Il film Johnny Stecchino, felice performance dell’attore comico Roberto Benigni, individua nel traffico cittadino il principale problema di Palermo. In verità, anche se l’ironico paradosso cinematografico indica il “virus” più comune e tipico degli affollati agglomerati urbani, sono ben altre problematiche che inquinano l’inossidabile mondanità locale.
Nell’atavica ignavia di un contesto civico felicemente stigmatizzato dal romanziere Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, si alimenta una pubblica amministrazione ove prevale l’arte del tirare a campare, la raccomandazione e un’arroganza che talvolta sfiora angherie da malaffare.
Impunità sempre più ostentate, in verità sono pure agevolate da un assuefatto e talvolta complice “parterre”, ormai avvezzo a vedere calpestare ogni diritto e rassegnato a subire ogni abuso. Insomma, continua un andazzo che alimenta la dilagante crescita dell’ “humus siculi”, substrato indispensabile per lo sviluppo delle diverse forme di “mafiosità” (evidenti e non) divenute parti integranti dei DNA degli stessi indigeni, in ogni ruolo e grado, siano essi: tutori, amministratori, semplici spettatori, vittime di turno, fedeli luogotenenti, istrionici “pigmalioni” o cinici “padrini”.
In un tal contesto è difficile restare incontaminati o riuscire a preservare gli ambienti, anche se pubblici e dei più “elevati”; pure se legati a culture e tradizioni nobili e d’origini lontane.
Non c’è da sorprendersi, quindi, se da qualche tempo una blasonata e prestigiosa “Casina” vagamente liberty assurge alle cronache per dei “chiacchiericci” legati ad una fantomatica “FAVORITA”.
Fu informato Giacomo Leopardo, navigato sindacalista avvezzo a gestire casi difficili e delicati.
In breve G.L. ebbe a verificare che non si stava lì discutendo del noto parco cittadino, divenuto famoso per i fasti di un tempo (ove insistono diversi insediamenti sportivi quali: stadio, campo di atletica, ippodromo, ecc...), oggi divenuto luogo decadente anche per l’incuria dell’autorità comunale, ma che si trovava di fronte ad emblematiche ironiche allusioni, collegate ad “attenzioni” che erano rivolte da “responsabili della casa” a “fortunate favorite”.
Autorevoli fonti gli riferirono che da qualche tempo, quasi passandosi un virtuale testimone, “maturi burocrati”, forse ringalluzziti da fantasie ispirate dalla “chiacchierata” piazza, attraverso autonome e arbitrarie iniziative - supinamente accettate dal “contesto” - mettevano a frutto collaudate e impunite prassi per designare “dame di compagnia” utilizzabili anche per le mondanità locali. Il tutto attuando delle raffinate tecniche selettive, con passaggi e scremature atte ad “individuare” le “fortunate elette di turno”, orgogliose di ricoprire l’ambito ruolo. Per quanto ovvio, gli “incoronamenti” - caratterizzati da evidenti sviluppi pratici, talvolta piacevoli e in ogni modo gratificanti - procuravano sempre alle “prescelte consenzienti” vantaggi diretti e indiretti, immediati o prospettici.
G.L. registrò come il “gioco”, allargato talvolta ad ambiti familiari, facesse pure emergere evidenti pettegolezzi ed inevitabili squilibri nell’ambiente lavorativo; innescasse, cioè, discriminazioni e scontenti più o meno isolati negli antri dell’intrigato “granaio”.
Al riguardo gli fu pure raccontato che quegli stessi “bucanieri”, una volta esposti a velati ricatti, erano anche riusciti a compiacersi nel rimuovere “astutamente” gli spiacevoli intoppi; per gli abili compromessi confezionati che, adeguatamente personalizzati, riuscivano sempre ad insabbiare ogni cosa; il tutto, nel naturale mellifluo iter istituzionale (da qui un motto sembra circoli fra i soliti “furbi”: “non accalchiamoci, c’è n’è per tutti”; ovviamente, salvo eccezioni).
