venerdì 4 marzo 2011

Perché dico no all’intervento in Libia

Hillary Clinton, sia pur in modo ambiguo, ha ventilato la possibilità di un intervento militare americano e Nato in Libia: “Continueremo a esplorare tutte le possibili vie per ulteriori azioni… Non c’è alcuna azione militare imminente che coinvolga navi statunitensi”. Le parole chiave sono “tutte” e “imminente”. Quando si afferma che “tutte” le opzioni sono possibili si include anche quella militare. E ciò che non è “imminente” oggi potrebbe diventarlo domani. Intanto la Sesta flotta è in rotta verso le coste libiche e l’Italia ha già autorizzato gli Usa a usare, per i suoi aerei, la base di Sigonella “a scopi esclusivamente umanitari”. E si sa come vanno a finire gli “scopi umanitari” gestiti da piloti americani dal grilletto facile.

Un intervento militare americano, inglese, Nato o comunque straniero in Libia non sarebbe in alcun modo accettabile. Per motivi di principio e per ragioni molto concrete. Per il principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito solennemente a Helsinki nel 1975 e sottoscritto da quasi tutti gli Stati del mondo. Per il principio di diritto internazionale di “non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi”. E infine perché gli stessi rivoltosi libici, pur essendo in inferiorità militare rispetto ai mezzi di cui dispone Gheddafi, hanno dichiarato che non lo vogliono. “È una questione che deve essere risolta solo fra noi libici”. Capiscono benissimo che un intervento americano sarebbe un modo per mettere il cappello sulla loro rivolta e non vogliono aver versato e versare il loro sangue per vedersi imporre, alla fine, una “pax americana”.

Non tocca agli americani stabilire chi ha torto e chi ha ragione in Libia. Sarà il verdetto del campo, il sacrosanto verdetto del campo di battaglia, a deciderlo. Così come non toccava agli americani nel conflitto kosovaro-serbo, dove si confrontavano due ragioni: quella dell’indipendentismo albanese e quella dello Stato serbo a mantenere l’integrità dei propri confini e la sovranità su una regione, il Kosovo, che nella storia di quel Paese è considerata, come da noi il Piemonte, “la culla della Patria serba”. Gli americani decisero invece che le ragioni stavano solo dalla parte degli indipendentisti albanesi e, ponendo un precedente pericolosissimo, bombardarono per 72 giorni una grande capitale europea come Belgrado (naturalmente oggi in Kosovo c’è la più grande base militare americana del mondo ed è stata perpetrata la più colossale “pulizia etnica” dei Balcani: dei 360 mila serbi che vi risiedevano ne sono rimasti solo 60 mila).

Quando sento parlare di “diritti umani” io metto, idealmente, mano alla pistola. Perché vuol dire che si sta per aggredire qualcuno. Come è avvenuto in Afghanistan, dove per imporre alle donne di liberarsi del burqa, esportare la democrazia e cacciare i talebani che avevano almeno assicurato a quel Paese sei anni di pace in tanti di guerra, l’occupazione Usa-Nato ha provocato, direttamente con i bombardamenti aerei a tappeto e indirettamente per le reazioni della guerriglia, 60 mila vittime civili mentre il 40% dei ricoverati in ospedale sono bambini al di sotto dei 14 anni. Un perfetto “intervento umanitario”.

L’altro ieri, in un agguato talebano, è morto un alpino. I nostri comandi militari la devono smettere di dirci menzogne. Hanno affermato che i tredici mezzi corazzati, su cui viaggiava anche il tenente Massimo Ranzani, erano di ritorno dal villaggio di Adraskan dove avevano “prestato assistenza medica ad alcuni ammalati”. Ora, per “prestare assistenza medica ad alcuni ammalati” non ci si muove con tredici blindati. Oppure la situazione in Afghanistan è talmente compromessa che anche per un’operazione così semplice ci vuole una protezione militare imponente non solo nei confronti dei talebani, ma delle reazioni della popolazione. “E quando tu devi temere la popolazione qualche domanda dovresti pur portela” mi ha detto Cecilia Strada che, con Emergency, in Afghanistan è di casa.

Gli italiani si meravigliano di essere colpiti mentre svolgono “azioni umanitarie”. Nel dicembre 2007, quando un militare italiano fu ucciso e altri tre feriti mentre stavano riassestando un ponte nella valle di Laghman, il principale portavoce del Mullah Omar, Oari Yusaf Ahmadi, descritto come “giovane, gentile, cortese”, al giornalista del Corriere Andrea Nicastro che gli obiettava che gli italiani volevano solo fare un’opera di bene, rispose seccamente: “Colpiremo ancora gli italiani. Non ci interessa se distribuiscono elemosine o sparano. Sono alleati degli americani e quindi invasori. Se ne devono andare. Prima lo capiscono e meglio sarà per loro”.

In un recentissimo reportage, La terra dei Taliban (settembre 2010), il giornalista inglese Jonathan Steele, del Guardian, riferisce che dopo dieci anni di occupazione tutti gli afghani, talebani e non, pashtun, tragiki, hazara, gente delle campagne e persone colte delle città, uomini e donne, persino le professioniste che sono state le più sacrificate dalla rigida interpretazione talebana della sharia, vogliono una cosa sola: che gli stranieri se ne vadano e poter risolvere da soli, fra loro, fra afghani, le proprie questioni.

Mentre persino il presidente Berlusconi mostra qualche perplessità sulla missione afghana, i ministri La Russa e Frattini continuano a ripetere come un disco rotto che “siamo legati ai nostri impegni internazionali. È una menzogna. Gli olandesi che, a differenza nostra, si sono battuti bene nella zona forse più pericoloae di tutto l’Afghanistan, nell’Urozgan, patria del Mullah Omar, in Helmand, se ne sono andati nell’agosto 2010 dopo aver perso 26 uomini, fra cui il figlio del loro comandante Van Hum, quasi tre volte più degli italiani in proporzione al loro contingente di mille effettivi. Entro il 2011 se ne andranno i canadesi, che hanno combattuto anch’essi in Helmand perdendo, al luglio 2010, 151 uomini su 2800. Nel 2012 sarà la volta dei polacchi. Solo noi dobbiamo rimanere a fare i cani fedeli degli americani?

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2011)

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