venerdì 24 dicembre 2010

L’insostenibile leggerezza del pixel

Non sono né il sindacalista dei fotografi, né l’avvocato d’ufficio dei giornalisti, e neppure l’ufficio reclami di Repubblica. Ma la lettera che mi è giunta qualche giorno fa mi chiede di discutere di una questione controversa e complessa, ovvero la ripubblicazione su Internet di fotografie prese da altri siti Internet, in termini non solo stimolanti ma anche appropriati agli scopi e agli interessi di questo blog, quindi non posso e non voglio eluderla.
Prima la lettera, della cui civiltà vi ringrazio. Poi quello che mi sento di rispondere. Mi scuso se la lunghezza del post risulterà imbarazzante. Ma credo che molti saranno interessati.

Gentile Michele Smargiassi,
siamo dei fotografi ai quali
repubblica.it ha sottratto le foto prelevandole a nostra insaputa dalle proprie pagine Flickr. Ognuno di noi era in piazza durante i cortei del 14 dicembre per documentare un momento importante della vita pubblica di questo paese. Le fotografie sono state caricate sui nostri siti personali e anche su Flickr, forse la più importante vetrina di fotografia online a livello mondiale. Il giorno seguente non le dico lo stupore di trovarle nelle gallerie di repubblica.it! Ci piacerebbe poter discutere con lei e conoscere la sua opinione su alcuni temi legati a questa vicenda, quali l’informazione, l’eticità professionale e lo stato di salute del mestiere di fotografo oggi.
Qualche nostra considerazione. Sotto ognuna delle nostre foto era riportata la dicitura “
© Tutti i diritti riservati“. A quanto pare questo non è bastato a impedire che le foto venissero prelevate senza il nostro consenso e ripubblicate sul primo sito di informazione italiana, seppur riportando nome e cognome sotto ogni foto. Molte delle foto ripubblicate sono state modificate. Alcune convertite in bianco e nero, forse per aumentarne la drammaticità, scardinando totalmente la semiologia dell’immagine e quindi la significazione attribuita dal fotografo. A chi aveva apposto nella parte bassa della fotografia un watermark “© nome cognome”, per rimarcare ulteriormente il tipo di licenza comunque già presente sotto l’immagine, le foto sono state tagliate per escludere quel tipo di informazione. Le risposte alle nostre richieste di chiarimento pervenuteci dal desk di repubblica.it evidenziano un modus operandi abitudinario e consolidato, un atteggiamento culturale per il quale le fotografie presenti su Internet sono gratis.
Se pensiamo a
Flickr o a un sito fotografico come una vetrina, dove puoi mostrare quello che vendi tutelato dalle norme vigenti sul diritto d’autore e chi è interessato può contattare l’autore e comprare, c’è chi si sente legittimato a rompere questa vetrina e trafugare il contenuto per farne un uso pubblico e commerciale. Un’importante testata giornalistica legittima questo atteggiamento con un ritorno in termini di immagine per il fotografo: si prelevano delle foto, se gli autori se ne accorgono nella maggior parte dei casi si accontenteranno della gloria di essere finiti su un’importante testata, se sorgono problemi con qualcuno è questione di pochi attimi sostituire gli scatti con quelli di qualcun altro che probabilmente si accontenterà della gloria, il tutto con un meccanismo conseguente di qualità a ribasso. Ci chiediamo dov’è finita a questo punto l’etica professionale? Oltre a una mancanza di rispetto verso la persona e il non vedere riconosciuta una nostra professionalità, la nostra preoccupazione riguarda tutta la categoria, già sofferente in un periodo di crisi editoriale, tra stock images e archivi royalty free. Se la più importante testata online di informazione si sente autorizzata a un tale procedimento, la cosa non potrà non influenzare le altre testate, anche più piccole? C’è bisogno di un albo professionale che tuteli il fotografo? Sappiamo che il suo blog è ospitato da repubblica.it per cui probabilmente non ci sarà spazio per una discussione, ma la stima nei suoi confronti ci ha portato alla ricerca di un dialogo e un confronto nei modi e nei luoghi che riterrà opportuni,
distinti saluti, i fotografi
Adriano Caldiero, Remo Cassella, Alessandro Ciccarelli, Luca Farinelli, Marco Gioia