Rimaneva la palpabile distonia fra le “apparenze” e la “sostanza”, differenze che rischiavano di offuscare l’ostentata “integrità pubblica”, da sempre emblematico vanto della famosa ed integerrima “Casina”.
Si realizzavano intanto favole come Cenerentola e tante altre magie come nei classici cartoons di Walt Disney (scope volanti e Pico della Mirandola virtuali, Pietri, Pippi, Clarabelle, Paperine).
All’esperto Leopardo apparve singolare il fatto che la gravità di profili come quelli in questione, difficili da gestire e ancor più da occultare, qualche volta anche per le peculiarità degli stessi “attori”, fosse potuta sfuggire agli “attenti professionisti” in occasione dell’episodica recente verifica ispettiva.
Anche se era risaputo che i controlli interni si concentrano principalmente nel vaglio dell’efficacia e della sicurezza delle prassi più esposte a rischi operativi e che, quindi, attenzionano maggiormente la condotta dei “bassi ranghi”, non poteva “pubblicamente” accettare il sospetto che potessero essere stati attuati approcci volutamente “sufficienti, bonari e permissivi” nei riguardi delle più alte “caste”.
Anche se sapeva benissimo che i comunisti non mangiano i bambini, nonostante le molteplici esperienze maturate sul fronte sindacale, “si professava” un garantista che credeva ancora nella moralità della “casina”, ufficialmente improntata al pieno rispetto delle regole.
Intanto fu organizzata l’immancabile riunione delle maestranze dell’edificio e in breve, dopo l’ennesimo aggiornamento sull’eterna vertenza economica, si andò a parlare delle ultime verifiche ispettive e delle questioni in argomento.
Si sentì dire: “pensavo che sarebbe andata peggio; in relazione a quello che hanno visto e chiesto sono stati molto teneri: un approccio buonista; come al solito non cambierà nulla, forse qualche spostamento, per tamponare emergenze ........, ma qualcuno sperava davvero in qualche cosa di efficace e positivo?..... ma no quello era un padre di famiglia, un signore; ...a proposito …… lo sapevate che …………….. sono stati visti assieme a ...…….…..”.
Il solito distratto contestatore locale ebbe ad esternare l’ovvietà che ogni sorta di massoneria, anche se incruenta, s’ispira a filosofie che attendono a regole d’incontrollabile faziosità.
Al disilluso restò l’ennesima amara riflessione e, fraintendendo parte dei discorsi recitò il famoso detto che “cumannari è megghiu ri futtiri”; arguì peraltro in quello stesso momento che “a pensarci bene, non è detto che l’una cosa escluda l’altra”. Chi sposa il detto addiviene di certo ad una scala di valori e quindi, per valutare pienamente ogni beneficio e le piacevoli sensazioni, occorre che lo stesso conclamante abbia approfonditamente sperimentato le due cose ed infine assunto di privilegiare il primo aspetto.......... Rifletté ancora un po', gli sovvenne un dubbio .................e s’ingarbugliò: qualcosa non quadrava!
Un nostalgico, ancorché attempato eterno ingenuo, che sperava ancora di migliorare il mondo sognando l’attualità dei principi storicizzati dagli eventi francesi del 1789, pensò anch’esso, ma ad alta voce: “non sarebbe più rispettoso verso la gente onesta rivolgere uguali attenzioni al decoro e alla decenza di ciascuno, indipendentemente dai compiti cui si è chiamati e ancor di più verso coloro che ricoprono i ruoli sensibili e di più alta responsabilità. Magari attenzionando quegli aspetti morali e quelle condotte che, lungi dall’essere bacchettone, preservino da malcostumi possibili e assicurino una sana trasparente gestione meritocratica. Di certo ciò faciliterebbe il più naturale raggiungimento degli strombazzati compiti istituzionali”.
