse il suo Mondo come volontà e rappresentazione pochi anni dopo, né se lo conoscesse Nietzsche quando scrisse la Genealogia della morale, lo Zarathustra e più ancora Gaia Scienza e i Pensieri postumi coevi all'Aurora; ma è certo che il nucleo filosofico leopardiano costituisce uno dei cardini del pensiero moderno ed ha una derivazione illuministica di tutta evidenza.
Richiamo da questo punto di vista il poema volterriano sul terremoto di Lisbona e la constatazione del male assoluto come problema inesplicabile che abbatte ogni metafisica provvidenziale privilegiando la casualità della vita e dei suoi svolgimenti senza più traccia di mitologie progressiste, pur indispensabili per dare un senso che al tempo stesso è puramente immaginario ma necessario alla vivibilità dell'esistenza, esattamente come l'illusione necessaria descritta da Leopardi. [* * *]
Si dovrebbe ancora parlare della filosofia dei lumi nel suo aspetto di movimento culturale e politico, che è stato presentissimo nell'intervista di Bobbio e in molti altri interventi. Del resto su questo punto i fatti parlano da soli e non mi riferisco soltanto all'azione dirompente che l'Illuminismo ebbe nel segnare il passaggio storico dall'Ancien Régime al costituzionalismo, alla divisione dei poteri, al sistema rappresentativo, ai diritti dell'uomo, all'eguaglianza giuridica e ai diritti di cittadinanza. Mi riferisco alla spinta potente con cui quella corrente di pensiero continuò ad alimentare tutte le lotte che seguirono fino ai tempi nostri contro la tirannide totalitaria, l'assolutismo, le tentazioni neotemporalistiche e i tanti e spesso tragici ritorni all'"utopia reazionaria" di cui parla Bobbio nel suo intervento.
Da questo punto di vista, come bene hanno visto Esposito, Givone e Sergio Moravia, la tesi di Horkheimer e Adorno che ritiene l'Illuminismo responsabile non solo del Terrore robespierrista ma anche dei lager comunisti e perfino dell'Olocausto hitleriano è talmente fuori da ogni validità intellettuale da non meritar neppur una confutazione.
Ne abbiamo già parlato all'inizio, ma viene acconcio di richiamare qui il pensiero di Heinrich e di Thomas Mann, quest'ultimo convinto di errore quando furono i fatti a dimostrargli d'aver sbagliato nelle sue Considerazioni d'unimpolitico e a stimolarlo ad una pubblica e radicale rettifica del suo pensiero. Politicamente il lascito illuminista fa ancora tutt'uno con la politica riformatrice e col pieno recupero della triade "Libertà eguaglianza fraternità" tanto tradita e calpestata durante le drammatiche crisi e massacri del Novecento. Filosoficamente il lascito è quello di procedere con sentimento morale e razionalità intellettuale traendo dal buio alcune provvisorie certezze che galleggiano sull'oceano del caos.
Così la nostra specie ha fatto e continuerà a fare perché questa è la nostra condizione esistenziale: di cercare la verità perfino quando sappiamo che non la troveremo neppure oltre le colonne d'Ercole dove la nostra audacia e la nostra necessità ci porta.
Eugenio Scalfari (La Repubblica)
Così comincia uno dei più bei dialoghi filosofici di Denis Diderot, "Le neveu de Rameau" con un tocco di leggerezza elegante che rileva fin dalle prime battute lo stile del grande scrittore e contiene in poche righe apparentemente svagate il tema di fondo d'ogni filosofo e d'ogni filosofia: la natura del pensiero, anzi il pensiero che pensa se stesso.
La mente di Diderot è libertina, insegue un pensiero e presto l'abbandona per corteggiarne un altro come fanno i giovanotti a caccia di ragazze allegre sotto i portici del Palais-Royal. "I pensieri sono le mie puttane": è una battuta di quelle che non s'erano mai incontrate prima né mai si incontreranno più sulla bocca d'un filosofo e può ben essere considerata l'"incipit" della filosofia dei lumi.
Quelle quattro parole sono la sintesi di una folla di domande (e di risposte) e cioè: che cos'è la mente, che cos'è il pensiero, chi è l'io che dispone della mente e corteggia i pensieri man mano che essi appaiono, che cos'è la volontà che decide di abbandonare un pensiero per seguirne un altro, chi è che immagina una scena del genere pensando il proprio pensiero e la propria mente.
