mercoledì 16 marzo 2011

Caso Moro: le verità nascoste

Dal tunnel del caso Moro continuano ad uscire pezzetti di verità: dopo oltre trent'anni da quella pagina nera, spunta un altro testimone. Non vuole rivelarsi e dunque lo chiameremo signor Mario, ma crediamo che le sue parole vadano prese sul serio, soprattutto dopo che anche la procura di Roma ha giudicato opportuno ascoltarlo. Il signor Mario era un giovane militare di leva nel marzo del 1978 ed ebbe una esperienza che non ha mai voluto raccontare perché così gli dissero, forse poco teneramente, di fare. Mi ha chiamata dopo aver letto l'Anello della Repubblica, scegliendo di confidarmi una storia che non vuole più lasciare solo in un angolo della sua memoria.

D. Che cosa ha da raccontarmi?
R. Ho fatto parte di un gruppo di dieci uomini scelti per tenere sotto osservazione via Montalcini. Era il 23 aprile del 1978. Ci dissero dove stavamo e cosa dovevamo fare solo una volta arrivati: eravamo partiti da Napoli e non sapevamo cosa ci aspettasse.

D. E cosa vi dissero di fare?
R. Ci dissero di sorvegliare l'appartamento dove era sequestrato l'on. Moro. Il nostro compito principale era controllare tutti i movimenti provenienti da quell'appartamento. Avevamo una postazione di controllo: sulla strada era situato un lampione per l'illuminazione stradale che fu smontato pezzo per pezzo da falsi tecnici dell'Enel, portato in una caserma dei Carabinieri dove fu installata una micro telecamera all'interno della lampadina: serviva per vedere gli spostamenti all'interno dell'appartamento. Dovevamo poi sorvegliare i movimenti intorno al palazzo e tenere sotto osservazione i bidoni della spazzatura. Moro era tenuto, ci dissero, nell'appartamento del piano rialzato, quello con il giardinetto. In quello del primo piano erano stati messi microfoni ad alta ricezione, in grado di captare anche i più piccoli rumori. Roba sofisticata per l'epoca, forniti, infatti, da agenti stranieri. Ricordo di aver visto la Renault 4 rossa parcheggiata nel cortile che dava ai garage e un'altra auto, una Rover con targa straniera e con una o forse più multe poste sul parabrezza. Un giorno fu portata via e fu piuttosto sconcertato quando la rividi nello spiazzo della caserma di via Aurelia.

D. Quanto durò questa missione?
R. Fino all'8 di maggio, un giorno prima dell'epilogo tragico del sequestro. Ci dissero che il nostro compito era finito e che ci avrebbero rispedito alle nostre destinazioni. Rientrai ad Avellino e poi ho avuto il foglio di trasferimento per Battipaglia (Salerno). Mi è stato esplicitamente detto di dimenticare quello che avevo visto e fatto a Roma.

D. Perché altrimenti?
R. Ci dissero che avremmo avuto conseguenze. Io sempre avuto paura e non ho mai voluto raccontare questa mia esperienza. Ora con tutte le cautele ho deciso di farlo, magari può essere utile, non so.

D. Che fine hanno fatto i suoi compagni?
R. Di loro non ho avuto più notizie. Forse ci mandarono in caserme molto distanti, proprio per evitare che ci incontrassimo di nuovo. Chissà, in fondo non è certo questo il mistero della storia..

L'esperienza del signor Mario può suggerire tante cose ma tutte andrebbero verificate. E' certo che lascia di stucco: durante i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro nessuno sapeva dell'esistenza di un covo-prigione in via Montalcini. Il generale Dalla Chiesa suggerì una sua ipotesi durante un'audizione in parlamento: cioè che da via Montalcini fosse uscita una Renault 4 quella mattina, ma vuota. Ciò che Moro non fosse lì. Comunque, qualcuno sapeva che in quell'appartamento non c'era solo una normale coppia di giovani sposi. Così come era sotto osservazione, da lontano, il covo di via Gradoli: lo ha detto un uomo dell'Anello, spiegando che fu impedito un blitz per liberare Moro. L'impressione, quasi certezza a questo punto, è che durante il sequestro del presidente della Dc, i movimenti delle Brigate Rosse furono seguiti costantemente ma con grande, grande discrezione.

Stefania Limiti - (Cado in Piedi - 12 Marzo 2011)

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