È molto leggera la fotografia ai tempi di Internet. Vola via al minimo vento.
Mi sono informato un po’ su come sono andate le cose: so che ci sono stati contatti diretti fra i fotografi che si sono sentiti espropriati del proprio lavoro e la redazione di repubblica.it, sono state offerte spiegazioni, sono state proposte soluzioni che in qualche caso hanno portato a una conciliazione e alla permanenza delle foto nella galleria online, in altri no; credo che la strada giusta per risolvere queste controversie sia stata dunque già percorsa. E non mi intrometto.
Facciamo dunque un salto in alto? Seguitemi. Forse vi irriterò, ma leggetemi fino in fondo.

Se continuiamo a versare vino vecchio nelle botti nuove rischiamo di spillarne aceto.
Bisognerà che ci rendiamo conto tutti, operatori dei media che siamo, di quanto è drammaticamente mutato il contesto della condivisione dei contenuti culturali da quando c’è Internet. Lavorare, e reagire, con gli schemi ereditati dall’era Gutenberg non può bastare. Mettersi in viaggio con un codice della strada scritto al tempo delle diligenze non solo non ci servirà a guidare sull’autostrada, ma ci esporrà a incidenti mortali.
Flickr dunque sarebbe per voi la vetrina del pasticciere che il ladro spacca a martellate per rubarne le torte e rivenderle. È la metafora giusta? Ve ne propongo un’altra. Il pasticciere spedisce migliaia di torte direttamente a casa di chiunque, dentro una fragile scatola di cartone. Con un biglietto: se la volete mangiare, speditemi prima un assegno. Potete provare a immaginare quanti assegni arriveranno, e quante torte saranno mangiate gratis? Il pasticciere potrà denunciare i golosoni avari come ladri, se crede; ma non dovrà almeno un po’ dolersi del suo incauto marketing? Troverebbe quel pasticciere un’assicurazione disposta a sottoscrivere una polizza contro il furto delle torte?

Daniel Morel è un fotografo free lance di Haiti che lo scorso gennaio ebbe la possibilità di fotografare le devastazioni del terremoto appena accaduto, e immediatamente caricò una dozzina di immagini su Twitter. Sapete come funziona Twitter? Le immagini furono ri-twittate immediatamente in centinaia di “copie”. L’agenzia France Press le incontrò sull’account Twitter di un altro fotografo, per copiò e le diffuse per i suoi canali (con credit sbagliato). Un bel pasticcio vero? Di questa vicenda mi interessa la reazione di Jean-François Leroy, il padre-padrone di Visa pour l’Image di Perpignan, il più rinomato festival di fotogiornalismo del mondo, che non credo possa essere sospettato di volere la rovina e la depredazione dei fotografi; eppure la sua reazione è tutt’altro che simpatetica per Morel: «I fotografi devono assumersi le loro responsabilità. Non puoi caricare le tue immagini su Twitter e pensare che nessuno te le prenda».

Intendiamoci. Io non sono fra gli estremisti della cultura open, del tutto-gratis, dell’hackeraggio come ideologia “rivoluzionaria” del Web e come sfida al capitalismo. Anzi vedo grandi rischi per la democrazia della cultura da un approccio di questo tipo, ma l’argomento è enorme e non lo affronto qui. Però non sono così cieco da non capire che Internet è il giardino delle tentazioni. Il gesto dell’appropriazione di un contenuto qualsiasi, sul Web, è leggero come l’aria, rapido come un clic di ciglia e moralmente leggerissimo. Quanti di voi non hanno mai scaricato una canzone o un film da eMule o qualche altro sito di file sharing? È illegale, lo sapete? Ma l’avete fatto senza sentirvi ladri. Prevengo l’obiezione: scaricare un file per uso personale è diverso che scaricarlo per ripubblicarlo su un sito d’informazione. No, non è così diverso. Chi mette un brano musicale a disposizione di milioni di potenziali consumatori, lo pubblica né più e né meno (forse molto di più) di una rivista che facesse un cd pirata e lo mandasse in edicola. Che ci sia o non ci sia un profitto non cambia la sostanza dell’appropriazione e della ridiffusione. E allora, pensate che le immagini siano esenti da questa tormenta del “serviti a tuo piacimento, è tutto gratis” che è la Rete?