Quattro parole che definiscono un'intera e compiuta ontologia intrisa di scetticismo, sperimentalismo, irriverenza, rottura col passato, rifiuto dell'autorità e della sacralità, indicando gli ascendenti di quello che verrà chiamato l'Illuminismo: Montaigne, Spinoza, Descartes, Leibniz, Galileo, Newton; e i compagni di viaggio: Locke, Hume, Voltaire e una folla d'altri maggiori e minori.
Poco dopo ma quasi coevo toccherà a Kant ricevere il lascito illuminista e ritrasmetterlo sotto la forma del pensiero critico. Rousseau fa parte a sé: nel bel mezzo della civiltà dei lumi è lui che spalanca la porta al romanticismo e contemporaneamente alla dialettica tra la ragione e l'emozione ponendo le basi intellettuali dell'utopia rovesciata del giacobinismo robespierrista. Nell'azione politica e ideologica dei Robespierre e dei Saint-Just non c'è l'ispirazione di Diderot e di Voltaire, tanto meno quella di Montesquieu. Condorcet, l'ultimo degli illuministi, cadrà vittima del Tribunale rivoluzionario dopo il fosco processo contro i capi girondini. Ma si può attribuire a Rousseau la paternità ideologica del Terrore? E dei seguiti del giacobinismo nel Novecento europeo? Si possono tener responsabili i filosofi, i profeti, i religiosi, degli errori delle colpe dei delitti commessi dall'azione dei politici? Si può giudicare la Storia come un immenso e sempre reiterato reato d'opinione?
Chi si incammina su quella strada si impiglia in un'inestricabile rete che sarebbe stata infaticabilmente tessuta da centinaia di mandanti in assassinio a cominciare da Abramo passando per Platone fino ad arrivare a Lutero a Loyola e infine a Nietzsche. Ma questa non è la storia delle idee bensì quella del mattatoio che è altra cosa. [* * * ]
Aprendo questo dibattito sull'Illuminismo mi ero chiesto se esso fosse ancora un lievito attivo nella società contemporanea o un lascito ormai esaurito e pietrificato. In polemica con i suoi numerosi critici mi domandavo se oggi ci fosse un eccesso o non piuttosto un deficit di razionalità. Infine mi ponevo il problema di demistificare la caricatura tante volte disegnata che raffigura la filosofia dei lumi come una sorta di impero della ragione astratta contro la concretezza della vita, delle emozioni, dei sentimenti.
Queste domande e altre ancora che vi erano connesse portavano a discutere che cosa fosse stato l'Illuminismo come sistema di pensiero e come movimento culturale e politico storicamente determinato. Il dibattito ha avuto un'ampiezza e una partecipazione che francamente non mi aspettavo, con interventi di grande spessore che meriterebbero d'esser raccolti e conservati.
Non pretendo certo di concludere un confronto su un tema che anche in questa occasione ha dimostrato la sua attualità e vitalità né mi propongono di rispondere ai vari interlocutori, che ringrazio per i contributi dati alla migliore conoscenza di una corrente di pensiero che segna l'ingresso della cultura europea nella modernità. Mi proverò invece ad esporre alcuni punti che mi paiono acquisiti e alcune questioni che restano invece aperte e meritevoli di riflessioni ulteriori. E comincio dal nucleo centrale della filosofia dei lumi che riguarda la relativizzazione dell'Assoluto in tutte le sue forme filosofiche, religiose, politiche.
Ho accennato agli antenati dell'Illuminismo facendo per primo il nome di Montaigne, ma in realtà si potrebbe risalire molto più indietro, al IV secolo avanti Cristo, allo scetticismo di Pirrone e di Timone. C'è infatti un fondo scettico nel pensiero dei "philosophes" che preserva i più consapevoli tra loro perfino dall'asserire come indiscutibile verità il relativismo che impregna la loro filosofia la quale era vista da loro stessi come un procedere in mezzo alle tenebre con una piccola lucerna che rischiarava il cammino, sempre a rischio di spegnersi non soltanto a causa dell'intolleranza degli avversari e dell'arbitrio del potere religioso e politico, ma anche dell'oscurantismo dell'opinione pubblica, dei tabù consolidati nel tempo e infine dallo stesso loro metodo di conoscenza sperimentale affidato ai sensi e alla ragione che i più consapevoli tra di loro ritenevano essere una sorta di sesto senso, un'efflorescenza cerebrale che subiva i mutamenti dell'organo che la emanava ed era quindi ben lontana dall'essere quello strumento perfetto capace di scoprire a colpo sicuro le regole auree che governano l'universo, la natura e l'azione dei viventi.