Dal capannello spontaneo emersero piccole confidenze, riservate e fino ad ieri sottaciute; circolarono aneddoti e delle strane domande; una voce di donna esordì dicendo: “colleghi e colleghe, a proposito di mobbing .......”; “buuuuuuu” fu l’ululato coprente della più esperta e navigata massa, già infastidita da quei discorsi non nuovi e turbata al solo pensiero di mettere in discussione il comandante di turno; assolutamente indisponibile a rinunciare ai propri privilegi che, seppur effimeri, con estrema fatica era riuscita a conquistare, e a risvegliarsi dal soporifico piacevolissimo ruolo.
Infine, come nella famosa canzone del compianto De Andrè, dall’assemblea si sollevò deciso “un coro di vibrante protesta”: si udirono tante cicale frinire acutamente un confuso ed assordante: “cra, cra, cra, cra, ..........”.
L’illuminato politico rinascimentale toscano ebbe a immortalare per i posteri lo scritto: “quanta è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza”.
Il nostro Leopardo, infastidito, valutò velocemente che, indipendentemente dall’attendibilità delle fonti, anche se dirette, di certo i fatti prospettati non potevano assurgere a verità e tantomeno a vero problema. Nessuno avrebbe mai validato quelle insistenti “basse dicerie”.
Riconobbe però l’evento e sapeva pure che si era imbattuto in uno dei malcostumi sottaciuti, comuni ad altre residenze della blasonata “Casina”.
Intuì subito che si trovava in una situazione incresciosa, che rischiava di divenire egli stesso strumento di “volgari maldicenze”, che mettevano a repentaglio il blasone della “Casina” e l’integrità di personaggi conosciuti.
In un attimo la sua mente istrionica si accese in un “eureka”, gli balenò d’incanto l’immensa comodità della geniale verità cinematografica arguita dal famoso attore.
Gestì abilmente gli ulteriori interventi e dopo un veloce saluto andò via.
Nella riunione del “Direttivo nazionale”, tenutasi nel mese successivo a Roma, dei partecipanti chiesero incuriositi che fosse aggiornata l’assemblea sulle note vicende di Palermo; G.L. scendendo dal palco e senza microfono farfugliò qualcosa.
Soggetti vicini gli sentirono affermare che si era trattato di un fuoco di paglia e che l’unico vero problema di Palermo era “il tttrrraffico”.
sc
Nell’atavica ignavia di un contesto civico felicemente stigmatizzato dal romanziere Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, si alimenta una pubblica amministrazione ove prevale l’arte del tirare a campare, la raccomandazione e un’arroganza che talvolta sfiora angherie da malaffare.
Impunità sempre più ostentate, in verità sono pure agevolate da un assuefatto e talvolta complice “parterre”, ormai avvezzo a vedere calpestare ogni diritto e rassegnato a subire ogni abuso. Insomma, continua un andazzo che alimenta la dilagante crescita dell’ “humus siculi”, substrato indispensabile per lo sviluppo delle diverse forme di “mafiosità” (evidenti e non) divenute parti integranti dei DNA degli stessi indigeni, in ogni ruolo e grado, siano essi: tutori, amministratori, semplici spettatori, vittime di turno, fedeli luogotenenti, istrionici “pigmalioni” o cinici “padrini”.
In un tal contesto è difficile restare incontaminati o riuscire a preservare gli ambienti, anche se pubblici e dei più “elevati”; pure se legati a culture e tradizioni nobili e d’origini lontane.
Non c’è da sorprendersi, quindi, se da qualche tempo una blasonata e prestigiosa “Casina” vagamente liberty assurge alle cronache per dei “chiacchiericci” legati ad una fantomatica “FAVORITA”.
Fu informato Giacomo Leopardo, navigato sindacalista avvezzo a gestire casi difficili e delicati.
In breve G.L. ebbe a verificare che non si stava lì discutendo del noto parco cittadino, divenuto famoso per i fasti di un tempo (ove insistono diversi insediamenti sportivi quali: stadio, campo di atletica, ippodromo, ecc...), oggi divenuto luogo decadente anche per l’incuria dell’autorità comunale, ma che si trovava di fronte ad emblematiche ironiche allusioni, collegate ad “attenzioni” che erano rivolte da “responsabili della casa” a “fortunate favorite”.
