lunedì 7 febbraio 2011

ROTTA DEL SAHARA 1986: regata velica ovvero "viaggio avventura"



Rientrato finalmente a casa e con un’abbronzatura esagerata, Salvo si apprestò a scrivere al suo caro amico, cercando di raccontare con distacco il resoconto di quell’ultima esperienza umana che aveva vissuto in sua vece. 
“Carissimo, come forse già sai, ti informo che alla fine ho accettato di prendere il tuo posto in quella regata a cui tenevi tanto; quindi, per darti idea di quello a cui giocoforza hai dovuto rinunciare, te ne faccio in breve il racconto.
Come previsto, tutto ebbe inizio la mattina di sabato trenta luglio. Con partenza dal Molo Sud, l’improvvisato equipaggio di partenza era costituito da colleghi e affini: il capitano: skipper ufficiale, Gianni: collega ed all’origine amico: alle manovre ed all’occorrenza secondo timoniere, Roberto: figlio dello skipper addetto alle manovre, ma rivelatosi capace di parare tutto; come un portiere da nazionale, Io: potenzialmente fotografo-documentarista, ma marinaio in esperimento. 
Non ero mai stato per lungo tempo su una barca a vela e men che meno mi ero mai avventurato fuori del golfo natio. Fin dalle prime battute e già durante i preliminari d’avvio da Mondello, ebbi modo di capire che non sarebbe stata una regata facile. Apparvero da subito evidenti le potenzialità tecniche di quel gruppo; cosa che mi costrinse – fin dall’inizio – ad abbandonare l’idea di usare la telecamera o la macchina fotografica per riprendere più interessanti fasi di gara. Peraltro, relegandoci costantemente da subito nelle ultime posizioni, raramente si riuscivano a vedere le altre barche da vicino, quindi, sarebbe stato pressoché impossibile riprendere interessanti fasi d’avvio. 
Comunque, partiti con il decubertiano proposito di divertirci facendo una regata rilassata, tranquilla e spensierata, in verità da subito emersero gli assurdi isterismi repressi (verificammo poi che le stesse manovre stressanti, se effettuate fuori gara, con tranquillità e senza apprensioni riuscivano sempre meglio; allora era l’adrenalina che si scatenava nelle fasi di gara; e Decuberten?). 
Al primo evento rimasi sconvolto, ignaro circa le reali potenzialità dell’effimera ciurma e della stessa barca.Nei momenti topici partivano contemporanei nevrotici comandi, spesso dissimili e qualche volta clamorosamente contraddittori: in verità era una vera torre di babele. Nonostante tutto, con l’impiego quasi immediato dello spinnaker, la prima regata ci vide ottimi partenti; dopo meno di un’ora di navigazione, però, ed in piena fase di recupero, a causa di una leggerezza dell’improvvisato timoniere, Roberto, riuscimmo a far sbandare paurosamente la barca, con la conseguente perdita d’assetto (posizione a squadra, terrificante per me) ed il conseguente incaramellamento dello spi. Confesso che per un breve attimo ebbi veramente paura di affondare, scrutai gli sguardi altrui e la paura restò solo dentro di me. Fu il mio battesimo, in seguito presi ad abituarmi a tutto. 
In breve, quindi, un folto numero d’imbarcazioni prese a superarci, ma noi riuscimmo a fare di peggio. Dopo avere finalmente ripreso abbrivio con il genoa pesante, rimontammo lo spinnaker nella speranza di riguadagnare le posizioni perdute, ma – avendo lasciato in bando la drizza del genoa – al primo ovvio incaramellamento dello spi riuscimmo nell’inconscio intento e stappammo la vela. Nel pomeriggio arrivammo mestamente a San Vito, ovviamente classificandoci nelle ultime posizioni. L’ormeggio al porto fu abbastanza semplice in quanto riuscì al secondo tentativo. Si provvide subito ad una pronta riparazione dello spi che si era stappato leggermente nella parte bassa vicina al punto di scotta. La cucitura improvvisata che si rivelelerà in seguito efficace, con un rammendo estemporaneo e  robusto. La serata trascorse poi tranquilla, nella degustazione della tipica specialità locale a base di pesce.
L’uscita del mattino successivo dal porto di San Vito fu la prima di quelle drammatiche. Causa una catena calata incautamente da un motoscafo attiguo sopra la nostra catena che agganciava l'ancora, riuscimmo a stento a non incidentare seriamente la prua. Corremmo animatamente qua e là e in ogni parte della barca per parare i potenziali colpi contro le altre imbarcazioni vicine che, inermi, erano splendidamente ormeggiate: e fu il nostro primo “spettacolo”.