Chi dipinge i "philosophes" come i portatori di un'arrogante miscredenza che appiattisce il mondo su un naturalismo materialista e meccanico ed una nuova religione guidata dalla dea Ragione che tutto spiega cancellando ogni ombra e ogni mistero, ha capito ben poco di questa corrente di pensiero che non a caso non dette mai vita ad un sistema filosofico ma molto più suggestivamente ad un viaggio conoscitivo dove l'aspetto più importante era quello di viaggiare alla ricerca del nuovo più che il nuovo in se stesso. Con le sole eccezioni, in realtà piuttosto rozze e secondarie, di La Mettrie e d'Holbach, i rappresentanti maggiori dei lumi redassero con l'Enciclopedia e con i loro scritti filosofici, artistici, politici, non già un sistema chiuso ma un'opera volutamente rimasta aperta a successivi contributi ed evoluzioni. E non parlarono mai con voce univoca, anzi ciascuno di loro fece parte a sé, spesso contraddicendo i compagni di viaggio e talvolta contraddicendo anche se stessi nel dubbioso procedere dell'opera loro. [* * * ]
Mi dispiace osservare che su questo punto perfino un pensatore della levatura di Ralf Dahrendorf, nel suo intervento di ieri, indulga alla versione semplicistica che fa degli illuministi francesi gli adoratori della dea Ragione in contrapposizione con la cultura empirica dei liberali anglosassoni e americani. Questa contrapposizione scolastica fa parte di una "vulgata" che non ha nessuna base storica; il pensiero di Locke si mosse vorrei dire in tandem con quello di Voltaire, Hume fu un punto di riferimento costante per i collaboratori dell'Enciclopedia, i padri fondatori della democrazia americana si formarono sul pensiero dei "philosophes". Un mese prima che Voltaire morisse, Benjamin Franklin arriva a Parigi per incontrarlo ed ecco la cronaca fatta dallo stesso Voltaire: "Franklin aveva portato con sé un suo nipotino che chiese la mia benedizione. Gliel'ho data ponendogli le mani sul capo e pronunciando le parole "God and Liberty". Poi le ripetei in francese "Dieu e Liberté". C'erano con noi una ventina di persone e piangevano tutte". Il giorno dopo tutta Parigi sa di quell'incontro straordinario e l'entusiasmo raddoppia. Ricordo questi fatti per riconfermare anche su base documentale che una contrapposizione tra illuministi francesi e anglosassoni è inesistente e che la società aperta è stata l'obiettivo degli uni e degli altri. Del resto per chi batté in breccia l'assolutismo in tutte le sue forme non avrebbe potuto essere diversamente.
Ma torniamo all'essenza filosofica di quel pensiero. La derivazione metodologica da Descartes è palese ma la correzione che Diderot opera sul pensiero cartesiano ha un'importanza fondamentale. Descartes aveva fondato l'intera sua ontologia dell'esistente sulla distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" o per dirla in modo più piano tra l'anima pensante e il corpo; aveva dato alla "res cogitans" un'esistenza indipendente dai corpi e in quel dualismo aveva recuperato quella metafisica che il "cogito, ergo sum" sembrava aver superato per sempre. Ma Diderot contesta alla radice il dualismo cartesiano e trasforma la "res cogitans" in una funzione della "res extensa". Da un lato si rifà allo Spinoza della "natura naturans", la natura che genera se stessa all'infinito e in forme sempre diverse; dall'altro precorre Nietzsche e la rivalutazione del corpo fatta dal cantore di Zarathustra. Il rapporto Diderot-Nietzsche è stato assai poco esplorato fin qui ed è una lacuna non secondaria negli studi nietzschiani; lo stesso filo che corre tra Spinoza e Nietzsche non mi pare approfondito a sufficienza forse perché si è impigliato nell'ostacolo del panteismo che viceversa è estraneo tanto all'uno quanto all'alto.