Sto giustificando l’appropriazione libera dei contenuti protetti da copyright? No. Chiunque di noi, con qualunque mezzo si esprima, ha diritto al riconoscimento del proprio lavoro. Sto però descrivendo la fluidità e la fragilità del concetto di copyright nel Web, anzi la vera e propria mutazione genetica del rapporto fra diritti di proprietà intellettuale, diritti d’autore e diritti di riproduzione che è avvenuta nell’infosfera di Internet. Il diritto d’autore esiste ancora, certo. Molti giornali, incluso il mio, hanno cominciato a ricordarlo mettendo il “© proprietà riservata” in calce a tutti gli articoli, compresi i miei. Ma sapete quante volte trovo i miei articoli copincollati su altri siti? Non so proprio come il mio giornale pensi di difendere quel © ampiamente eluso, per quanto mi riguarda ho protestato solo una volta, senza pretendere però null’altro se non di copincollare anche la mia firma e la provenienza dell’articolo, insomma di non spacciare per altrui quel che è mio. Il riconoscimento della titolarità intellettuale è la soglia minima sotto cui nessuno dovrebbe scendere. Ma per il resto, tutto ormai è molto, molto fluido. Mi rendo conto che la fluidità che ho descritto, e che non credo sia contestabile, può essere il paravento per ogni genere di operazioni scorrette o semplicemente ambigue; ma c’è anche un’ambiguità reale, insita nel carattere della Rete, che va al di là delle reali o presunte cattive intenzioni dei singoli gestori dei siti. Vi faccio qualche domanda dalla risposta non scontata: a) se repubblica.it, anziché riprodurre le vostre foto, avesse solo inserito un link ai vostri siti, le vostre foto non sarebbero state ugualmente viste gratis? b) un aggregatore di notizie è solo una specie di indice, un motore di ricerca, o è paragonabile a una testata che ripubblica articoli e immagini altrui a sbafo? c) un’immagine può essere essa stessa oggetto di notizia, e dunque diventare una sorta di “citazione”, che è per principio libera e gratuita? (Nel caso specifico, mi sembra di capire, repubblica.it intendeva dare ai suoi lettori notizia di come la comunità di Flickr si era occupata degli scontri di piazza; più o meno come si fa quando si riproducono le prime pagine dei giornali internazionali per far vedere come la stampa mondiale ha dato una certa notizia).

Personalmente credo che, una volta che un prodotto comunicativo viene pubblicato, diventi in qualche modo patrimonio di tutti, e sia difficile e forse ingiusto vietare che altri possano utilizzarlo come fonte, citazione, oggetto di analisi e di ri-presentazione. Non credo nel tutto-gratis ma mi pare che regole aperte come quelle della licenza Creative commons siano una buona mediazione fra la tutela dei diritti intellettuali e la libertà di condivisione della conoscenza. Regole più rigide rischiano solo di essere aggirate e ignorate, come infatti avviene. Non facciamo gli ingenui: il Web è un gigantesco gioco di specchi dove l’immissione di nuovi contenuti è minima rispetto alla replica di contenuti già presenti. Giusto o sbagliato, bello o deprimente, questo è. Direte: sì, ma i tuoi articoli sono già stati pubblicati, le nostre foto no, sono in vetrina in attesa di acquirente. Attenzione, attenzione. La differenza fra una vetrina commerciale, un luogo d’incontro e una testata giornalistica nel Web è ormai così sfumata da non essere più percepibile. Flickr, come Facebook, Twitter e qualsiasi sito della galassia social network, sono siti di condivisione di contenuti prima che cataloghi commerciali; sono bacheche che offrono gratuitamente accesso a materiali mediatici, né più ne meno del sito che state leggendo ora.