Finalmente, usciti dal porto usando randa e genoa pesante, arrivammo nel primo pomeriggio a Levanzo; si era trattato di una tappa non competitiva, di solo trasferimento. 
Qui, dopo una rilassante nuotata in una gradevolissima baia dell’isola dall’acqua cristallina e di un verde smeraldo, badammo a rabberciare un pranzo e nel tardo pomeriggio cercammo rifugio in porto affiancandoci ad un robusto peschereccio che, come vedremo, l’indomani tentammo di sconquassare. 
La serata trascorse in maniera rilassante, degustando a chiusura un prelibato gelato in un tipico bar del luogo. Come accennato, all’indomani, la partenza alla volta di Favignana fu un vero disastro e fu prova – se ne occorreva ancora conferma - del totale scollamento fra gli estemporanei membri del nostro fantozziano equipaggio. 
Nel mentre ci si apprestava ad organizzare l’interno del natante, trafficando anche in cambusa per preparare le vivande della giornata, il capitano ebbe netta la sensazione che la barca si stesse muovendo e non ci volle molto per verificarne la veridicità. L’incauto Gianni, infatti, equivocando le istruzioni ricevute, mentre tutto il resto dell’equipaggio era sotto coperta, aveva intanto mollato entrambe le cime di poppa che ormeggiavano la barca e questa, a causa del vento, ora andava spostandosi, avviandosi lentamente, ma decisamente – verso acuminati scogli che apparivano sempre più vicini. Al grido del capitano: “tutti in coperta” scoppiò il casino più totale. La cima di prua, facendo da perno all’imbarcazione lanciata disperatamente con il motore in retromarcia, restava serrata al massimo e non permetteva la sua liberazione; pertanto, l’ancora tirata che non era stata ancora imbarcata, complice il beccheggio causato dalle onde, iniziò il suo lavoro d’implacabile distruzione sulla poppa del peschereccio cui rimanevamo ancora saldamente agganciati; e fortunatamente non cedette l’ormeggio alla banchina di quest’ultimo. 
Non ricordo più bene, ma forse riducendo il motore e con l’aiuto del mezzomarinaio fu ridotta per un attimo la trazione di quel tanto che permise di liberare la cima tesa, o forse fu solo un miracolo. Uscimmo dal porto frastornati, come reduci da un incubo. 
In ogni modo, anche in questa circostanza, l’isterismo e il panico avevano avuto il sopravvento, non facendo neanche riflettere sul fatto che ad evitare il potenziale dramma sarebbe bastato un tempestivo utilizzo di qualche traversino e non, aimè, lo sconsiderato uso del motore a pieno regime. 
Arrivati a Favignana riuscimmo ad ormeggiare, ma al secondo tentativo; ben presto da Levanzo ci raggiunse il proprietario del peschereccio che avevamo maldestramente danneggiato e non tanto per avere risarciti i danni che gli avevamo procurato, ma per riportarci “signorilmente” il mezzomarinaio che nella concitazione avevamo abbandonato sulla sua imbarcazione. Umiliati al massimo e con lo sguardo basso chiedemmo scusa per tutto e ringraziammo.
A Favignana si aggregò alla "compagnia" il membro d’equipaggio mancante, il quinto, al secolo Attilio e fummo “completi”.
Per il sottoscritto, ottimista per natura, l’arrivo del nuovo crocierista procurò uno spontaneo e fiducioso sospiro di sollievo. Alla luce dei fatti accaduti, infatti, auspicavo l’arrivo di almeno un lupo di mare che ne capisse qualcosa e, per me, che fino al giorno prima della partenza cime, drizze e scotte erano tutte delle uguali corde, non era poca cosa.
Quello stesso pomeriggio ci fu la partenza alla volta di Pantelleria e, miracolo, l’uscita dal porto avvenne per la prima volta senza patemi. La regata Favignana-Pantelleria si svolse anch’essa in maniera relativamente tranquilla e fin dall’inizio fu utilizzato pienamente e senza errori lo spinnaker, finalmente ben bilanciato col relativo tangone. 
Comunque, anche per la caratteristica obesità dello scafo, gradualmente e dopo non molto tempo le diverse imbarcazioni concorrenti - tutte quelle partite dopo di noi - cominciarono a sopravanzarci e non ci volle molto per rimanere nelle ultime posizioni; la nostra lentezza fu acclarata dal fatto che in serata fummo superati anche dal mitico  “Legno Duro”. 
Nella nottata, però, udite udite,  grazie ad azzeccati cambi di vele, riuscimmo a recuperare ed in vista del traguardo riuscimmo a superare tante di quelle barche da riuscire a classificarci al diciottesimo posto assoluto: un successo (costituì il migliore nei risultati parziali). 