Autorevoli fonti gli riferirono che da qualche tempo, quasi passandosi un virtuale testimone, “maturi burocrati”, forse ringalluzziti da fantasie ispirate dalla “chiacchierata” piazza, attraverso autonome e arbitrarie iniziative - supinamente accettate dal “contesto” - mettevano a frutto collaudate e impunite prassi per designare “dame di compagnia” utilizzabili anche per le mondanità locali. Il tutto attuando delle raffinate tecniche selettive, con passaggi e scremature atte ad “individuare” le “fortunate elette di turno”, orgogliose di ricoprire l’ambito ruolo. Per quanto ovvio, gli “incoronamenti” - caratterizzati da evidenti sviluppi pratici, talvolta piacevoli e in ogni modo gratificanti - procuravano sempre alle “prescelte consenzienti” vantaggi diretti e indiretti, immediati o prospettici.
G.L. registrò come il “gioco”, allargato talvolta ad ambiti familiari, facesse pure emergere evidenti pettegolezzi ed inevitabili squilibri nell’ambiente lavorativo; innescasse, cioè, discriminazioni e scontenti più o meno isolati negli antri dell’intrigato “granaio”.
Al riguardo gli fu pure raccontato che quegli stessi “bucanieri”, una volta esposti a velati ricatti, erano anche riusciti a compiacersi nel rimuovere “astutamente” gli spiacevoli intoppi; per gli abili compromessi confezionati che, adeguatamente personalizzati, riuscivano sempre ad insabbiare ogni cosa; il tutto, nel naturale mellifluo iter istituzionale (da qui un motto sembra circoli fra i soliti “furbi”: “non accalchiamoci, c’è n’è per tutti”; ovviamente, salvo eccezioni).
Rimaneva la palpabile distonia fra le “apparenze” e la “sostanza”, differenze che rischiavano di offuscare l’ostentata “integrità pubblica”, da sempre emblematico vanto della famosa ed integerrima “Casina”.
Si realizzavano intanto favole come Cenerentola e tante altre magie come nei classici cartoons di Walt Disney (scope volanti e Pico della Mirandola virtuali, Pietri, Pippi, Clarabelle, Paperine).
All’esperto Leopardo apparve singolare il fatto che la gravità di profili come quelli in questione, difficili da gestire e ancor più da occultare, qualche volta anche per le peculiarità degli stessi “attori”, fosse potuta sfuggire agli “attenti professionisti” in occasione dell’episodica recente verifica ispettiva.
Anche se era risaputo che i controlli interni si concentrano principalmente nel vaglio dell’efficacia e della sicurezza delle prassi più esposte a rischi operativi e che, quindi, attenzionano maggiormente la condotta dei “bassi ranghi”, non poteva “pubblicamente” accettare il sospetto che potessero essere stati attuati approcci volutamente “sufficienti, bonari e permissivi” nei riguardi delle più alte “caste”.
Anche se sapeva benissimo che i comunisti non mangiano i bambini, nonostante le molteplici esperienze maturate sul fronte sindacale, “si professava” un garantista che credeva ancora nella moralità della “casina”, ufficialmente improntata al pieno rispetto delle regole.
Intanto fu organizzata l’immancabile riunione delle maestranze dell’edificio e in breve, dopo l’ennesimo aggiornamento sull’eterna vertenza economica, si andò a parlare delle ultime verifiche ispettive e delle questioni in argomento.
Si sentì dire: “pensavo che sarebbe andata peggio; in relazione a quello che hanno visto e chiesto sono stati molto teneri: un approccio buonista; come al solito non cambierà nulla, forse qualche spostamento, per tamponare emergenze ........, ma qualcuno sperava davvero in qualche cosa di efficace e positivo?..... ma no quello era un padre di famiglia, un signore; ...a proposito …… lo sapevate che …………….. sono stati visti assieme a ...…….…..”.
