Dopo l’affondo di ieri, oggi Sergio Marchionne finge una mezza marcia indietro. Non è vero che pensa di spostare la direzione Fiat da Torino a Detroit, sostiene, perché “in Italia si fa troppa politica”. Tutt’alpiù si potrebbero moltiplicare le direzioni: una a Torino, una a Detroit, una in Brasile, un’altra chissà dove…
Se non è zuppa è pan bagnato: Marchionne più che smentire conferma che in futuro la Fiat sarà sempre meno italiana. Però non è nemmeno detto che basti questo, perché della parola dell’amministratore delegato della Fiat è meglio fidarsi poco. La fiducia nasce dall’esperienza, e l’esperienza di chi si è fidato di Marchionne è sempre stata quella di scottarsi.
Assicurava che non avrebbe mai toccato il costo del lavoro, dal momento che incideva pochissimo sui costi della produzione dell’automobile, e gli operai di Pomigliano e Mirafiori sanno benissimo com’è andata a finire. Prima del referendum sull’accordo di Pomigliano aveva giurato che lui a riproporre quello stesso accordo negli altri centri di produzione Fiat non ci pensava nemmeno. Infatti pochi mesi dopo ha imposto quello stesso accordo anche a Mirafiori. Solo se i lavoratori avessero ingoiato quell’accordo, ripeteva a tutti prima del referendum a Torino, la Fiat sarebbe rimasta in Italia. I lavoratori hanno firmato e lui non ha aspettato neanche un mese per iniziare a dire che sta per andarsene. Un uomo di parola.
Però non sono solo questi i motivi che consigliano di non fidarsi mai di Sergio Marchionne né come cittadino né come manager.
Sul “Corriere della Sera”, poco tempo fa, Massimo Mucchetti ha fatto un esperimento interessante. Ha applicato all’amministratore delegato della Fiat i criteri con i quali, dopo la riforma voluta dal presidente Obama, vengono valutati gli stipendi dei manager negli Usa. In America la valutazione si fa tenendo conto anche delle stock options e della azioni gratuite, e giustamente: sono soldi pure quelli, e tanti, tantissimi.
E’ venuto fuori che il dottor Marchionne non guadagna “solo” 400 volte più di un suo operaio, ma addirittura 1.037 volte di più. Sommando lo stipendio e tutte le altre forme di reddito, da quando guida la Fiat Marchionne ha guadagnato 38,8 milioni di euro all’anno.
Personalmente io trovo scandaloso che un dirigente guadagni oltre mille volte più di un suo operaio, e dovevano trovarlo un po’ strano anche i vecchi proprietari dell’azienda, dal momento che lo stipendio di Vittorio Valletta, il più importante tra i manager dell’azienda torinese, era circa 40 volte più alto di quello dei suoi operai, e tra 40 e 1037 c’è una bella differenza.
Ma lasciamo perdere questo aspetto. Il fatto ancora più grave è che su quei soldi Marchionne paga molte meno tasse dei suoi operai! Infatti anche se ha in tasca il passaporto italiano e canadese, l’amministratore delegato Fiat la cittadinanza ce l’ha in Svizzera. Così mentre i suoi operai tra una cosa e l’altra pagano al fisco circa il 30% dei loro stipendi, lui ne deve sborsare meno del 15%. Alla faccia dell’etica pubblica.
Io però non mi fiderei tanto di Marchionne nemmeno come manager dell’automobile. In una puntata di “AnnoZero”, Corrado Formigli paragonò il suo percorso con quello degli altri principali manager dell’auto. Quelli venivano tutti da studi di ingegneria o di fisica e da una carriera conquistata progettando automobili. Marchionne ha studiato Economia e Filosofia, ha fatto carriera come finanziere e di automobili non ne capisce un tubo.
Non è mica un caso che gli azionisti, cioè gli Agnelli, abbiano scelto un manager schiappa nella progettazione delle auto ma bravissimo nei conti. Era l’uomo giusto per una riconversione industriale dell’azienda, che sull’automobile vuole investire e scommettere sempre di meno, e per trovare il modo di traslocare dall’Italia negli Usa pagando il minor prezzo possibile e addossando i costi allo Stato italiano.
Dal suo punto di vista si capisce che faccia così. Lo hanno assunto per questo e per questo lo pagano fior di milioni, nemmeno tassati come quelli di un operaio di linea. Ma noi perché dovremmo fidarci di un manager simile?
E anzi vorrei porre una domanda precisa a tutti, a partire dal governo ancora in carica: che senso ha ridisegnare le relazioni industriali in Italia, terremotarle con la spaccatura del sindacato e della stessa Confindustria, sulla base di un’azienda che l’Italia la sta lasciando. Anche noi dell’Italia dei valori siamo favorevoli a un rinnovamento del sistema di relazioni industriali in Italia. Però, per favore, partendo dal modello e dalle esigenze delle aziende che in Italia vogliono restare. Non su quello dei predoni che spogliano i territori conquistati e poi se ne vanno lasciandosi terra bruciata alle spalle.
Antonio Di Pietro – 6 febbraio 2011
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