Non è questa la sede per affrontare problemi di tale dimensione; mi premeva segnalare quale sia stata e tuttora sia l'attualità filosofica del movimento dei lumi e in particolare del suo principale rappresentante. Da questo punto di vista mi permetto di suggerire, non certo agli specialisti ma al pubblico colto, la lettura del dialogo diderottiano Le rêve de d'Alembert che contiene forse la versione più compiuta del pensiero filosofico dell'autore e che, per una serie di circostanze editoriali, è invece uno dei testi meno conosciuti non solo in Italia ma nella stessa Francia. [* * *]
Ma c'è un altro aspetto dell'Illuminismo che costituisce elemento fondante della modernità ed è il tema della rappresentazione, della verità e della volontà nelle loro reciproche inferenze. La modernità si può definire in molti modi e con molteplici attribuzioni ma chi volesse arrivare al nocciolo di questa definizione credo che l'identificherebbe in quel rapporto circolare che coinvolge al tempo stesso l'attività conoscitiva, quella estetica, la prassi e la morale.
Dopo i "philosophes" quella ricerca diventa centrale in Kant, in Schelling, in Feuerbach, in Schopenhauer e in Giacomo Leopardi. E naturalmente in Nietzsche.
Sia detto qui di passata: la grandezza filosofica di Leopardi, come ha ben visto Severino, continua ad essere ignorata e subordinata alla sublimità della sua poetica. È un errore. Leopardi è stato grandissimo pensatore oltreché e forse prima che poeta. I passi dello Zibaldone dove si parla del rapporto tra la verità, l'illusione, l'azione, la morte, il nulla, configurano un pensiero di altissima profondità. Non so se Schopenhauer lo conoscesse quando scrisse il suo Mondo come volontà e rappresentazione pochi anni dopo, né se lo conoscesse Nietzsche quando scrisse la Genealogia della morale, lo Zarathustra e più ancora Gaia Scienza e i Pensieri postumi coevi all'Aurora; ma è certo che il nucleo filosofico leopardiano costituisce uno dei cardini del pensiero moderno ed ha una derivazione illuministica di tutta evidenza.
Richiamo da questo punto di vista il poema volterriano sul terremoto di Lisbona e la constatazione del male assoluto come problema inesplicabile che abbatte ogni metafisica provvidenziale privilegiando la casualità della vita e dei suoi svolgimenti senza più traccia di mitologie progressiste, pur indispensabili per dare un senso che al tempo stesso è puramente immaginario ma necessario alla vivibilità dell'esistenza, esattamente come l'illusione necessaria descritta da Leopardi. [* * *]
Si dovrebbe ancora parlare della filosofia dei lumi nel suo aspetto di movimento culturale e politico, che è stato presentissimo nell'intervista di Bobbio e in molti altri interventi. Del resto su questo punto i fatti parlano da soli e non mi riferisco soltanto all'azione dirompente che l'Illuminismo ebbe nel segnare il passaggio storico dall'Ancien Régime al costituzionalismo, alla divisione dei poteri, al sistema rappresentativo, ai diritti dell'uomo, all'eguaglianza giuridica e ai diritti di cittadinanza. Mi riferisco alla spinta potente con cui quella corrente di pensiero continuò ad alimentare tutte le lotte che seguirono fino ai tempi nostri contro la tirannide totalitaria, l'assolutismo, le tentazioni neotemporalistiche e i tanti e spesso tragici ritorni all'"utopia reazionaria" di cui parla Bobbio nel suo intervento.
Da questo punto di vista, come bene hanno visto Esposito, Givone e Sergio Moravia, la tesi di Horkheimer e Adorno che ritiene l'Illuminismo responsabile non solo del Terrore robespierrista ma anche dei lager comunisti e perfino dell'Olocausto hitleriano è talmente fuori da ogni validità intellettuale da non meritar neppur una confutazione.
Ne abbiamo già parlato all'inizio, ma viene acconcio di richiamare qui il pensiero di Heinrich e di Thomas Mann, quest'ultimo convinto di errore quando furono i fatti a dimostrargli d'aver sbagliato nelle sue Considerazioni d'unimpolitico e a stimolarlo ad una pubblica e radicale rettifica del suo pensiero. Politicamente il lascito illuminista fa ancora tutt'uno con la politica riformatrice e col pieno recupero della triade "Libertà eguaglianza fraternità" tanto tradita e calpestata durante le drammatiche crisi e massacri del Novecento. Filosoficamente il lascito è quello di procedere con sentimento morale e razionalità intellettuale traendo dal buio alcune provvisorie certezze che galleggiano sull'oceano del caos.
Così la nostra specie ha fatto e continuerà a fare perché questa è la nostra condizione esistenziale: di cercare la verità perfino quando sappiamo che non la troveremo neppure oltre le colonne d'Ercole dove la nostra audacia e la nostra necessità ci porta.
Eugenio Scalfari (La Repubblica)
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