mercoledì 2 febbraio 2011

Quanto ci piacciono i dittatori

È evidente l’estremo imbarazzo dell’Occidente (con ciò intendendo l’America e tutti i Paesi cosiddetti democratici che le fanno da codazzo) di fronte alle rivoluzioni popolari, laiche, emerse improvvisamente in Tunisia, in Albania, in Egitto. Perché ci mette di fronte alla nostra contraddizione di fondo: da una parte noi siamo i grandi vessilliferi dell’ideale democratico tanto che non esitiamo a imporlo, anche a suon di “bombe blu” e all’uranio impoverito, a popoli che non ne vogliono sapere (Afghanistan), dall’altra se emergono forze, democraticamente elette, che non ci sono amiche, o che sospettiamo che non lo siano, preferiamo le dittature, anche quelle particolarmente infami e corrotte (una nostra specialità è appoggiare i regimi più corrotti del mondo, perché sono più facilmente manovrabili).

La prova si ebbe nel 1991 quando in Algeria si tennero le prime elezioni libere e democratiche di quel Paese dopo trent’anni di una dittatura militare sanguinaria. Vinse il Fis, Fronte Islamico di Salvezza, col 75% dei consensi. Allora aiutammo i generali tagliagole algerini ad annullare quelle elezioni con la motivazione che il Fis avrebbe instaurato un regime totalitario. Cioè in nome di una dittatura ipotetica si ribadiva quella che già c’era. I dirigenti del Fis furono arrestati e decine di migliaia di militanti messi in galera. Quando si vuole schiacciare una forza che ha il consenso di tre quarti della popolazione la conseguenza non può che essere la guerra civile, che infatti ha insanguinato l’Algeria per più di dieci anni con centinaia di migliaia di vittime che pesano in buona parte sulla nostra adamantina coscienza di occidentali. Comunque la lezione algerina aveva questa pedagogia: le elezioni democratiche valgono solo quando le vinciamo noi.

Un discorso apparentemente diverso ma sostanzialmente analogo va fatto per la Rivoluzione khomeinista. Per decenni l’Occidente ha sostenuto lo Scià di Persia, un dittatore patinato (quanti servizi su Soraya, “la principessa triste”, e Farah Diba abbiamo dovuto sorbirci nella nostra giovinezza) quanto spietato, la cui polizia, la Savak, era la più famigerata del Medio Oriente, il che è tutto dire. Lo Scià rappresentava una sottilissima striscia, il 2%, di borghesia occidentalizzante ricchissima che si poteva vedere in quegli anni, tutta in ghingheri a Londra e a New York, mentre il resto del Paese era alla fame. Finché il tappo è saltato ed è arrivato Khomeini che, poiché noi ragioniamo sempre e solo con le nostre categorie, dapprima fu scambiato dalle sinistre per un bolscevico (“Baktiar = Kerenski, Khomeini = Lenin” scriveva l’Unità) e in seguito, quando fu chiaro che proponeva una via allo sviluppo del mondo islamico che non fosse né comunista né capitalista, divenne per tutti “il demonio”. Tanto è vero che gli opponemmo un dittatore vero, e particolarmente criminale, Saddam Hussein, mentre la teocrazia non è certo la democrazia, ma non è nemmeno il potere assoluto nelle mani di un solo uomo. La stessa cosa sta avvenendo in questi giorni in Egitto. Hosni Mubarak sarebbe saltato da tempo come un tappo, sotto la pressione dell’ebollizione strisciante di un’intera popolazione che non ne poteva più del suo prepotere, del suo nepotismo, della corruzione sua e del suo clan, dei metodi illiberali e polizieschi (non per nulla gli americani quando hanno catturato illegalmente, violando ogni norma di diritto internazionale, l’imam di Milano Abu Omar, lo hanno spedito subito nelle prigioni del Cairo perché vi potesse essere adeguatamente torturato), se gli Stati Uniti non lo avessero sostenuto per decenni con miliardi di dollari l’anno e costruendogli addosso uno dei più imponenti eserciti del mondo, in funzione antiraniana e pro israeliana (ma era stato Sadat, un uomo probo, e non quel pendaglio da forca di Mubarak, ad avere il coraggio di alzare il telefono e dire al nemico di sempre: piantiamola). Anche qui la lezione è che, nonostante i nostri roboanti proclami, i regimi dittatoriali, i calpestatori professionali dei “diritti umani”, ci stanno bene purché stiano ai nostri ordini e servano i nostri interessi. Così abbiamo sostenuto Musharraf, il sanguinario dittatore del Pakistan, perché ci ha aperto le porte dell’Afghanistan, così come sosteniamo, per lo stesso motivo, il corrottissimo e altrettanto dittatoriale, sotto false forme democratiche, Sali Berisha, Alì Zardari, o il re Abdullah dell’Arabia Saudita dove la sharia è applicata in modo più sistematico di quanto avvenga in Iran e di quanto avvenisse sotto il demonizzato regime talebano, e tiranni e tirannelli di mezzo mondo, purché “amici” e sensibili ai dollari.

Adesso la tentazione, anzi il progetto, è di pilotare le rivoluzioni tunisina, albanese e egiziana a nostro uso e consumo. Di giocare sulla carne e sulla pelle di chi ha avuto il coraggio – che manca in Italia – di ribellarsi all’ingiustizia, perché torni tutto come prima e quei Paesi restino a fare da servi agli interessi dell’Occidente. Io credo che questa politica imperiale, di “gendarmi del mondo” che si sono autonominati tali, non paghi più, nemmeno in termini di realpolitik. Credo che sia venuto finalmente il momento di lasciare agli altri popoli il diritto elementare di autodeterminarsi da sé, secondo la propria storia, le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria vocazione e anche i propri interessi. E forse allora scopriremmo che l’evidente ostilità che circonda l’Occidente, in Medio Oriente, in America Latina, in quel che resta dell’Africa nera, in Asia centrale, in Afghanistan, non è dovuta a motivi ideologici o religiosi, ma alle prepotenze militari, economiche e politiche di cui li facciamo oggetto da decenni se non da secoli. Usando costantemente la pratica dei “due pesi e due misure”. Questo sarebbe anche un modo per spazzar via il radicalismo terrorista, che peraltro è un fenomeno marginale. Dopo gli attentati londinesi di qualche anno fa, il sindaco di Londra, Livingstone, molto amato dai suoi concittadini, li condannò, ma disse anche: “Se il popolo inglese avesse dovuto subire le ingerenze che noi anglosassoni stiamo perpetrando da più di un secolo su quelli arabi e musulmani, credo che io sarei diventato un terrorista britannico”.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2011)

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