Questa volta anche l’ormeggio in porto fu uno dei più felici ed al molo trovammo ad attenderci la “cambusiera”, consorte del Capitano. Da quel giorno migliorò anche il vitto e fu grazie a questi benefici avvenimenti che l’eterogeneo equipaggio, approfittando anche della giornata di sosta, ebbe l’opportunità di concedersi il cazzeggio per rilassarsi un poco. 
Alla partenza per la terza regata “Pantelleria-Monastir” con la presenza di un vento molto sostenuto ricomparvero però i vecchi fantasmi. Mentre le altre barche provavano le vele o aspettavano tranquille il loro turno di partenza, noi riuscimmo – anche in presenza di quelle forti folate – a fermare la barca pochi attimi prima dell’avvio ufficiale.  
Nel cercare di dare un maggiore abbrivio, riuscimmo a perdere, infatti, anche quella risicata velocità passiva, solo meccanicamente acquisita. In breve, partimmo lentamente e con circa otto minuti di ritardo rispetto all’orario prefissato; il genoa pesante, appena preso un po’ più di vento e velocità, mostrò la “pesantezza” dei suoi anni lacerandosi e scucendosi in più punti: inutilizzabile. 
Prua al vento provvedemmo, non senza difficoltà, ad ammainare la restante vela per sostituirla con un più piccolo “fiocco uno”, rimanendo con la randa “ad una mano di terzarola”; il tutto mentre altri concorrenti che montavano sfavillanti genoa pesanti e rande piene ci sfrecciavano da vicino. Noi, comunque imperturbabili, riprendemmo a navigare secondo le nostre collaudate capacità e i nostri tempi reattivi. 
Dopo l’imbrunire le condizioni del mare peggiorarono ed alle prime ore della sera la radio di bordo diede notizia che “Zucchero Filante” aveva disalberato e che altre imbarcazioni vicine si apprestavano a darle soccorso. Noi, pure in balia del mare con la barca, seguivamo (e in questo caso fortunatamente) abbondantemente lontani. 
Secondo i nostri ritmi di navigazione, solo dopo due ore circa dall’accaduto incrociammo le anzidette barche incidentate che, contromano, mestamente rientravano a Pantelleria. Dopo una nottata di mare forza 4-5, con vento di scirocco di prua, io avevo dormito solo poche ore e solo a tarda notte; e giammai adagiato sulla cuccetta, ma, sbattendo la testa, sull’improvvisato giaciglio costituito dalla fiancata di prua della barca. Al mattino ci ritrovammo tutti seduti nel pozzetto, con occhiaie e sguardi spenti nonostante il caffè, a galleggiare nel mare nel bel mezzo di una bonaccia indicibile. 
Solo dopo alcune ore, con l’arrivo di una leggera brezza ed in compagnia del “Passatore”, intanto sopraggiunto nonostante il soccorso prestato a “Zucchero Filante”, riuscimmo ad arrivare alla meta ufficiale con l’impiego “tangonato” dell’MPS. 
L’arrivo avvenne come i successivi. Fu prima avvistata terra, poi cominciò a delinearsi la netta sagoma di una città (che era Monastir) e subito lo Skipper affermò che si trattava di Sousse, in quanto Monastir la conosceva bene e la città che s’intravedeva aveva inconfutabilmente aspetti diversi; ciò nonostante si definisse già e chiaramente il tipico castello. Roberto, ovviamente, sosteneva il contrario e man mano che ci si avvicinava alla costa il contraddittorio diveniva più serrato. Con difficoltà si riuscì a convincere il Capitano a non cambiare rotta; e dire che per dirimere la diatriba fu presa visione anche del “portolano”. In prossimità del porto e solo dopo avere visto chiaramente i profili delle imbarcazioni concorrenti da tempo ormeggiate, approdammo anche noi a Monastir. L’approdo fu di quelli drammatici, da dimenticare, e fu subito l‘ennesimo spettacolo. 
A causa di una leggera brezza la barca, lasciata in balia di se stessa a causa del mancato immediato appoggio del motore, si diresse minacciosa verso altri pontili con tutti noi rimanevamo impegnati a parare i colpi da tutte le parti; nella circostanza scoprii l’utilità e l’efficace valenza dei parabordi. Dopo l’avvicinamento minaccioso alle imbarcazioni già ormeggiate, alla fine, con il pieno e deciso uso del motore, riuscimmo nell'ormeggio. Fu un problema anche l’attracco finale per il non chiaro utilizzo e impiego delle cime volte a stabilizzare la barca in banchina, ma in qualche modo ci si riuscì. 