Il solito distratto contestatore locale ebbe ad esternare l’ovvietà che ogni sorta di massoneria, anche se incruenta, s’ispira a filosofie che attendono a regole d’incontrollabile faziosità.
Al disilluso restò l’ennesima amara riflessione e, fraintendendo parte dei discorsi recitò il famoso detto che “cumannari è megghiu ri futtiri”; arguì peraltro in quello stesso momento che “a pensarci bene, non è detto che l’una cosa escluda l’altra”. Chi sposa il detto addiviene di certo ad una scala di valori e quindi, per valutare pienamente ogni beneficio e le piacevoli sensazioni, occorre che lo stesso conclamante abbia approfonditamente sperimentato le due cose ed infine assunto di privilegiare il primo aspetto.......... Rifletté ancora un po', gli sovvenne un dubbio .................e s’ingarbugliò: qualcosa non quadrava!
Un nostalgico, ancorché attempato eterno ingenuo, che sperava ancora di migliorare il mondo sognando l’attualità dei principi storicizzati dagli eventi francesi del 1789, pensò anch’esso, ma ad alta voce: “non sarebbe più rispettoso verso la gente onesta rivolgere uguali attenzioni al decoro e alla decenza di ciascuno, indipendentemente dai compiti cui si è chiamati e ancor di più verso coloro che ricoprono i ruoli sensibili e di più alta responsabilità. Magari attenzionando quegli aspetti morali e quelle condotte che, lungi dall’essere bacchettone, preservino da malcostumi possibili e assicurino una sana trasparente gestione meritocratica. Di certo ciò faciliterebbe il più naturale raggiungimento degli strombazzati compiti istituzionali”.
Dal capannello spontaneo emersero piccole confidenze, riservate e fino ad ieri sottaciute; circolarono aneddoti e delle strane domande; una voce di donna esordì dicendo: “colleghi e colleghe, a proposito di mobbing .......”; “buuuuuuu” fu l’ululato coprente della più esperta e navigata massa, già infastidita da quei discorsi non nuovi e turbata al solo pensiero di mettere in discussione il comandante di turno; assolutamente indisponibile a rinunciare ai propri privilegi che, seppur effimeri, con estrema fatica era riuscita a conquistare, e a risvegliarsi dal soporifico piacevolissimo ruolo.
Infine, come nella famosa canzone del compianto De Andrè, dall’assemblea si sollevò deciso “un coro di vibrante protesta”: si udirono tante cicale frinire acutamente un confuso ed assordante: “cra, cra, cra, cra, ..........”.
L’illuminato politico rinascimentale toscano ebbe a immortalare per i posteri lo scritto: “quanta è bella giovinezza, che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza”.
Il nostro Leopardo, infastidito, valutò velocemente che, indipendentemente dall’attendibilità delle fonti, anche se dirette, di certo i fatti prospettati non potevano assurgere a verità e tantomeno a vero problema. Nessuno avrebbe mai validato quelle insistenti “basse dicerie”.
Riconobbe però l’evento e sapeva pure che si era imbattuto in uno dei malcostumi sottaciuti, comuni ad altre residenze della blasonata “Casina”.
Intuì subito che si trovava in una situazione incresciosa, che rischiava di divenire egli stesso strumento di “volgari maldicenze”, che mettevano a repentaglio il blasone della “Casina” e l’integrità di personaggi conosciuti.
In un attimo la sua mente istrionica si accese in un “eureka”, gli balenò d’incanto l’immensa comodità della geniale verità cinematografica arguita dal famoso attore.
Gestì abilmente gli ulteriori interventi e dopo un veloce saluto andò via.
Nella riunione del “Direttivo nazionale”, tenutasi nel mese successivo a Roma, dei partecipanti chiesero incuriositi che fosse aggiornata l’assemblea sulle note vicende di Palermo; G.L. scendendo dal palco e senza microfono farfugliò qualcosa.
Soggetti vicini gli sentirono affermare che si era trattato di un fuoco di paglia e che l’unico vero problema di Palermo era “il tttrrraffico”.
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