Direte ancora: ok, ma tu per quell’articolo hai già preso uno stipendio, noi invece ci campiamo, o ci vorremmo campare (non so se siate fotografi professionisti), sulle nostre foto. Giusto. Corretto. Ma di nuovo, cos’è diventato il mestiere del fotoreporter nell’era Internet? Potete pensare che sia rimasto come nell’epoca in cui nelle redazioni si presentavano solo i fotoreporter professionisti con i loro plasticoni di diapo sotto il braccio? Nella vostra lettera leggo, anche esplicitamente, il disagio per la concorrenza feroce delle immagini gratuite o low-cost di cui la Rete trabocca. Voi puntate il dito sulle agenzie di stock, ma almeno per le foto di news non è quella la vera concorrenza che vi mette in difficoltà. È quella inaspettata, feroce, soverchiante del citizen journalism, dei contenuti generati dai lettori, dei reportage fatti coi fotocellulari, delle foto dei testimoni per caso. Immagini che le redazioni dei giornali online non solo accettano volentieri, ma ormai sollecitano apertamente e sempre più spesso. Sperare di arginare questo tsunami di immagini crude chiedendo o imponendo alle redazioni di limitarle o escluderle in nome di qualche etica della comunicazione, è una pia illusione, è retrogrado e perdente in partenza: è invocare un protezionismo che non reggerebbe un solo secondo.

La strada che io intravedo è un’altra: accettare che il panorama è cambiato, e cambiare il nostro posto nel panorama. Ragioniamo ancora: che cosa sono le immagini del cosiddetto (e detto malissimo) citizen journalism? Non sono reportage fotografico più di quanto la voce spezzata di un testimone sia un articolo giornalistico. Sono fonti. Sono testimonianze. Che una testata seria utilizza, ma completa, seleziona, mette in relazione con altre fonti: insomma lavora ed elabora giornalisticamente. Sul luogo di un evento, l’ho scritto da poco, ci sono ormai sempre decine di fotocamere, spontanee e professionali. Se le seconde mi portano un contenuto dello stesso spessore delle prime (e badate, non sto dicendo che sia il vostro caso, anzi da quel che vedo sono generalmente interessanti), se non sono un prodotto giornalisticamente, consapevolmente lavorato, per me avranno lo stesso valore delle fotografie dei passanti.

Catturare immagini di un evento non è più fare foto-giornalismo. Forse lo era, quando i fotografi professionisti erano anche gli unici testimoni visuali in circolazione in grado di registrare immagini. Non lo sono più. Ora una foto di cruda testimonianza (”ero lì e ho visto questo”) me la porta, spesso con più tempestività e dettagli, la foto del ragazzino col cellulare. Da un professionista io, testata giornalistica, voglio di più, e forse sono ancora disposto a pagare per averlo. E questo di più non può essere solo la quantità di pixel, o una maggiore accuratezza nella composizione. Ai fotografi io chiedo di creare contenuti che vadano molto oltre la testimonianza cruda. Di darmi quello che non potrei vedere altrimenti. Fotografie uniche perché elementi di un progetto ragionato, di uno “sguardo di tempi lunghi” e non di un prelievo occasionale. Chiedo al fotografo di di essere là dove nessun ragazzino col fotocellulare andrà mai, nei luoghi dove nessuno capita per caso, nelle situazioni dove serve competenza, studio, esperienza, e non la banale fortuna dell’esserci, per produrre un’immagine dotata di significato. La stessa sfida riguarda anche noi che lavoriamo con le parole: i giornali non sono più il luogo dove il lettore incontra la notizia, ma quello dove incontra spiegazioni, approfondimenti, collegamenti, ragionamenti.

Non è detto che basti. Il festival di Perpignan è pieno di splendidi reportage invenduti. La vita è dura per professionisti costretti dall’evoluzione del sistema mediatico ad essere tutti più o meno free-lance. Credetyemi, capisco la condizione dei fotografi. Ma credo che questa che ho provato a descrivfere sia l’unica strada, se ancora ce n’è una, per salvare quel ruolo di mediatori, di narratori, di costruttori del racconto che è sempre più necessaria per la qualità e per la democrazia stessa dell’informazione, per salvare insomma l’esistenza indispensabile dei fotografi professionisti, dei nostri delegati alla visione.

Michele Smargiassi (La Repubblica - 21 dicembre 2010)


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