Nel pomeriggio di relax parte del tempo fu destinato all’accurato lavaggio dell’imbarcazione, che era divenuta intanto più zozza di noi. La competizione sportiva per la nostra barca finiva lì. Infatti, dopo altalenanti proposizioni fu infine deciso che a causa di carenze di vele non eravamo in condizioni di partecipare al previsto “triangolo” di Monastir, previsto per l'indomani e ultima tappa dell’intera regata. In questo caso la scelta si rivelò quella giusta, anche perché la gara non ebbe poi svolgimento. 
La sera di sabato 6 agosto, ad una settimana appena dalla partenza ma che sembrava un’eternità, avvenne la premiazione e nell’occasione le ospitali rappresentanze locali offrirono un sontuoso banchetto che vide la partecipazione di non meglio precisati esponenti politici tunisini. Era quello pure il giorno del mio compleanno e, rivivendo le avventure, ebbi l’ennesima certezza di essere nato sotto una buona stella. 
Carissimo, il racconto che ti ho fatto della “storica” regata finisce qui, preferendo sorvolare sulle successive vicende che accaddero durante la navigazione di ritorno, alla volta di Palermo: imbranamenti generalizzati nelle fasi d’ormeggio – diventati intanto veri e propri incubi – e crescenti isterie, prossime alle schizofrenie più acute ed incontrollabili, costituirono però delle costanti. 
Al sottoscritto rimarrà, comunque, sempre vivo il ricordo del drammatico approdo notturno all’isola di Marettimo: da incubo. Dopo l’ennesimo guasto al motore, che impose un’imprevista lunga sosta nel bel mezzo del Canale di Sicilia in balia di una quasi bonaccia e vicini a sfreccianti petroliere e portaconteiners in navigazione, nella notte il faro di Favignana fu scambiato per quello di Marittimo. Ovviamente, come al solito, il faro di quest’ultima non veniva accettato per il veritiero dal Capitano, poiché, a suo dire, le frequenze non erano costanti: in realtà si trattava del lontano faro di Favignana. E di nuovo, solo a stento e con molte insistenze, riuscimmo a convincere il Capo che con la manovra che stava attuando, lasciando Marittimo alla nostra sinistra. E dire che in diversi avevamo distinto - ed in modo netto, nonostante la notte senza luna, grazia ai fiochi bagliori del paese – la caratteristica sagoma dell’isola di Marettimo. 
Con un motore "out" alimentato stentatamente a causa di filtri ultra intasati e dopo una protratta andatura zigzagante fra Favignana e Marettimo, finalmente ci dirigemmo verso la giusta direzione per il porto. Anche in questo caso non mancarono gli ampi margini di rischio, poiché prima di raggiungere il molo riuscimmo ad avvicinarci con quel buio – e pericolosamente – alle impervie scogliere retrostanti all’isola dove era ubicato il faro e che restava punto opposto rispetto al porto di Marittimo. 
Quest’avventura estiva resterà per me un’esperienza indimenticabile e certamente da mai più ripetere; nell’occasione ebbi pienezza del detto secondo cui “a mmari un cci nni sunnu taverni” e che pure che ai rischi teorici non corrispondono sempre le aleatorietà reali. 
Il massimo dell’orgasmo isterico accadde in ogni caso nel vano tentativo d'ormeggio al porto di Terrasini. 
Dopo due prove andate a vuoto, riuscimmo a rendere drammatico anche un banalissimo approdo “guidato” finalizzato al necessario rifornimento di nafta. Nell'occasione ci accomiatammo dal prezioso e buon Attilio; nella circostanza, Roberto, dichiarando con gli occhi fuori delle orbite di averne piene le tasche abbandonò anch’esso la “nave”. Pure Gianni, che in teoria sarebbe dovuto tornare a Palermo con noi, fu escluso clamorosamente dal risicato equipaggio di ritorno. E non finì lì. Dopo dell’ultima violenta scarica d’elettricità neurologica avvenne nella serata l’anelato e liberatorio arrivo a casa. Ovviamente anche l’ultimo ormeggio si rivelò difficile, con il mezzomarinaio perduto in acqua nel buio della sera e recuperato fortuitamente solo perché inaffondabile e nonostante la cima di boa fosse già stata fissata. 
In conclusione posso ben dire di avere vissuto un’avventura irripetibile, che rimarrà ben fissata nei miei ricordi.
Un affettuoso saluto da ................ Salvo”. 
Dal tutto si può facilmente evincere quanta appropriata risulti la firma apposta in chiusura di questa lettera-racconto. 
Può, anche, apparire superfluo precisare che da allora Salvo non calcò più nessun’altra coperta di barca a vela. Quando ebbe a raccontare questa storia andò pure ripetendo che una simile esperienza può costituire di certo un'efficace terapia liberatoria, perchè riesce a scaricare energie recondite, anche in soggetti più introversi, e mette a dura prova il più alto limite della sopportazione umana.

essec


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